Cesare/XIII
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XIII.
Cesare intanto non era più felice di lei.
Quella sera, dopo la scena nel bosco, egli non potè separarsi da Teresina ch’era fuori di sè per lo spavento e la vergogna, e rimase vicino a lei fino all’alba. Finalmente le disse addio promettendole che sarebbe ritornato nella giornata per collocarla convenientemente presso qualche buon colono.
L’aveva chiamata sua moglie davanti a una dozzina di testimoni; non era più il caso di tornare addietro, e; diciamolo subito a scanso d’equivoci, il giovane non ci pensava nemmeno.
Era stato debole: aveva ceduto al fascino di un momento: poi s’era lasciato trascinare da una pietà generosa, ma sconsiderata: aveva data la sua parola solennemente. Non c’era rimedio, bisognava tenerla.
Cesare era molto giovane: le idee di una giustizia ideale non erano morte ancora nell’anima sua; anzi, la recente campagna di guerra nella quale aveva combattuto per la libertà d’Italia, aveva rese più robuste le sue massime generose sull’onore, sull’eguaglianza.
Giudicava la propria condotta verso l’Emilia come imperdonabile e ne aveva vergogna. Non cercava di giustificarsi col pensiero ironico ch’ella si sarebbe facilmente rassegnata: sapeva quanto doveva soffrire e ne sentiva rimorso: ma non gli pareva possibile di poter tornare indietro. La posizione della filatrice gli sembrava tanto più desolata, ove egli avesse mancato alla sua parola, che si sentiva assolutamente legato a lei.
E per nulla al mondo non avrebbe osato mostrarle il suo rammarico interno: capiva che l’avrebbe uccisa, e che da parte sua sarebbe stato abbietto.
Ella lo amava tanto, e glielo dimostrava con tanta delicatezza.
Faceva pietà a vedere l’ansia angosciosa con cui ascoltava ogni parola del giovane, e osservava ogni suo gesto, timorosa di leggervi un pensiero di noia o di pentimento.
A momenti le pareva di sognare ancora come quella sera fatale: tanto bella era la realtà, tanto inattesa la felicità che le era promessa, che non osava crederla vera. Le pareva troppo per lei.
Commoventi erano le manifestazioni ingenue della piccina. Chiamava «babbo» e poi batteva le mani, e poi nascondeva il capino in grembo alla sua mamma, tutta vergognosa d’essersi lasciata scorgere. Allora Cesare, trasportato da un sentimento irresistibile, prendeva la sua figliuola fra le braccia, la fissava amorosamente e finiva col darle tanti e poi tanti baci che pareva se la volesse mangiare.
Ma quando era solo in mezzo alla campagna e respirava l’aria libera dei boschi e dei campi, provava la sensazione di chi si risveglia da un lungo e torpido sonno. Anche lui penava a persuadersi che quella era la verità, ma per diversa ragione. Si toccava la fronte, s’arrestava in mezzo ah cammino:
Ma era proprio lui, Cesare? Era lui che non rivedrebbe mai più la sua Emilia?
Chinava il capo in atto di sconforto e continuava lentamente, meccanicamente la sua strada, senza uno scopo, senza un pensiero ben determinato. Si sentiva debole, incerto; un filo d’erba in balia del caso.
Una mattina, improvvisamente, si trovò davanti alla vasca ombreggiata dalle due quercie secolari, circondata dai cipressi e dai salici. Davanti al «lago» che piaceva tanto all’Emilia.
Nella continua distrazione, in quell’assorbimento morboso dèlia volontà, l’abitudine l’aveva ricondotto sulla nota strada, vicino alla villa di Salvore. S’arrestò e volse gli occhi in giro. Allora rivide il posto dove s’era seduto con la sua fidanzata, l’ultimo giorno, quel giorno. Dove erano andati i giuramenti d’amore eterno, e i progetti d’avvenire che avevano fatto insieme? Eppure, scrutando la sua coscienza, egli si ricordava ch’era stato in buona fede: lui l’adorava la sua bella Emilia; fino al momento della catastrofe era sicuro di non abbandonarla mai: gli pareva impossibile di poterla tradire. Ah! ma perchè dunque s’era lasciato andare a chiedere un colloquio alla filatrice? Non poteva assisterla lo stesso senza parlarle? Era vero, ma il suo cuore s’era commosso fin dal primo momento che aveva veduta la bimba: la sua figliuola. Il male stava tutto là, in quelle benedette emozioni che lui non poteva padroneggiare!
Aveva [?]e dirsi che tutti i suoi pari, cominciando dal suo nobile nonno, avevano di questi figliuoli illegittimi ai quali sapevano provvedere senza sacrificargli nulla della propria vita: sentiva che, quanto a lui, il caso era tutto diverso.
Ma l’immagine del conte nonno, entrata di straforo nella sua mente vi rimase portando seco un tutt’altro ordine d’idee. Non l’aveva ancora veduto. L’aveva sfuggito.
Ma finalmente una volta o l’altra bisognava bene manifestargliela; al vecchio, la sua nuova risoluzione.
Come la avrebbe accolta?
Gli avrebbe minacciato di diseredarlo certo.
— Per questo, poco male! pensava....
La legittima paterna e ciò che gli avrebbe dato in ogni caso la madre, ricchissima di suo, bastava ai suoi desideri assai limitati... su questo riguardo.
Quanto a impedirgli di fare la sua volontà era impossibile: non gli mancavano che sei mesi a compire i ventiquattr’anni; e allora era libero per legge.
Arrivato a casa cercò dì sua madre e le raccontò tutto, poichè nè anche con lei aveva ancora avuto il coraggio di parlare. Lei peraltro ne aveva già sentito qualche cosa e pensava alla disperazione di Emilia, Questa sola cosa la preoccupava. Del resto, se il suo figliuolo voleva proprio sposare la filatrice, se questo era necessario alla sua felicità, non c’era rimedio e si rassegnava.
Lui taceva per non toglierle almeno questa illusione di crederlo felice, e quando la vedeva meravigliarsi di questo suo rapido cambiamento d’affetto, mentiva a rotta di collo inventando le più strane teorie.
La signora Ottavia gli consigliò che per il momento non dicesse nulla al vecchio; le pareva meglio assai che lui aspettasse di esser maggiorenne per dire francamente le sue ragioni. Intanto però si disponeva a trovare un pretesto per andare subito a Pirano a fare una visita all’Emilia. Ma il signor Luigi non gliene lasciò il tempo. Quello stesso giorno arrivò un domestico incaricato di rimettere una lettera e un plico al contino Cesare.
La lettera era tutta di mano del signor Luigi e confermava in poche parole l’annullamento d’ogni promessa tra il giovane e la sua pupilla, in conseguenza dello scandalo ch’era successo.
Il vecchio diceva inoltre che sua nipote, per risparmiare a se stessa nuovi dispiaceri pregava le sue cugine a dispensarla da qualunque visita finchè il tempo l’avesse aiutata a dimenticare.
Questa era un’alzata d’ingegno del signor Luigi, che la povera Emilia, malata com’era in que’ primi giorni e fuori di se non gli aveva dato certo alcun ordine; ma il vecchio diplomatico pensava che è indegno di vivere chi non sa spingere un po’ il corso degli avvenimenti secondo i propri desideri.
Il plico conteneva tutte le lettere che Cesare aveva scritto alla sua fidanzata, il suo ritratto e alcuni gingilli di poco prezzo, di quelli, peraltro, cui il cuore ne annette uno mille volte maggiore.
Cesare gettò tutto in un canto e si diè attorno di preparare la stessa restituzione: tormentato dai suoi tristi pensieri e punto dal dispetto e da una crudele angoscia. Il messo aveva una lettera anche per il conte nonno, e il signor Luigi l’aveva incaricato di consegnarla personalmente.
Bisognava dunque farlo entrare senz’altro nella famosa biblioteca, dove nessuno osava presentarsi senz’esser chiamato e al cui uscio servi e cameriere bussavano sommessamente quando nella guardaroba mancava la seta e nella dispensa le ova, il caffè o lo zucchero. Poichè tutte queste cose, il conte nonno le teneva sotto chiavi, insieme ai libri e ai manoscritti preziosi. Il messo entrò tremando. Il conte nonno era là in mezzo ài suo regno. Le ova stavano schierate, o meglio ammucchiate in un angolo della vasta sala, delicatamente, sopra uno strato di giornali spiegati, e altri giornali le ricoprivano. Il caffè e lo zucchero, in larghi barattoli, profumavano lo stesso scompartimento della immensa libreria, dedicato alle classiche pubblicazioni del Le Monnier. La seta da cucire faceva all’amore coi tragici francesi, Corneille e Racine e Voltaire che erano i più famigliari autori del vecchio.
Egli alzò il capo, e visto l’uomo dalla lettera gli fece subito un muso scuro: qualche sentore della scena avvenuta lo aveva già avuto, ma forse sperava che le cose si sarebbero rimesse a posto senz’altro.
Prese la lettera senza parlare e la lesse.
— Canaglia! brontolò fra i denti.
Poi, tranquillo sempre di fuori, fe’ cenno all’uomo di attendere, scrisse due righe di risposta al suo amato vicino, con le quali gli diceva che se le cose stavano veramente come raccontava lui, aveva ragione, ma che per conto suo, non ne sapeva nulla fino allora. Fatto questo, sigillò la lettera e la consegnò al servo.
La vita divenne sempre più malinconica e uggiosa al castello dei conti di ***.
Il vecchio non diceva una parola, non faceva domande e credeva diplomatico e di suo decoro fingere d’ignorare ciò che suo nipote non credeva opportuno di confidargli. Pesava su tutti un atmosfera grave, soffocante.
Faceva pietà la tortura di quelle povere cinque ragazze.
A tavola ciascuno guardava nel proprio piatto. Quelle povere bimbe non osavano nemmeno scambiare una parola fra di loro.
Solo le due più piccole si davano qualche pizzicotto sotto la tavola, tanto per far qualche cosa, e un «ahi!» soffocato, un mezzo scroscio di risa irrefrenabile provocavano le occhiute più severe del vecchio tiranno, e qualche sospiro della mamma trepidante per le sue creature.
E intanto i piatti destinati alla vecchia favorita uscivano ricolmi come sempre dalla sala da pranzo, e il contadinello dagli occhietti vispi e maliziosi, dal cappello di paglia a foggia di pan di zucchero, li prendeva come sempre dalle mani del servitore, senza badare al sorriso sprezzante di costui, senza preoccuparsi affatto del malumore de’ suoi padroni... e parenti. E il cappellano confuso e impapinato cercava indarno di attaccar discorso gettandosi nella politica o nella filosofia.
Meno male che dopo questo pranzo officiale e bisbetico, mentre il conte nonno ridiscendeva nella sua biblioteca al piano terreno per ricevervi una visita della sua famiglia della mano sinistra, le cinque ragazze e la mamma si ritiravano nelle stanze più riposte del secondo piano, dove potevano alla loro volta ricevere anch’esse qualche visita più divertente del cappellano, e improvvisare que’ soliti merendini conditi di gioia più schietta e di discorsi, tanto più espansivi e rumorosi quanto più lungamente erano stati repressi.
Il conte nonno nella sua avarizia contava le ova e teneva sotto chiave lo zucchero, il caffè e la seta da cucire: ma degli immensi granai pieni d’ogni sorte di ben di Dio, lasciava la chiave al capo-fattore, di cui si fidava come di se medesimo. E il capofattore era un uomo a modo e spregiudicato: la sua coscienza non poteva pigliar ombra per qualche sacco di farina e qualche corba d’uva, venduti di contrabbando d’accordo con la signora Ottavia, la vera padrona, tanto più che c’era sempre per lui il guadagno di qualche sensaria.
Ma mentre la famiglia dei conti di *** tirava innanzi per lo solita china, e l’Emilia covava la febbre, e Cesare i suoi rodimenti segreti, anche la filatrice aveva le sue dolorose inquietitudini.
Cesare passava tutti i dopopranzi con lei e con sua figlia. Almeno là non correva rischio d’incontrare il viso adirato del nonno.
L’aveva collocata per bene nella casa d’un colono un po’ appartata, e là doveva rimanere fino al giorno in cui sarebbe divenuta sua moglie.
Sei mesi non potevano penar molto a passare. Era passata già più di una settimana, e, se non gli riesciva di essere allegro faceva almeno tutti gli sforzi per non mostrarsi triste davanti alla sua futura moglie.
Ma era ben difficile ingannare qnella donna che amava tanto e dubitava di non essere altrettanto amata.
Nonostante la sua umile condizione la Teresina aveva un sentimento molto delicato. Amava e voleva amore. Essere sposata per carità o per il solo dovere, dal suo Cesare, e pensare che poi sarebbe stato infelice al suo fianco, le pareva un destino insopportabile; peggio che viver sola e povera. Peggio, perchè lo amava e avrebbe sofferto doppiamente a vederlo soffrire.
Una sera sull’imbrunire erano assieme e chiacchieravano più sereni e tranquilli del solito.
Lei non era più scalza; il suo vestitino, quantunque semplice, era abbastanza elegante. E le stava bene: diventava sempre più bella con quel raggio di speranza e d’amore che le brillava in viso.
Cesare la guardava quasi con compiacenza. Non aveva più sentito nulla di sua cugina dopo lo scambio delle lettere, e aveva avuto la fermezza o l’orgoglio di non chieder nulla.
— Si sarà rassegnata; pensava: m’avrà già dimenticato.
E cercava di persuadersi che tutto era per il meglio e che sarebbe più felice con la mamma della sua Angelina.
In questo tempo si sentì lo strepito d’un barroccio che passava sotto le finestre; Cesare s’affacciò per quella naturale curiosità che ogni cosa desta in campagna, e riconobbe un colono del signor Luigi.
Il contadino lo salutò, e fermò il cavallo.
— Lustrissimo, disse con quel non so che di strisciante e di malizioso proprio dei contadini slavi sparsi per quei paesi; lustrissimo, non sa che padrona Emilia sta per morire?
Cesare impallidì e indietreggiò di due passi. La Teresina sentì le parole e vide l’atto. Le parve come se tutte le sue speranze di felicità crollassero in quel momento.
Il contadino, contento d’aver lanciata la sua piccola freccia sferzò il cavallo e andò via di corsa.
Cesare lo chiamò, ma lui finse di non sentire. Aveva detto abbastanza, e non voleva compromettersi con altre spiegazioni.
Cesare non sapeva più di che parlare e la Teresina non osava interrompere il suo silenzio. Solo la piccina, con l’innocenza ignorante dei bimbi, continuava i suoi scherzi e le sue carezze.
Ero uno strazio insopportabile per quelle due creature, in un momento simile.
Il giovane non ci resse; si congedò più presto del solito borbottando un qualche pretesto, e s’allontanò rapidamente.
La Teresina rimase sull’uscio di casa a guardargli dietro, finchè le bastaron gli occhi.
Allorchè il profilo amato si confuse con le ombre del bosco, si ritirò lentamente.
Piangeva.