Cesare/XII
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XII.
Intanto il vecchio tutore e il signor Arturo stavano correndole dietro.
Appena saputo che la sua pupilla era partita così precipitosamente il signor Luigi capì ch’era suo dovere di mettersi sulle sue traccie. Non era perfettamente tranquillo. Comprendeva bene che Emilia doveva essere disperata, e l'idea che quella partenza repentina potesse celare una risoluzione funesta, gli faceva un po’ di paura.
Il signor Luigi non voleva male alla sua nipote; anzi, credeva in coscienza di volerle bene; solamente trovava ovvio di cogliere due piccioni a una fava: la felicità di lei, e il proprio tornaconto. Non era certo nè il primo nè l’ultimo della sua classe cui sembrasse giusto e naturale di pensare così.
Gli affanni del buon tutore, però, si calmarono quando seppe che Emilia s’era fatta accompagnar da Gianni. Un sorriso impercettibile increspò le sue labbra, e si dispose a partire senza trascurar troppo i suoi agi; più per salvar le apparenze che per vero timore.
Il signor Arturo, meno rapido nelle sue deduzioni, era triste e pensoso.
— Non vorrei che facesse qualche pazzia! andava brontolando, grattandosi il cuccuzzolo.
— Mai più! rispondeva l’amico. Emilia ha troppo spirito..
Man mano che la carrozza andava avanti il vecchio si sentiva sempre più sicuro e baldanzoso. Di tratto in tratto si dava una fregatina di mani, poi ripigliava la pipa e con qualche tirata vigorosa faceva salire in aria de’ nuvoli di fumo. E quando tutta questa attività smisurata non bastava alla sua eccitazione, si voltava verso il suo taciturno compagno per manifestargli il suo pensiero con un’osservazioncella sul genere di questa:
— Vedrete che si piegherà in tutto alla nostra volontà.
Oppure questa: — Sì, sì, bisogna battere il ferro fin ch’è caldo.
O quest’altra, dalla quale trapelava tutta la sua malevole, ma pur troppo vera conoscenza del cuore umano: — Nessuno si scoraggia così presto che le anime troppo fiduciose e fiere. Siccome la loro fede è tutta di sentimento, e non ha per sostegno nè la ragione nè l’esperienza, si fiacca al prim’urto: e daltra parte l’orgoglio non permettendogli di tornare sopra alcun fatto che le offenda menomamente, restano con la prima impressione dolorosa, si chiudono nel loro disprezzo, e gettano la vita come un cencio usato.
— Ma, si fece lecito d’osservare a questo punto il signor Arturo: ma, crede ella che con una tale disposizione d’animo, sua nipote possa poi amarmi come si conviene che una moglie saggia ami l’uomo che sarà il padre de’ suoi figli?
Un sorriso ironico sfiorò le labbra dell’ex-cortigiano; ma la oscurità che regnava nella carrozza non permise che l’altro se ne accorgesse: il povero pretendente non sentì altro che queste parole pronunciate con profondo convincimento:
— Altro che! L’amore viene sempre dopo il matrimonio; massima sacrosanta. Lo dicevo tempo fa anche a quella pazzarella; ma esaltata com’è non ha voluto prestarmi fede.
— Ella mi rassicura; perchè, se Emilia non potesse amarmi....
— Emilia non ha ancora diciott’anni ed è stata tradita, ha dunque un bisogno tanto più grande d’amare e d’essere amata. Se, avendola vicina giorno e notte non riesciste a farvi voler bene la colpa sarà, per Dio! tutta vostra.
Intanto il cielo s’era oscurato col tramonto della luna; e cominciava a piovere.
La carrozza giungeva appunto al principio della discesa allorchè un’acquazzone venne giù impetuoso. Il cocchiere disse che non era possibile tener a freno i cavalli per quella strada pericolosa, con un tempo simile. Picchiarono a una fattoria posta proprio sotto la cresta del monte e chiesero d’essere ricoverati finchè non si fosse rimesso il tempo.
Emilia fu meno fortunata. Arrivata alle porte della città prima che piovesse s’accorse che aveva lasciate le chiavi della casa di suo zio a Gianni, e anche quelle della stalla.
Che fare?
Aveva molti conoscenti e amici; ma tutti curiosi e pettegoli, come il solito delle piccole città di provincia, per quella benedetta ragione dell’ozio; Emilia pensò ai comenti che si sarebbero fatti se l’avessero veduta a quell’ora, così sola chiedere l’ospitalità a qualche casa.
Fece un pezzo di strada indietro sperando che avrebbe incontrato Gianni; ma il contadino non si vedeva, e le goccie d’acqua cominciavano a cader fitte fitte.
Orfana fin dall’infanzia, abituata a passare lunga parte dell’anno in campagna col vecchio zio, la cameriera e i pedagoghi, senza le cure delicate di una mamma, Emilia aveva una indifferenza piuttosto mascolina per certi contratempi. Così, un’acquazzone non le pareva cosa da spaventarsi.
Il peggio era che soffiava quel terribile libeccio che spingeva le onde vorticose a un’altezza formidabile, donde ricadevano sulla riva spezzando al solito le larghe pietre e portandosi via qualche pilastro. E il monte, nudo e dirupato da quella parte, e quasi a picco, franava sempre con tempi simili. La strada su cui si trovava Emilia stretta tra il mare e il monte, non aveva in certi punti più di quattro metri di larghezza.
C’era pericolo grave; ma in quel momento lei non si sentiva disposta a occuparsi nè anche di questo.
Ci pensava invece il cavallo che non voleva saperne di andare avanti.
Bisognò obbedirgli e tornare indietro verso la città; ma appena arrivata vicino alle prime case, entrò sotto una tettoia tirata su per proteggere i lavori degli scalpellini che preparavano le pietre d’una nuova casa in costruzione: smontò, legò il cavallo a una trave, e si mise a sedere sopra un davanzale di finestra, non ancora terminato.
Tremava di freddo; aveva indosso il vestitino bianco della giornata, e lo scialle scuro, che s’era gettato sulle spalle per andare a spiare il suo amante nel bosco; e il vento che soffiava anche là sotto, pareva volerglielo strappar di dosso.
Oltre al freddo dell’atmosfera sentiva uno spasimo nervoso che le faceva battere i denti e rabbrividire. Non aveva ancora potuto piangere.
Era come impietrita.
L’uragano passò verso l’alba; il libeccio si calmò, contento d’aver rotto un paio di scalini a una delle scale di pietra che dall’alto della diga scendono fino all’acqua, e sconquassati alcuni lastroni del selciato.
Allorchè allo spuntar del giorno gli scalpellini si recarono al lavoro, furono ben sorpresi di sentire
I i nitriti di un cavallo che pareva chiamare aiuto, e di vedere la povera bestia tutta smaniosa vicino a una giovane donna, pallida come la pietra su cui era distesa.
Pareva morta. Per fortuna, non era che svenuta. Vi fu qualcuno che la riconobbe: la portarono in una casa vicina e vi si trovarono delle buone persone che le prodigarono le prime cure.
Quando il signor Luigi e il signor Arturo arrivarono in città coll’animo pieno di belle speranze e di bei progetti, la notizia degli avvenimenti di quella notte volava già, sull’ali della fama, da una casa all’altra, comentate, ingrandite, svisate. Le gazzette viventi (chè di quelle di foglio per sua fortuna Pirano non ne aveva) si erano impadronite di questo fatto diverso colla stessa inesprimibile voluttà di tutti i buoni reporter quando gli capita tra le mani un boccone ghiotto.
Ci vorrebbe un volume a ripetere tutte codeste frangie, e sarebbe un volume troppo noioso.
Le vecchie zitelle — e nel paese ve n’era una quantità — come pure le venerande matrone, erano tutte contente della disgrazia accaduta alla ragazza romantica, che se l’era ben meritata, sentenziavano loro, per via delle sue stranezze.
L’Emilia intanto prostrata dal male, trasportata dal delirio, in fiero pericolo di vita, aveva almeno la suprema consolazione di non saper nulla e di non sentir nulla.
Ma ella aveva pure nella sua giovane costituzione tesori di forze che potevano resistere ai più fieri assalti: era di quelle creature che devono vivere forse perchè devono soffrire. Meno forte del corpo era l’anima.
Due settimane più tardi, dopo angosciose incertezze e crisi terribili, il medico la dichiarava fuori di pericolo.
Il suo primo movimento fu di meraviglia: una meraviglia penosa. I suoi occhi si fissarono sull’uscio con ansietà come se avesse aspettato di vedere apparire da un momento all’altro un viso amato e lungamente desiderato.
Poi interrogò in silenzio, con un lungo sguardo scrutatore le fisonomie delle persone che stavano intorno al letto. Fu un esame scoraggiante.
— E Cesare?... mormorò sommessamente.
— Non è più venuto?...
Nessuno rispose. Anzi, il tutore sembrò quasi scandalizzato di questa demanda che a lui pareva così poco conforme all’orgoglio e alla dignità di sua nipote. Belle parole. Ma lei non ci pensava più: non se ne ricordava nè anche della sua dignità. Si sentiva spezzata, affranta; con un dolore orribile in cuore, e le idee sconvolte, abbuiate da una inesprimibile confusione.
Cos’era accaduto veramente! Perchè lei non poteva chieder del suo Cesare? E lui perchè non veniva? Ma a poco a poco si ricordò di tutto. Si sentì schiantare un’altra volta. Era vero, lei non avrebbe dovuto mai più pensare a lui. L’offesa era stata orribile.... Eppure! come gli avrebbe perdonato, come avrebbe dimenticato; se lo avesse veduto là vicino al suo letto pentito e commosso. Invece era sola! Fra gente che non l’amava, che; sopra tutto, non la capiva.
Era sola, e lui non ora venuto. Forse stava vicino a un’altra. Un’altra era felice della sua miseria!
Avrebbe voluto interrogare, sapere; ma davanti alla faccia sardonica del tutore, e a quella indifferente del medico e all’altra inebetita del signor Arturo, che aveva chiesto il permesso di venire a congratularsi del suo miglioramento, risentì il morso dell’acre sdegno, e soggiacque all’impero della così detta dignità e dell’orgoglio.
Disse che aveva bisogno di riposo e che voleva dormire; che la presenza di altre persone le dava disturbo.
Quando furono usciti pianse. Le lagrime che si erano quasi impietrite quindici giorni prima, trovarono la via di sfogarsi, ora che il suo corpo era indebolito e i suoi nervi prostrati dalla malattia.
Quando si senti un po’ sollevata chiamò la cameriera.
— Dimmi la verità, disse, l’ha già sposata?...
— Non ancora, rispose la ragazza esitando.
— Non ancora! ripetè l’ammalata con amarezza: dunque la sposerà!
La cameriera abbassò il capo e non osò rispondere.
Emilia restò alcuni momenti sopra pensiero, poi le ordinò di andare a chiamare il tutore.
— Zio, disse, appena il vecchio si presentò sull’uscio, provvedi a tutte le formalità: appena m’alzo voglio sposare il signor Arturo.
Il signor Luigi si sentì consolar tutto quanto: avrebbe voluto abbracciarla e mostrarle la sua contentezza; ma quel visino pallido e serio lo tenne in rispetto. Era troppo fine da mancar di tatto.
S’avvicinò al letto, prese la mano pallida della giovinetta, la baciò cavallerescamente e s’inchinò in silenzio. Emilia si voltò dall’altra parte, forse per nascondergli i sentimenti poco cordiali che sentiva per lui in quel momento.