Castel Gavone/II
Questo testo è completo. |
◄ | I | III | ► |
CAPITOLO II.
Dove messer Giacomo Pico impara
che il torto è degli assenti.
Stropicciandosi le mani in segno di contentezza, tronfio, invanito di quel colloquio, in cui aveva fatto prova di tanta penetrazione, mastro Bernardo scese le scale; indi, comandato al ragazzo che stringesse le cinghie alle cavalcature dei due forastieri, e alla Rosa che pigliasse in cantina un fiaschetto di malvasia, entrò in cucina, dove stava il nuovo venuto impaziente ad attenderlo.
Era costui un giovinotto di forse venticinque anni, che tale lo dinotava l’aspetto, fiorente della prima virilità, alto della persona, di membra robusto e di belle sembianze, quantunque infoscate un tal poco dalla torbida guardatura degli occhi cilestri e dallo aggrovigliarsi della chioma rossigna in ciocche scompigliate sul fronte. Semplice era la foggia del vestire; portava calze di lana divisata e scarpe di cuoio ruvido, alla guisa dei montanari; in capo aveva un’umil berretta e sulle spalle una cappa di bigello, alla borghigiana; ma il farsetto di cordovano e l’impugnatura d’una brava misericordia, che facean capolino dallo sparato, insieme colla punta d’una spada che usciva fuori ad una rispettabile lunghezza dal lembo della cappa, lo chiarivano un uomo d’armi, per allora fuor di servizio, ma non al tutto fuori d’arnese.
Il suo nome era Giacomo Pico, figliuol d’Antonio, della terra di Bardineto. Lo si chiamava dimesticamente messer Giacomino, sendo egli venuto in tenera età alla corte del Marchese; ancora lo dicevano il Bardineto, senz’altro, dal suo luogo natale, posto a forse dodici miglia di là, in mezzo ai monti, presso le scaturigini del Bormida. Bardineto apparteneva ai signori Del Carretto, e ad essi molto affezionata era la famiglia dei Pico; singolarmente caro a Galeotto il loro ultimo rampollo, che dapprima eragli stato donzello, indi compagno nelle aspre fatiche di guerra e salvator della vita. Però Galeotto lo teneva sempre al suo fianco, più amico assai che vassallo, e lo adoperava in ogni faccenda che richiedesse fedeltà e segretezza a tutta prova.
Ragioni queste perchè mastro Bernardo avesse a fargli servitù. Ma, oltrechè non gli sapea menar buono quel suo fare fantastico e il non essersi mai seduto davanti a’ suoi fiaschi, quel giorno a mastro Bernardo pareva di aver piantato l’insegna accanto a più gran personaggio che non fosse messer Giacomo Pico.
Epperò, mentre questi, vedutolo entrare in cucina, si muoveva ansioso verso di lui, quel vanaglorioso d’un oste gli fece a mala pena di berretta.
— Ve ne prego messer Giacomino, spicciatevi; — soggiunse egli tosto, dopo quell’atto un po’ sbrigativo; — ho da offrire il bicchier della staffa a due cavalieri.
— Erano da te! — sclamò il Bardineto. — Ed io che li cerco da un’ora!....
— Eh, eh, capisco; — ripigliò mastro Bernardo, con aria di chi sa e vuol lasciarsi scorgere; — il nostro magnifico Marchese li aspetterà.
— Se li aspetterà! Lo credo io! Sono annunciati certamente da due ore. Io era appunto in volta verso Calvisio,... A mala pena arrivato stanotte!...
— A proposito, siete stato in viaggio....
— E lungo; e ho avuto appena il tempo di far la mia relazione al Marchese, ch’egli mi ha mandato fino a Pia per vedere la nuova compagnia di balestrieri che ha presa in condotta testè. Ero salito a Calvisio per dare un’occhiata alla guardia; torno al passo della fiumana e mi dicono che due cavalieri sono discesi verso Castelfranco, avviati pel Borgo. Mi metto sulle loro pedate e non li trovo; alla porta di San Biagio nessuno li ha visti. Rifò la strada, piglio lingua, e sento che si erano fermati all’Altino. Che è ciò? A due passi dal borgo, perchè smontano essi da te?
— Eh, l’ho detto ancor io; perchè smontare da me? Ma che volete, messer Giacomino? Avran veduto l’insegna: Fermatavi all’Altino, c’è buona l’accoglienza e meglio il vino. E l’han trovato buono, credetemi, quantunque non l’abbiate mai assaggiato. Dopo tutto, o che? dovevano presentarsi al castello a stomaco digiuno, come due pellegrini affamati?
— Che uomini sono? — dimandò il Bardineto, per metter fine a quella intemerata dell’oste.
— Non lo indovinate?
— Eh, forse; due genovesi, dei soliti, che vengono qua, sotto colore d’ambasceria, per curiosare, scoprir terreno e macchinar tradimenti in casa nostra.
— Che! — sclamò mastro Bernardo, facendo le cocche colle dita, — Più su sta monna Luna!
— Come? e che altro hanno ad essere?
— Due pezzi grossi, vi dico io. Cioè, no, dico male; uno grosso soltanto di corporatura, e gli ha da essere lo scudiere, o alcun che di somigliante; ma l’altro....
— L’altro?
— Eh, un uomo per la quale, che è aspettato dal Marchese e gli farà molto piacere il vederlo capitare al castello.
— Non genovese? — ripicchiò il Bardineto, stringendosi nelle spalle.
— Non genovese; piemontese.
— Capitano di ventura?
— Altro ci è; signore di terre e castella. Ma scusatemi, messer Giacomino; e’ son qua che scendono le scale. —
E senza aspettar altro, l’ostiere si mosse, per andare incontro a’ suoi ospiti.
IL Bardineto, rimasto solo in cucina, si accostò alla finestra, che dava sull’aia, ov’erano già i due cavalli, tenuti per le redini dal Maso, e vide poco stante i due forastieri che salivano in arcione.
Uno, il più vecchio e il più tarchiato, gli parve per l’appunto uno scudiere, o un famiglio. L’altro, era un bell’uomo tra i trenta e i quaranta, biondo di capegli, dal volto un po’ arsiccio, ma bianco di carnagione, di leggiadre fattezze e di nobilissimo aspetto. Anche a non voler badare alla sua cappa di scarlatto verde foderata di vaio e al suo cavallo palafreno, la cui gualdrappa e gli altri arnesi erano filettati d’argento, si capiva ch’egli era un uomo di grande affare, e che mastro Bernardo aveva ragione a notare in lui un’ariona da principe.
— Chi diamine sarà costui? — andava almanaccando tra sè il Bardineto. — Non genovese, perciò non nemico; capitano di ventura nemmanco. Fosse uno del parentado! Ma io li conosco tutti, i signori della lega, e questi mi giunge affatto nuovo alla vista.
Intanto, mastro Bernardo s’era fatto innanzi col suo fiaschetto di vin prelibato e profferiva ai due viaggiatori il bicchier della staffa.
— Grazie! — disse il più giovine accettando il bicchiere e rendendolo dopo avervi a mala pena intinte le labbra.
Non così il Picchiasodo, che, recatosi il bicchiere all’altezza degli occhi, ne contemplò amorosamente il liquido topazio, indi lo accostò alle labbra, ne assaporò un sorso, tornò da capo a guardare, mentre, alla maniera de’ buongustai, batteva la lingua contro il palato, e finalmente, arrovesciando gli occhi in segno di beatitudine, mandò giù l’abbeverato e succiò l’orlo del bicchiere per giunta.
— Se tu cominciavi da questo, — diss’egli all’oste nell’atto di restituire il bicchiere, — non si andava più via dall’Altino.
— Eh eh! — rispose mastro Bernardo ridendo. — Per altro, a messer lo conte non è piaciuto.
— A me? — dimandò messer Pietro, vedendo che l’oste accennava a lui. — Anzi, gli è nettare, non vino; ma con quest’amicone non bisogna far troppo a fidanza.
— Con vostra licenza, messere, berrò io le vostre bellezze. Alla salute degli sposi.
E mastro Bernardo, contento di metter le labbra al bicchiere del suo ospite, tracannò il rimanente d’un fiato.
Messer Pietro sorrise, salutò e spinse il cavallo fuori del portone. Il Picchiasodo spronò a sua volta, e lo seguì sulla strada.
— Costui vi vuol vedovo, messer Pietro; — gli disse frattanto a mezza voce. — Povera madonna Bartolomea! —
A mala pena furono sulla strada i due viaggiatori, il Bardineto si serrò addosso a mastro Bernardo.
— E adesso mi dirai.... Prima di tutto, che andavi tu novellando di sposi?
— Non avete capito? — disse l’ostiere, mentre, levato di pugno al Maso il fiaschetto prezioso, lo andava a riporre nell’armadio. — C’è un matrimonio in aria e quello è lo sposo; il magnifico conte di Cascherano, che si è degnato, bontà sua....
— Sposo! di chi? — interruppe il Bardineto, facendosi bianco nel viso come un cencio lavato.
— Eh, non già di madonna Bannina, nè della mia Rosa, che hanno i loro uomini vivi e sani!
— Ma, alla croce di Dio, parla; di chi?
— Di madonna Nicolosina, perdinci! O che, venite dal mondo della luna? —
A messer Giacomo Pico venian meno le forze, e si offuscava la vista.
— Impossibile! — esclamò egli, con voce soffocata dalla commozione. — Impossibile!
— E perchè mo’? A San Nicola fa i diecisette, quantunque, a dir vero, mi paia che la sia nata ier l’altro. Ma, pur troppo, i giorni passano e gli anni van di conserva. O che? l’avrebbe da starsene a spulciare il gatto? È bella, è savia, è di nobil casato; e qui, con nostra buona pace, non c’è nessuno per lei. Al Fregoso, quantunque doge, non l’hanno voluta mostrare nemmeno dal buco della toppa; e’ bisognava dunque far capo più lunge; a Cascherano, verbi grazia. Cascherano! bel nome! E lo sposo n’ha un altro, per giunta alla derrata; ma ora e’ non mi vien sulle dita. —
Il Bardineto sudava freddo, e per un tratto non aveva potuto aprir bocca.
— Ma come sai tutto ciò, che io ignoro affatto?....
— Eh, lo capisco? se voi andate a fare l’ambasciatore! Da quanto tempo mancate?
— Da due settimane; cioè a dire, da quando è partito l’ultimo oratore dei Genovesi, messere Ambrosio Senarega. Sono stato a Cosseria, a Millesimo, a Cortemiglia, a Ponzone; ho dato infine una scorsa a tutte le castella delle Langhe.
— Orbene, e in questo mezzo s’è accozzato il negozio. Io sono stato il primo ad averne fumo, in paese. Sapete pure, messer Giacomino; madonna Bannina, che Iddio la prosperi sempre, n’ha fatto un cenno alla Gilda. La Gilda l’ha rifischiato a sua zia; e sua zia, che è poi nostra moglie, indegnamente, l’ha rapportato a me, com’era debito suo. Ma ora che ci penso, badate, gli era un segreto da tener sotto chiave, e voi da me non sapete nulla, intendiamoci; io non ho fiatato, acqua in bocca! me lo promettete? —
Messer Giacomo Pico non gli dava più retta; uscito in sull’aia, aveva infilato il portone, e via come una saetta.
— Ehi, dico, messer Giacomino, vi prego, non mi fate pasticci! — andava gridando l’ostiere. — Che diamine! ci ha il fuoco alle calcagna. E perchè mo’? Quella notizia l’ha messo fuori dei gangheri. Egli forse.... cotto di madonna Nicolosina? Eh, non mi farebbe meraviglia; la donna è un certo guaio! Quando t’ha fatto perdere il lume degli occhi, non badi più se la è imperatrice o villana. Orvia, se la è così, un bel malanno l’ho fatto! Ma già, maledetta lingua! La Rosa me lo dice spesso, che non so tenermela a freno! E poi? che male c’è? Tanto e tanto s’aveva a sapere. Il Cascherano non è forse arrivato? E come l’avranno a battezzare, quando capiterà al castello e farà il su’ inchino alla sposa? Andiamo, via; delle mie ragazzate, non è questa la peggio. —
Con questo po’ di sollievo, mastro Bernardo si ritirò nella sua tenda, dove noi lo lasceremo ad aspettare gli avventori quotidiani, men nobili o meno degni della nostra attenzione.
Il Bardineto, con quel passo che ho detto, s’era avviato verso il Borgo. Giunto alla porta di san Biagio, varcò il ponte levatoio gittato sul torrente dell’Aquila, ed entrò sotto l’androne, dov’era scolpito in marmo il carretto, tirato da due leoni aggiogati, con suvvi lo scudo listato a fascie diagonali d’argento in campo rosso.
Per la prima volta, guardando quella insegna de’ suoi signori, l’occhiata fu torva. Egli per fermo non se ne addiede, non n’ebbe coscienza; ma fu torva la sua guardatura, piena di stizza, se non forse di mal talento e di rabbia.
Ah! diceva quell’occhiata; sposa Nicolosina ad un altro! Era forse quella la ricompensa che egli si riprometteva de’ suoi fedeli servigi? Non già che l’attendesse; non già che l’avesse per suo certo diritto! Ma egli, adolescente, quasi fanciullo, era venuto alla corte del Finaro, come donzello del marchese Galeotto, e da lui tenuto in conto di figlio. Vassalli erano i Pico, ma pur sempre i primi di Bardineto; questo sentivano di sè medesimi, e l’onesta alterezza del casato erasi accresciuta nell’animo del giovinetto, per quel suo lungo vivere in corte, dimestico ai grandi, per modo da parergli non pure di essere uno dei loro, ma di non essere stato mai altro. E un bel giorno i vincoli della consuetudine s’erano ristretti anche più, per aver egli campato il marchese dalle mani dei genovesi, che in uno scontro di pochi anni addietro già l’avean posto a mal partito, sui monti alle spalle di Albenga.
E al suo ritorno in corte, che era egli mai avvenuto? Lui audacissimo tra i migliori del Finaro, lui salvator suo e primo sostegno della sua casa, celebrava il marchese; però, tra le lodi e i plausi universali, madonna Bannina, la virtuosa castellana, o la sua lieta figliuolanza, gli aveano fatto gran festa. Nicolosina, l’ultima nata, ricciutella innocente, gli si era sospesa al collo e gli aveva coperto di baci il volto abbronzato dal sole dei campi. Bambinesco era l’atto, e naturale in quel punto; pure l’aveva commosso più che ogni altra dimostrazione d’affetto e di gratitudine de’ suoi signori più innoltrati negli anni.
Nè quelle infantili carezze erano state le sole. Da quel dì, la bionda fanciullina non ebbe amico più caro del suo Giacomo; lui aspettava ansiosa; lui sgridava, se tardo a giungere per aver parte a’ suoi giuochi; lui abbracciava; a lui scompigliava con vezzo fanciullesco le chiome, più che non avessero fatto le aure dell’Appennino; e i parenti a ridere, a compiacersi di quelle tenerezze, in cui non pure vedevano, ma eziandio caldeggiavano una testimonianza del loro animo grato e del loro affetto paterno per lui.
Senonchè, un giorno (e’ doveva pur giungere!) la fanciulla non gli era più corsa incontro come soleva; non gli si era gettata al collo, non lo aveva più baciato; nemmanco gli aveva profferta con soave atto la fronte, come usava co’ suoi genitori. Lo aveva in quella vece accolto con una certa gravità impacciata, che la faceva due cotanti più bella; lo aveva salutato con un «buon dì, messer Giacomo» profferito a mezza voce, ed aveva arrossito dal sommo della fronte fino alla radice del collo.
Ed egli si era inchinato, come solea fare colla madre di lei; nè aveva trovato cosa a ridire intorno alla novità delle sue accoglienze; ma quel riguardoso saluto e quel rossore, che tradiva i casti segreti della pubertà nascente, gli avevano recato arcane commozioni nel sangue, dischiuso un mondo ignoto allo spirito.
Da quel giorno aveva pensato; più del bisognevole e del ragionevole aveva pensato al nuovo aspetto di quella fanciulla, de’ cui baci infantili erano calde tuttavia le sue guance. E una gran sete di quei baci improvvisamente cessati gli riardeva le labbra. Ma non erano più i baci della fanciulla, non erano più i casti baci fraterni, che egli ripensava in quel punto.
Da quel giorno si fece più grave; da quel giorno il suo volto, gli atti, i pensieri, i modi del suo vivere, assunsero quel non so che di bizzarro e di fantastico, donde la gente volgare toglieva indizio di alterigia, non dicevole punto al suo umile stato di vassallo. Presso i famigliari del marchese dicevasi in quella vece che la guerra avea fatto del giovine un uomo, del donzello un capitano. Ed uomo e capitano, messer Giacomo Pico era più bambino che mai. Del suo futuro non aveva un concetto, un proponimento formato; viveva alla giornata; lieto quando gli fosse dato vedere il suo conforto, triste ed uggioso quando ne fosse lontano.
La corte dei marchesi del Finaro aveva nelle sue consuetudini alcun che della vita patriarcale. Però, in quella beata intrinsichezza della famiglia, le occasioni di vedere Nicolosina e di starle accanto eran molte e frequenti. Per altro, erano anche in buon dato le occasioni di lontananza. Il marchese Galeotto, pari in cotesto a tutti gli animi grandi, quando aveva messo l’amor suo in alcune, non conosceva misura. E grato al Bardineto della conservata libertà, fors’anco della vita, in lui aveva riposto ogni sua fede, con lui si consigliava in ogni più grave bisogna, lui, come suo messo fidato, o come un altro sè stesso, mandava di sovente d’una in altra villata a recarvi i suoi ordini, a chieder ragguaglio d’ogni novità che occorresse. Conosciuto dovunque come il più caro amico del marchese, messer Giacomino (così dimesticamente lo chiamavano i terrazzani) era ossequiato ed obbedito da tutti.
Così viveva il Bardineto, senza por mente al domani. Amava, senza proporsi una meta, senza sperar nulla di certo; amava, ecco tutto, e fidava alle onde tranquille il fragile schifo della sua giovanile fortuna. Però, quando Giano Fregoso, fattosi pur dianzi signore e doge di Genova, ebbe mandato Bartolomeo Cecere a dimandar la mano di Nicolosina, per la prima volta il povero Bardineto tremò, sentì come una mano di ferro che gli agguantasse il cuore. E non cessò lo spasimo suo, fino a tanto non ebbe udite dal labbro del marchese queste consolanti parole:
— «A Giano, prestantissimo uomo, rendo, o messere, le grazie che per me si posson maggiori, che in ciò liberale si mostra ed amicissimo mio. Senonchè, la figliuola mia è troppo giovine per andarne a marito, e in cosiffatti negozi occorre maturità di consiglio. Ben so a qual patto vecchi nemici possano raccostarsi; però consentite, messere, che di cotesto io m’abbia a dare più lunga e meditata risposta in iscritto».
Così era bellamente pagato il Fregoso. Ma egli, inteso l’animo dell’avversario, tosto aveva adunato il Consiglio e messo mano a più saldi argomenti. E poco dopo l’ambasciata del Cecere, andavano alla corte di Galeotto, oratori non più di Giano Fregoso, privato cittadino, bensì del Doge e del Consiglio, un Giacomo di Leone e un Galeazzo Pinello.
— «Marchese Galeotto, — avean detto costoro, — i Genovesi, quanto è in poter loro, detestano le inimicizie e meglio in pace coi vicini amano vivere, che in guerra. Esortano te a volere il medesimo, e a mostrarne il desiderio, ritenendo ciò che è tuo, restituendo l’altrui. Possiedi Castelfranco, già da essi murato e ad essi appartenente quasi per gius di dominio. Sai una terza parte del Finaro doversi ai Genovesi, e come soggetta e come venduta. Sai esser Giustenice loro dominio del pari. Tutto ciò, dunque, ripetono essi da te, e ti pregano ad amar meglio di concederlo pacificamente, anzichè di doverlo rendere per forza di guerra. Inoltre, sarebbe fuori dalle consuetudini d’amicizia e di pace che presso te rimanesse ospite più a lungo messer Barnaba Adorno, già doge, oggi nimico della Repubblica. A te il vedere che cosa ti convenga di fare; se mandarlo a Genova, o voler guerra da lei».
Vivaddio, era questo un alzar la visiera, e di nozze non si facea più discorso. Giacomo Pico aveva dato un respiro di consolazione. Non era uno sposo temuto, quegli che minacciava la guerra.
E l’aveva di grand’animo accettata il marchese.
— «Io ben so che me la farete, — aveva egli risposto, — se ciò che dite pensate, e se più oltre su voi comanderanno i Fregosi. Così fosse la puntaglia soltanto tra essi e me, che agevolmente la condurrei a buon termine! Invero, aver guerra co’ Genovesi mi duole; ma sappiatelo, messeri; avrei caro il morire, anzichè far cosa veruna contro la dignità del mio nome, e l’onore di buon cavaliere. Signore di Genova era Filippo Maria Visconti, per propria dedizione dei cittadini; a lui lecito di disporre a sua posta d’ogni possedimento di Genova. Egli mi donò Castelfranco e Giustenice; nè di ciò, e molto meno della terza parte del Finaro, mi tengo io debitore ai Genovesi. Credete il contrario? Orbene, facciamo giudice del piato l’imperator de’ Romani, o il re di Francia, o l’Università degli studi di Bologna, o quella di Pavia; venga da principe, o da collegio di giureconsulti, il giudizio sarà legge per me. Niente farò io di Barnaba Adorno; intorno a ciò, arrossisco di avervi a rispondere, più che voi di avermene a chiedere. Ch’io manchi alla mia fede! Ch’io tradisca un prestantissimo uomo, qua venuto a rifugio come in terra neutrale, e lo dia in mano a’ suoi nemici! Non lo sperate da me. Guerra minacciate; e sia; il cielo provvederà. Voi questo rispondete al Consiglio: prima verrà meno a Galeotto ogni altra cosa che l’animo.» —
Nobili parole, sebbene un genovese d’allora avrebbe potuto trovarci alcuna cosa a ridire. Ben s’era commessa la Repubblica alla signorìa del Visconti, ma per essere tutelata dalle intestine discordie, non tradita a’ suoi nemici; infine, scosso da dodici anni il giogo di lui, doveva ripetere tutti i suoi diritti sugli altri, nè riconoscere donazioni e larghezze del suo a coloro che, come appunto il marchese del Finaro, si adoperavano sempre a’ suoi danni. Ma di ciò non occorre dir altro; che ad entrare nel pro e nel contro della ragion di stato d’allora, si dovrebbe dare ad ognuno la sua parte di torto. Va in quella voce notato che alla corte del marchese Galeotto piacque la fiera risposta, e più assai che ad ogni altro, a Giacomo Pico, il quale intravvedeva nella prossima lotta occasione di gloria.
Eppure, come già conosce il lettore, non la era anche finita colle ambasciate. Dopo i due oratori della Repubblica, erano venuti Ladislao Guinizzo e Francesco Caito, inviati di Giano, a chieder da capo Nicolosina in moglie. Della dote mettevano questo patto: mandasse a Genova messer Barnaba Adorno; da lui i Fregosi, come da nimico prigione, avrebbero pigliato il riscatto di diecimila genovini d’oro, che sarebbero andati in dote alla sposa.
A cosiffatta proposta, più che alla ostinatezza di Giano, si sdegnò grandemente il marchese.
— Mi turba la dimanda, — rispose, — e peggio ancora, mi muove lo stomaco. Tristo è Giano e tristo mi crede. A tal uomo, e di tali nefandezze capace, io non sarei per concedere mai la figliuola mia, anco se molto maggior dote le costituisse del suo. —
Così avevano avuto fine le pratiche celate presso il marchese. Ma ben altro tentavano ancora i Fregosi presso il parentado di lui, per rimuovere i Carretti delle Langhe dal proposito di aiutare il loro consanguineo. Il quale, di certo, per assegnamento fatto su questi, più che per fidanza vera nelle sue forze, mostrava animo tanto deliberato a resistere.
Era in quel tempo tra tutti i signori Del Carretto come un patto d’alleanza, per cui, se ad uno di loro si recasse alcun danno, a tutti si reputasse ugualmente recato, e tutti avessero a mettersi in armi per vendicare i torti di un solo. L’antica divisione dell’eredità di Enrico Guercio in tre parti e le altre divisioni avvenute in processo di tempo, che avevano di soverchio sminuzzate le forze di que’ discendenti d’Aleramo, chiarivano di per sè necessario quel patto di famiglia. Dicevasi la lega dei Carretti; e invero, se fosse stata così salda nel fatto come nella mente de’ suoi fondatori, grandezza d’animo dei collegati, fede provata dei popoli loro, copia di attinenze e asprezza di luoghi, avrebbero potuto renderla formidabile alle difese.
Congregavasi la lega nella torre detta di Oddonino, presso la corte di Millesimo. Capitano della lega era in quel mezzo il magnifico messere Francesco, signor di Novelli, tra i Carretti d’allora il più innanzi nella prudenza e negli anni. A lui n’andò Veneroso Doria, amico e fautore dei Fregosi, come tutti gli altri del suo casato, e ottenuta la presenza dei collegati, espose, in nome di tutti i Doria, la sua ambasciata. Rammemorata l’antica amicizia delle due genti e i maritaggi che tratto tratto erano sopraggiunti ad unirle in parentado, non dubitò di noverare alcune recenti e vicendevoli offese. Colpevoli i Doria di essere stati primi a molestare i Carretti; colpevoli questi, nelle persone di due dei loro, Galeotto del Finaro e Giorgio di Zuccarello, di aver mosso guerra e fatto devastazioni gravissime nella valle di Oneglia, dominio amplissimo e rispettato dei Doria. Questi, per altro, memori dei profferti appigli, aver comportato con animo grande l’offesa; non così poter sofferire che Giorgio e Galeotto s’ostinassero a tener come proprie le castella occupate. La Lega, se aveva in alcun pregio l’amicizia dei Doria, comandasse la restituzione del maltolto; se no, sarebbero stati costretti i Doria a procacciar l’utile proprio e dare orecchio a’ nemici dei Carretti, che fino a quel punto non aveano voluto ascoltare.
Ponderavano i Carretti, siccome era naturale che facessero, le gravi ragioni esposte da messer Veneroso. E Francesco, il vecchio capitano della lega, avea già proposto di rispondere: niente amar meglio i Carretti che vivere in pace coi Doria; non doversi ascrivere l’invasione di quel d’Oneglia, nè a Galeotto del Finaro, nè a Giorgio di Zuccarello, bensì ad espresso comando del signor di Milano, che a tutti soprastava. Per altro, a dimostrar meglio l’animo loro alieno da ogni litigio, come da ogni offesa ad amici e vicini, avrebbero esplorata la mente del Visconti e fatto il poter loro perchè le castella occupate nella valle d’Oneglia fossero restituite ai loro signori.
Senonchè Galeotto, il quale scorgeva nella intromissione dei Doria un artifizio del suo nemico inteso a sbigottirlo, volle si rispondesse in altra maniera. Ricordino i Doria, disse egli, ricordino quanto abbiano sovvenuto di consiglio e d’armi i Fregosi, allorquando Battista e Spinetta, di questa gente, vennero sulla Pietra, per assediarmi e impadronirsi di me. E il loro intento avrebbero essi raggiunto, se l’invincibile Filippo Maria Visconti non avesse mandato in mio soccorso messer Guido Torello, con grossa mano di cavalli e di fanti. Ricordino i Doria come abbiano essi favoreggiato i Fregosi, nella condotta di quel Baldazzo che lungamente guerreggiò il Finaro, e mancò poco non mi desse in balìa de’ miei giurati nemici. Mai furono rette le intenzioni, mai schietti i diportamenti dei Doria verso di noi; smettano dunque di ricordare l’antica benevolenza; ricordino piuttosto l’antichissimo odio e il mal talento loro contro la nostra casata. Nulla sperate da noi; date pure liberamente ascolto ai nemici; cotesto vi tornerà per fermo più agevole e caro. Che cosa si stia macchinando tra voi, ci è noto, o messeri. Ma tutto non v’andrà, come pensate, a seconda; me prima torrete di vita che di animo.
In quella guisa fu risposto ai Genovesi. Ma eglino, o fosse per guadagnar tempo, o perchè sperassero di smuovere dalla lega alcuno nei Carretti, o finalmente perchè in tutto quel viavai d’ambasciatori mirassero a pigliar cognizione dei luoghi e dello stato degli animi, non si tennero paghi di quella risposta dettata dal marchese Galeotto, e vollero averne l’intiero.
Però mandarono in volta a tutte le famiglie dei Carretti un altro oratore, accortissimo uomo, che fu messere Ambrogio Senarega. Doveva egli apertamente ricordare i vecchi diritti di Genova sulla terza parte del Finaro, su Castelfranco e sulla terra di Giustenice, posta ai confini occidentali del marchesato; chiedere che Giustenice e Castelfranco fossero restituiti, e per la terza parte del Finaro si riconoscesse Galeotto feudatario della repubblica; a ciò volesse la lega persuaderlo, o, dove questi si ostinasse nel niego, abbandonar le sue parti. Certamente, poi, doveva in privati colloqui scandagliare i propositi e tentar la fede di tutti; che certo, e per antiche ruggini e per essere eglino in troppi, non dovevano vivere in così calda amicizia e comunanza d’interessi, come il fatto della lega mostrava. Del resto, provvedessero, come stimavano meglio, all’utile loro; ma ricordassero che Filippo Maria Visconti, protettore e amico a Galeotto era morto, e Milano rivendicata in libertà non avrebbe spalleggiato i nemici della repubblica genovese.
Anche in quella occasione la risposta della lega fu data da messer Francesco di Novelli. A difesa di Galeotto si ricordava la donazione di Filippo Maria; a discolpa di tutti i signori della lega si ripeteva non aver essi altro desiderio che di vivere in pace e in amicizia con Genova; del resto, avrebbero combattuto, se ella a ciò li astringeva, e resistito con ogni lor possa; che bene dovevano essi andare in soccorso di Galeotto, a cui erano stretti da vincoli d’alleanza e di sangue.
Queste le parole; ma i fatti voleano esser diversi. La morte di Filippo Maria Visconti improvvisamente avvenuta nell’agosto, e i torbidi che n’eran seguiti in Lombardia, d’onde più speravano aiuto in quel loro bisogno, avevano scosso la baldanza dei collegati marchesi. Bene avevano mandato lettere e messaggi a tutti i signori circonvicini per chieder consiglio e procacciarsi amicizie; ma in pari tempo (e qui era da vedersi il frutto delle pratiche di Ambrogio Senarega) disegnavano di mandare un oratore a Genova, per rabbonire i Fregosi.
Ora, vedete bel caso, quest’oratore fu bensì uno di loro, ma figliuolo a Marco, signore di Osiglia, che tra tutti i collegati era il meno amico a Galeotto e il più tiepido nei consigli di guerra.
Questi, che avea nome Abate, recatosi a Genova, mentre il Senarega scendeva da Osiglia al Finaro per abboccarsi con Galeotto e far le viste di raccomandargli la pace, mostrò ai Genovesi esser tra loro discordi i signori della lega. Rammentò come suo padre Marco e un suo cugino Gherardo di Santo Stefano, discendessero da quei due, Emanuele ed Aleramo, che avevano venduto la loro terza parte del Finaro, e come, nell’atto di volerla ricuperare, molti anni addietro, fossero stati presi ed imprigionati dalla madre di Galeotto, ed avessero perduto per giunta Calizzano; riandò tutte le vecchie ragioni d’inimicizia che covavano in seno a quel parentado; lasciò intendere come i Carretti avrebbero potuto, parte voltarsi contro, parte non dare al congiunto quel valido aiuto che egli si prometteva da essi; una sola cosa dimandò: che, frutto dei mutati consigli fosse a Marco suo padre la ricuperazione del dominio perduto.
Non è a dire se i Fregosi accogliessero di buon animo le confidenze di Marco e del figliuol suo, e come gli fossero larghi di promesse. L’orso di Castel Gavone era ancora da prendere; si poteva impegnarne senza tanti riguardi la pelle.
Queste cose, siccome è agevole argomentare, ignorava Galeotto. E frattanto, poichè egli, messo al punto di dover provvedere alle sue difese, non poteva muoversi dal marchesato, e gli premeva in pari tempo di saper l’esito dell’ambasceria del figliuolo di Marco ai Genovesi, aveva disegnato di spedire Giacomo Pico alla torre di Oddonino e alle altre castella de’ principali tra’ suoi consanguinei. Nè a ciò si ristringeva la commissione del Pico. Egli, udito delle pratiche di Abate presso i Fregosi e di ciò che il capitano della lega, messer Francesco di Novelli, avesse deliberato di fare, doveva altresì, procedendo di corte in corte, raccogliendo i pareri e indagando gli animi di tutti, giungere fino alle rive del Tanaro, per recare un messaggio a Tommaso di Bagnasco.
Era questo messer Tommaso un onorevole cavaliere, della casata dei marchesi di Ceva. Quella gente erano guelfi, laddove i Carretti erano ghibellini; ma, oltre che i tempi delle acerbe nimicizie partigiane erano trascorsi e più assai importava a quelle schiatte marchionali vivere in pace tra loro e assodare la loro signoria, Tommaso di Bagnasco aveva sempre dimostrato a Galeotto la più schietta amicizia e s’era in parecchie occasioni profferto all’amico, per servirlo, come dicevasi allora, di coppa e di coltello.
E messer Giacomo Pico era andato, con che animo sel pensi il lettore. Si allontanava un tratto da madonna Nicolosina, ma, a ben guardare la sostanza delle cose, per avvicinarsi di più alla meta de’ suoi desiderii. Diffatti, se la guerra inevitabile coi Genovesi mandava già a monte un temuto matrimonio, quella importantissima ambasceria commessa a lui dal marchese, ristringeva i vincoli dell’antica dimestichezza, aggiungeva servizio a servizio, gratitudine a gratitudine, dava esca e fondamento a più salde speranze. Al suo ritorno, poi, utile al suo signore per delicatissimi negoziati, come gli era stato caro per consuetudine antica e per aiuti personali, il Bardineto avrebbe operato tali miracoli di valore da farsi armar cavaliere sul campo e da meritare tal grazia appo i signori del Finaro, che a lui si sarebbe conceduta Nicolosina, o a nessuno, fosse pure conte, marchese, duca, o figlio di re.
Galeotto era ben lungi dal sospettare che nuova specie di fantasie girasse per lo capo al suo antico donzello. Ad altro aveva egli la mente: ai vassalli chiamati in armi da tutte le borgate; a due compagnie di balestieri che avea tolte in condotta; alle lancie che gli mancavano ancora; al suo tesoro, che di molto si sarebbe scemato, e senza speranza di ricattarsene, anco vincendo la prova. Imperocchè, quella era una guerra di difesa contro un potente nimico lontano, e, per arricchire delle sue spoglie, sarebbe bisognato stravincere. Ora, di stravincere, il marchese Galeotto non nutriva speranza per fermo. Bene lo assicurava Barnaba Adorno, con gli altri fuorusciti di Genova, ospiti suoi, che, tornata la fazione loro alla somma delle cose, largamente sarebbe stato compensato di ogni suo danno; ma quella fortuna era di là da venire e poteva anche restarsi per via; laddove la guerra soprastava al Finaro, e quella lì non c’era speranza pur troppo di allontanarla, nè sarebbe tornato a guadagno il tenerla in sospeso.
Ma, per tornare a Giacomo Pico, che le centomila necessità del racconto mi fanno ogni tanto lasciare in disparte, è da stringere in poche parole che egli aveva sollecitamente adempiute, in quel modo che poi si dirà, le incombenze a lui date, ed era di ritorno al Finaro due settimane dopo la sua partenza, e proprio in quel giorno 26 novembre dell’anno 1447. Il cuore gli battea forte nello avvicinarsi al castello. Aveva veduto per pochi istanti Nicolosina, e gli era parsa un’altra donna. Effetto naturale delle lontananze, anche brevi, da chi siamo usi vedere ogni giorno, che ci si sente subito come stranieri alla casa. E perchè poi? Perchè eravamo avvezzi a sapere ogni più lieve atto, ogni più riposto pensamento dei nostri famigliari, e la fragil catena di tutti quei preziosi nonnulla si è malamente spezzata.
Per altro, egli non era il momento di trattenersi su quelle frasche. Mandò giù la ingrata sensazione di quel primo incontro con lei; la ebbe anzi per una fisima del suo cervello ammalato, e si presentò al marchese, per dargli ragguaglio della sua legazione. Tra le altre cose, narrò come il figlio di Marco niente avesse ottenuto dai Fregosi, e nemmanco fosse tornato da Genova; donde per avventura, si poteva conchiudere che le speranze d’un accordo non fossero tuttavia dileguate.
Ma intorno a ciò il marchese Galeotto non istava più in forse e ben sapeva che cosa pensarne, cioè che i Genovesi si studiavano di tenergli a bada la lega, e frattanto si disponevano con ogni diligenza ad assalirlo, sperando di averlo atterrato, innanzi che gli altri si fossero mossi a difenderlo. Ora, che la lega del parentado fosse per aiutarlo, non dubitava il marchese; anche pur dianzi, al suo inviato, tutti ad una avevano fatto le più solenni promesse. Quanto a sè ed alle forze raccolte nel Finaro, egli si teneva abbastanza sicuro, da credere che i Genovesi avessero per quella volta fatto male i lor conti. Questo era l’essenziale. Piuttosto, gli doleva del Bagnasco, così largo promettitore in principio, e adesso, secondo gli riferiva Giacomo Pico, tanto irresoluto e difficile a muoversi per un verso o per l’altro. Ma forse, pensava Galeotto (e questo pensiero lo consolava un tratto) la guerra, incominciata che fosse, anche al lontano amico avrebbe sgranchiato le gambe.
E la guerra stava appunto per rompere. Là, a poche miglia discosto, sulla spiaggia di Vado, che è tra Noli e Savona, i Genovesi facevano gente. Da un momento all’altro, chi sa, potevano anche apparire i primi scorridori dell’esercito nemico sulle alture della Briga, e scendere in valle di Pia. Ed era questa la nuova, che dava a messer Giacomo Pico di Bardineto il marchese Galeotto, in ricambio alle molte del suo messaggiero.
Il quale, d’ambasciatore rifattosi uomo d’armi in un subito, uscì dal borgo, varcò il torrente dell’Aquila, e, per la via più spedita, che s’inerpicava alle spalle di Monticello, corse a vedere se fossero bene asserragliati i passi di monte Tola e Calvisio. E di là, attraversata la valle di Pia, già era sulle mosse per risalire fino a Verzi, dove stavano le prime vedette del Finaro, allorquando gli venne udito di que’ due cavalieri, che, provenienti dalla parte d’Isasco e delle Magne (per dove correva la via maestra da Noli al marchesato) erano discesi al guado della fiumana di Pia.
Argomentando che fossero avviati al Finaro, era corso dietro a loro. Ma egli a piedi, e quei due a cavallo; nè aveva potuto raggiungerli. Giunto a Castelfranco, li seppe andati oltre alla Marina; giunto alla Marina, udì che aveano proseguito alla volta del Borgo. Andò al Borgo; nessuna novella di loro. Erano dunque rimasti a mezza strada.
Così, pigliando lingua da ogni banda, aveva trovati i due forestieri all’Altino e gli era occorso con mastro Bernardo quel dialogo maledetto, che gli aveva a dar fumo di tante novità dolorose. In due settimane di lontananza, madonna Nicolosina promessa ad un altro e quest’altro già arrivato per farla sua! Ma, già; hanno il torto gli assenti!