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Non è a dire se i Fregosi accogliessero di buon animo le confidenze di Marco e del figliuol suo, e come gli fossero larghi di promesse. L’orso di Castel Gavone era ancora da prendere; si poteva impegnarne senza tanti riguardi la pelle.
Queste cose, siccome è agevole argomentare, ignorava Galeotto. E frattanto, poichè egli, messo al punto di dover provvedere alle sue difese, non poteva muoversi dal marchesato, e gli premeva in pari tempo di saper l’esito dell’ambasceria del figliuolo di Marco ai Genovesi, aveva disegnato di spedire Giacomo Pico alla torre di Oddonino e alle altre castella de’ principali tra’ suoi consanguinei. Nè a ciò si ristringeva la commissione del Pico. Egli, udito delle pratiche di Abate presso i Fregosi e di ciò che il capitano della lega, messer Francesco di Novelli, avesse deliberato di fare, doveva altresì, procedendo di corte in corte, raccogliendo i pareri e indagando gli animi di tutti, giungere fino alle rive del Tanaro, per recare un messaggio a Tommaso di Bagnasco.
Era questo messer Tommaso un onorevole cavaliere, della casata dei marchesi di Ceva. Quella gente erano guelfi, laddove i Carretti erano ghibellini; ma, oltre che i tempi delle acerbe nimicizie partigiane erano trascorsi e più assai importava a quelle schiatte marchionali vivere in pace tra loro e assodare la loro signoria, Tommaso di Bagnasco aveva sempre dimostrato a Galeotto la più schietta amicizia e s’era in parecchie occasioni profferto all’amico, per servirlo, come dicevasi allora, di coppa e di coltello.
E messer Giacomo Pico era andato, con che animo sel pensi il lettore. Si allontanava un tratto da ma-