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gnore e doge di Genova, ebbe mandato Bartolomeo Cecere a dimandar la mano di Nicolosina, per la prima volta il povero Bardineto tremò, sentì come una mano di ferro che gli agguantasse il cuore. E non cessò lo spasimo suo, fino a tanto non ebbe udite dal labbro del marchese queste consolanti parole:
— «A Giano, prestantissimo uomo, rendo, o messere, le grazie che per me si posson maggiori, che in ciò liberale si mostra ed amicissimo mio. Senonchè, la figliuola mia è troppo giovine per andarne a marito, e in cosiffatti negozi occorre maturità di consiglio. Ben so a qual patto vecchi nemici possano raccostarsi; però consentite, messere, che di cotesto io m’abbia a dare più lunga e meditata risposta in iscritto».
Così era bellamente pagato il Fregoso. Ma egli, inteso l’animo dell’avversario, tosto aveva adunato il Consiglio e messo mano a più saldi argomenti. E poco dopo l’ambasciata del Cecere, andavano alla corte di Galeotto, oratori non più di Giano Fregoso, privato cittadino, bensì del Doge e del Consiglio, un Giacomo di Leone e un Galeazzo Pinello.
— «Marchese Galeotto, — avean detto costoro, — i Genovesi, quanto è in poter loro, detestano le inimicizie e meglio in pace coi vicini amano vivere, che in guerra. Esortano te a volere il medesimo, e a mostrarne il desiderio, ritenendo ciò che è tuo, restituendo l’altrui. Possiedi Castelfranco, già da essi murato e ad essi appartenente quasi per gius di dominio. Sai una terza parte del Finaro doversi ai Genovesi, e come soggetta e come venduta. Sai esser Giustenice loro dominio del pari. Tutto ciò, dunque,