Brani di vita/Libro primo/Le poesie di Angelo Viviani

Le poesie di Angelo Viviani

../Il Monte santo di Dio ../La Guida della Unione Velocipedistica Italiana IncludiIntestazione 31 agosto 2009 75% Autobiografie

Libro primo - Il Monte santo di Dio Libro primo - La Guida della Unione Velocipedistica Italiana

[p. 133 modifica]

LE POESIE DI ANGELO VIVIANI

Le Poesie di Angelo Viviani stanno tutte in un fascicoletto di ottanta pagine, compresa la prefazione: sono stampate a Firenze dalla tipografia del Vocabolario, e sono tra le più brutte che siano venute alla luce in questi anni di versi scellerati.

In una certa estate mi fermai per due giorni in una certa città che non nomino, per ragioni che il lettore vedrà più avanti, se la buona volontà gli dura. Mi fermai solo, alla locanda, per l’amore non corrisposto che porto ai libri vecchi ed alla carta scritta da un pezzo e, conservando l’incognito meglio dei Sovrani, avevo il malinconico aspetto di un viaggiatore di commercio, piuttosto che quello di pretendente alle compiacenze delle vergini Muse. Però, da buon cittadino ossequioso alle leggi, avevo [p. 134 modifica]dovuto scrivere il mio none e cognome sui registri dell’albergatore, il cui aspetto poco letterario del resto mi rassicurava.

Dopo essermi lavato dalla dotta polvere, scesi nella sala a pian terreno destinata al pasto degli avventori e alle esercitazioni coreografiche delle mosche. Ivi, contendendo con una costoletta che pretendeva di non lasciarsi mangiare, sotto il futile pretesto che nel censimento degli animali regnicoli era stata compresa nella categoria asini, colla coscienza tranquilla di chi si ciba di tenero vitello, guardavo alla strada deserta bruciata dal sole, e pensavo a Fano, di dove ero partito il giorno prima, ed alla felicità di sentirsi due metri d’acqua salata sulla testa.

Leggermente intontito dal lavoro del giorno e quasi assopito dal caldo, non davo altro segno di vita che un movimento isocrono delle mascelle ed un abbondante sudore. L’ora, e la distensione di nervi che succede alla fatica, mi davano una calma stupida ma piacevole. I pensieri mi venivano in mente quasi velati e le stesse mosche mi trovavano senza dubbio indulgente, quando il cameriere mi si avvicinò colla ciera rassegnata ed irresponsabile di un ambasciatore che porta cattive nuove, dicendomi sottovoce: — C’è un sacerdote che le vuol parlare.

— Un sacerdote? Ma io non ho relazioni col presbiterato! Qui non conosco nessuno, tanto meno [p. 135 modifica]poi preti! Vi pare l’ora questa di seccare un galantuomo che pranza? E chi è questo sacerdote?

Il cameriere alzava le spalle a maggior confermazione della propria irresponsabilità e non sapeva ripetermi altro che: — Quel sacerdote le vuol parlare.

Forse la costoletta che tentavo di mangiare mi suggerì l’idea della pazienza. Del resto, come ho detto, l’ora persuadeva alla calma. Dalla finestra socchiusa vedevo una striscia di strada bianca, arroventata, popolata soltanto da un cane che, accovacciato nel rigagnolo, con pazienza esemplare andava a caccia di selvaggina sul proprio individuo. Il silenzio era profondo e il ronzìo incessante delle mosche non lo interrompeva. Tutto disponeva alla tranquillità filosofica, e mi rassegnai a dare udienza al reverendo.

Era un uomo robusto, bruno di pelle e di capelli, lucido in viso come fosse unto. Si avvicinò mezzo sorridendo e mezzo imbarazzato, ed al mio invito di sedersi, rispose con un gesto negativo, risoluto e forte come la sua persona. Il collo toroso e le spalle quadrate indicavano che il sacerdote doveva avere dei terribili accessi di tentazione ed auguro alla Chiesa che il suo ministro abbia avuto la forza dell’anima uguale a quella del corpo: se no, poveri voti!

Così in piedi, davanti alla tavola, il reverendo mi disse che era curato in montagna, che aveva saputo [p. 136 modifica]per caso la mia presenza all’albergo, e che aveva voluto procurarsi l’onore ecc. ecc. Aveva un vocione robusto come le spalle e certi scoppi di voce che facevano vibrare i cristalli. La salute e la vita traboccavano in lui e non l’avrei certo consigliato per confessore alle damine che soffrono di debolezze. Sicuro di sè dopo due minuti di conversazione, piantato energicamente sulle gambe muscolose e sui piedi da montanaro, gestiva largamente, franco come chi non teme ostacoli e non sa che sia la paura del ridicolo. Sarà un buon curato, non dico, ma, a prima vista, non ricordava le macerazioni dei perfetti servi di Dio.

Dopo i primi complimenti tirati a bruciapelo, saltò a parlare di scuole poetiche. Ne parlava ruvidamente, con idee vecchiotte, reminiscenze forse del corso di rettorica fatto in seminario, ma con una schiettezza cui sono poco usati i critici di mestiere. Ricordava il tipo del bello, la verità eterna e tante altre cose che ora non si ricordano più e, di quando in quando, puntava le mani aperte sulla tavola con certi "che ne dice lei?" baritonali e sonori, senza attendere la mia risposta. Poi s’imbarcava di nuovo ne’ suoi ragionamenti antiquati, di dove scoppiettava qua e là qualche idea bizzarra o ingenua, con una foga di uomo convinto e militante che mi maravigliava.

Mi maravigliava e m’imbrogliava. Che diavolo voleva egli da me? Per grande che sia la mia pre[p. 137 modifica]sunzione, non arriva fino ad ammettere che un curato di montagna venga a pescarmi pel solo gusto di fare la mia conoscenza. Un perchè dunque ci doveva essere. Ma quale?

Pensai di offrire da bere al mio reverendo interlocutore, ma egli, senza interrompere il discorso, fece il suo solito segno di negazione colla mano, e tirò avanti a parlare di idealismo e di realismo.

Io cominciavo a riflettere seriamente alla digestione.

Quando Dio volle, cominciai a capire dove andava a cascare tutto questo discorso. Il curato tirò fuori di tasca un mazzo di bozze di stampa e vidi con raccapriccio che erano versi. Sono parecchi anni che passo la mia vita a trovare delle scappatoie per non leggere i versi che mi mandano perchè io dia un parere secondo il mio illuminato giudizio. Ho finito col non rispondere più a nessuno; ma questa volta dovevo pur dir qualche cosa. Un curato di quella robustezza non si può lasciare senza risposta come una lettera. Mi convinsi che la costoletta era decisamente asinina. Come mi pesava sullo stomaco!

Pensai, così alla prima, che i versi fossero del curato in persona, ma me ne diceva male con troppa convinzione perchè io credessi ad una finta da parte sua. Ne diceva corna; dunque doveva esser roba di un suo amico. [p. 138 modifica]

Così difatti era. I versi di Angelo Viviani sono di un suo amico, curato anche lui! Ero proprio cascato nelle braccia della Chiesa.

Il curato poeta ha voluto fare anch’egli la sua gherminella come un tale di mia conoscenza ed ha fatto precedere ai versi una prefazione firmata Un amico, nella quale si legge come qualmente Angelo Viviani era un giovane pieno di buone qualità, bersagliato dalla fortuna, innamorato senza speranza (ahi! ahi!) ed altre belle, ma vecchie cose. Solo che il romanzetto, invece di finire al solito colla morte del protagonista per via della solita tisi, finisce colla emigrazione del Viviani per la libera America. È vero: Ecclesia abhorret a sanguine.

Il curioso poi era che il curato presentatore dei versi del Viviani non aveva abbastanza parole per biasimare la gherminella che gli pareva irriverente pel pubblico, indegna di uno che ha fede nelle cose proprie, e via di questo passo. Non si ricordava forse a chi parlava. La costoletta era dura a digerire, ma il curato peggio.

E poichè parlo di gherminelle, intendiamoci bene. Protesto che vi racconto la verità senza abbellimento di alcuna sorta e solo con quelle poche velature che valgano a far perdere la traccia de’ miei due curati ai rispettivi vescovi, se per caso leggessero queste [p. 139 modifica]righe. Il fatto è verissimo dal principio alla fine e, pur troppo, mi è capitato. Dio nella sua misericordia perdonerà ai curati peccatori. Io li punisco con questo racconto, ma mi dorrebbe che li punisse il vescovo. Sarebbe un rimorso che mi peserebbe sullo stomaco più della costoletta.

Mentre il curato parlava, io andava leggendo qua e là i versi che sono davvero bruttini. Ce ne sono di quelli che, se non sono zoppi affatto, sono molto sciancati: ma poichè ormai il notare i versi che non possono camminare la dicono pedanteria, mi fermo a dire che quel libretto mi dà un po’ l’idea di un magazzino di rigattiere, tante sono le ciarpe vecchie che l’ingombrano, come i sonetti alla luna, alla malinconia e simili. Ci sono poi delle idee curiose, come quella di una quercia che, crescendo addosso ai morti, allevia i loro giacigli, e degli errori curiosi di storia naturale, come quello che fa le gaggìe cerulee. Si vede che il curato poeta non ha molta pratica di fiori e di fioraie.

L’odor di prete si sente dappertutto, poichè ad ogni pagina s’incontrano Dio, il purgatorio, le campagne, i mistici fiori, i martiri, gli eletti ed altre sacrosante cose. Ma in mezzo a questo c’è un amore; anzi, a quanto pare, più d’uno.

Voglio credere, per l’onore del sacerdozio, che quegli ardori profani siano una reminiscenza di gioventù, una aspirazione che ha preceduto la solennità della tonsura. Ma tuttavia il sentire un reverendo curato cantare alla luna i rigori di una Emilia di carne ed ossa, mi fa un certo effetto!... [p. 140 modifica]

Così andavo leggendo, quando mi capitò sotto gli occhi questo sonetto, sgangherato, ma strano in bocca ad un prete:

20 SETTEMBRE 1880

Da questa eccelsa vetta abbandonata,
     D’alberi monda e sol d’erba vestita
     E d’ermi fiori, dove cento han vita
     Ruscelli d’acqua limpida e gelata,

O il bel cielo ch’io miro, o quale aurata
     Spera di sole, o l’Alpi, o l’infinita
     Cerchia di mar e i fertil pian (gradita
     Stesa di ville!) o Ausonia mia adorata!

Al bel paese delle Grazie e Amore
     Risorto ormai, sì impreco in questo giorno:
     L’ira d’Iddio lo distrugga intero.

Se de’ suoi figli il senno ed il valore
     Nol serberà di libertade adorno,
     Uno e temuto in faccia allo straniero.


Tombola! Un curato che parodia i versi di Garibaldi: “Vorrei vederla trepida — Sotto il baston del Vandalo” ecc.; un curato che canta l’Italia libera ed una proprio il 20 settembre, l’anniversario della breccia!...

Questa non me l’aspettavo! Guardai in faccia il mio reverendo interlocutore che tacque un momento e lo interrogai. Caddi di sorpresa in sorpresa! Anche [p. 141 modifica]che questo curato era liberale, unitario ed ammiratore della breccia! Vi parrà impossibile, ma fu vero purtroppo per me, che dovetti sorbirmi una nuova esposizione di principii. Ne disse di quelle che, se la Curia lo avesse sentito, lo avrebbe sconsacrato lì, proprio nella sala della locanda.

Ma più di tutto era furibondo contro ai seminari. — Ci prendono bimbi, c’imbottiscono di sciocchezze — (e additava le bozze del suo amico), — ci tengono chiusi come frati in un’atmosfera artificiale come i poponi nelle stufe, ed un bel mattino ci ungono come un paio di stivali di vacchetta e ci mandano per bosco e per riviera. Arriviamo nel mondo colle nostre idee del seminario e troviamo che non sono altro che buffe. Tentiamo di cambiarle, di studiare, di capire il mondo in cui dobbiamo vivere, ma abbiamo sempre un filo legato al piede, siamo sempre tenuti d’occhio come gli ammoniti. Lo stigma del seminario non si cancella più dalla nostra fronte, ed è vero il detto: Semel abbas semper abbas. Quando la Chiesa ha afferrato una volta la sua preda, non la lascia più. Ci destiamo un bel mattino al bivio o di apostatare per essere odiosi a tutti, o di essere ipocriti per essere accetti da tutti. È troppo naturale che la umana debolezza scelga quest’ultima strada, ma perdìo — (disse proprio perdìo chiaro e tondo) — ci pesa il batterla e la colpa è tutta di quelli là.

Qui il curato tese il dito in direzione nord-ovest, [p. 142 modifica]dove suppongo che si trovasse il seminario dell’anima sua ed abbandonò le serene regioni del linguaggio parlamentare.

Doveva toccare a me anche questa! Il mio curato aveva spiegato le vele a tutti i venti e bestemmiava le cose più sacre della religione cattolica, come il poter temporale, la prigionìa del papa e simili, quando io che non ne potevo più gli troncai a mezzo il discorso coll’apostrofe del Carducci:

Cittadino Mastai, bevi un bicchier!

e gli tesi il bicchiere colmo. Rimase col discorso a mezzo, esitò, poi scosse la testa come per dire mi decido! ed afferrò il bicchiere colla sinistra. Intanto alzò il pugno destro in aria, colla fronte corrugata e i denti stretti, brontolando: — Ah! Mastai! Mastai!

Se la Curia avesse visto che pugno nocchieruto era quello!

Bevve, riprese le bozze, contentissimo che i versi del suo amico non mi fossero piaciuti. Mi alzai in maniera di congedo, mi strinse forte la mano e se ne andò calcandosi il nicchio sul cranio con un gesto nervoso.

L’altro ieri la posta mi ha portato i versi di Angelo Viviani e la scena mi è tornata in mente, tanto che non ho potuto resistere al prurito di raccontarla tale e quale.

Fortuna che su per l’Apennino dei Viviani ce ne son pochi; se no, il Parnaso e il Vaticano starebbero freschi!