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134 Brani di vita

dovuto scrivere il mio none e cognome sui registri dell’albergatore, il cui aspetto poco letterario del resto mi rassicurava.

Dopo essermi lavato dalla dotta polvere, scesi nella sala a pian terreno destinata al pasto degli avventori e alle esercitazioni coreografiche delle mosche. Ivi, contendendo con una costoletta che pretendeva di non lasciarsi mangiare, sotto il futile pretesto che nel censimento degli animali regnicoli era stata compresa nella categoria asini, colla coscienza tranquilla di chi si ciba di tenero vitello, guardavo alla strada deserta bruciata dal sole, e pensavo a Fano, di dove ero partito il giorno prima, ed alla felicità di sentirsi due metri d’acqua salata sulla testa.

Leggermente intontito dal lavoro del giorno e quasi assopito dal caldo, non davo altro segno di vita che un movimento isocrono delle mascelle ed un abbondante sudore. L’ora, e la distensione di nervi che succede alla fatica, mi davano una calma stupida ma piacevole. I pensieri mi venivano in mente quasi velati e le stesse mosche mi trovavano senza dubbio indulgente, quando il cameriere mi si avvicinò colla ciera rassegnata ed irresponsabile di un ambasciatore che porta cattive nuove, dicendomi sottovoce: — C’è un sacerdote che le vuol parlare.

— Un sacerdote? Ma io non ho relazioni col presbiterato! Qui non conosco nessuno, tanto meno