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Le poesie di Angelo Viviani 139

righe. Il fatto è verissimo dal principio alla fine e, pur troppo, mi è capitato. Dio nella sua misericordia perdonerà ai curati peccatori. Io li punisco con questo racconto, ma mi dorrebbe che li punisse il vescovo. Sarebbe un rimorso che mi peserebbe sullo stomaco più della costoletta.

Mentre il curato parlava, io andava leggendo qua e là i versi che sono davvero bruttini. Ce ne sono di quelli che, se non sono zoppi affatto, sono molto sciancati: ma poichè ormai il notare i versi che non possono camminare la dicono pedanteria, mi fermo a dire che quel libretto mi dà un po’ l’idea di un magazzino di rigattiere, tante sono le ciarpe vecchie che l’ingombrano, come i sonetti alla luna, alla malinconia e simili. Ci sono poi delle idee curiose, come quella di una quercia che, crescendo addosso ai morti, allevia i loro giacigli, e degli errori curiosi di storia naturale, come quello che fa le gaggìe cerulee. Si vede che il curato poeta non ha molta pratica di fiori e di fioraie.

L’odor di prete si sente dappertutto, poichè ad ogni pagina s’incontrano Dio, il purgatorio, le campagne, i mistici fiori, i martiri, gli eletti ed altre sacrosante cose. Ma in mezzo a questo c’è un amore; anzi, a quanto pare, più d’uno.

Voglio credere, per l’onore del sacerdozio, che quegli ardori profani siano una reminiscenza di gioventù, una aspirazione che ha preceduto la solennità della tonsura. Ma tuttavia il sentire un reverendo curato cantare alla luna i rigori di una Emilia di carne ed ossa, mi fa un certo effetto!...