Brani di vita/Libro primo/Il quarto Sacramento
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IL QUARTO SACRAMENTO
Quando ci alzammo da tavola il colonnello era di buon umore.
Un po’ di epicureismo inteso bene spianerebbe le rughe in fronte anche al profeta Geremia, quello delle lamentazioni; figuratevi se non ci sentivamo allegri noi, facendo cerchio intorno al fuoco e aiutando il chilo con un ponce squisito. Fu allora che il colonnello, tra le altre storielle, ci narrò questa.
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Una volta, ho commesso un’azione poco delicata, e siccome le birberìe si tirano una coll’altra come le avemarie, fodero l’indelicatezza con una indiscrezione. Capirete però, che almeno i nomi non li dico.
Prima del 1859, e pur troppo anche ora, le nostre famiglie tenevano in casa un prete che faceva da pedagogo e da maestro ai ragazzi. Il prete di casa mia, un tal don Paterniano, non aveva nulla che lo distinguesse da’ suoi colleghi. Era asino come loro, ghiotto e sudicio quanto impongono i canoni e la consuetudine; ma non era cattivo e, quando nel 1860 scappai di casa per andare in Sicilia, il pensiero di lasciare il mio pedagogo non mi affliggeva certo, ma nemmeno mi rallegrava.
Dal 1860 al 66, accaddero tante cose che non giova raccontare. Basta che tornai capitano e mi trovai solo. Anche lo zio, l’unico parente che portasse il mio nome, era morto proprio il giorno dopo alla battaglia di Sadowa. Tornai con un permesso di sei mesi per guarire la lussazione che avevo riportata a Custoza, ma in verità la lussazione più grave l’avevo dentro.
Ricorderete tutti i terribili disinganni che ci colpirono allora; i disinganni della guerra e quelli della pace successiva. Ma per noi militari, l’amarezza era più grave. Ci pareva di esser responsabili verso alla nazione dell’accaduto e, a tutti i dolori, si aggiungeva un penoso sentimento quasi di vergogna immeritata, che ci faceva sospettare un accusatore in ogni conoscente che rivedevamo. Io poi, che tornavo con una volgare lussazione già mezzo guarita! Altri almeno poteva mostrare con orgoglio le cicatrici del proprio dovere; io ritornavo a casa ingrassato!
E la mia casa era deserta! La custodiva solo il portinaio che non conoscevo e, passando per quelle ampie sale silenziose, non sentivo altro che il rumore de’ miei passi, di cui si maravigliavano i ritratti dei vecchi di casa, i quali mi seguivano con gli occhi come se fossi un estraneo. Finii presto le faccende che avevo da mettere in regola col notaio e mi trovai con la bella prospettiva di cinque mesi di noia futura. Che fare?
Nel rovistare le carte della successione, avevo trovato alcune lettere di don Paterniano, nelle quali comunicava al mio povero zio la sua promozione a superiore del convento di Monte Stella vicino a X***. Infatti il mio antico pedagogo si era fatto frate camaldolese e si chiamava ora padre Romualdo.
A leggere quelle lettere, mi venne la matta idea di farmi frate provvisoriamente e di gustare la pace profonda del monastero.
Ero tanto angustiato di quel ch’era accaduto, ero tanto annoiato di quella solitudine in cui mi trovavo per forza, che pensai a farmi solitario sul serio per qualche mese, sperando di riprendere forze morali e nuova capacità d’illusione e d’entusiasmi.
Scrissi dunque a padre Romualdo chiedendogli se mi accettasse come frate dilettante, obbligandomi a pagare il mio mantenimento e a non turbare per nulla le consuetudini e gli scrupoli dei suoi frati.
Il padre mi rispose lietissimo, dicendomi che mi aspettava a braccia aperte; mi chiedeva quanti metri e centimetri fossi alto per farmi fare la tonaca subito; mi avvertiva di lasciar crescere la barba e, nella poscritta, insinuava che quanto a vitto starei bene, ma quanto a bere avrei agito prudentemente cercando di portar meco qualche bottiglia, poichè la cantina del convento era vuota, imponendo la regola di bere acqua pura.
Questa raccomandazione mi fece ridere, poichè mi ricordai che padre Romualdo, quando era don Paterniano, beveva spesso e volentieri, preferendo il vino buono a qualunque altro liquido.
Il convento di Monte Stella è sopra un colle che domina la città e il mare. A mezzodì si apre larga e verde una valle, dove il fiume irriga i giardini e i campi, mentre, verso ponente, i monti, vestiti di querce e di castagni, digradano in colore sino a divenire azzurri all’orizzonte. È uno di quei luoghi come i frati hanno sempre saputo scegliere vicino alle città, vale a dire un luogo incantevole.
Il convento, ceduto al Municipio dal Governo, non è fatto per la vita in comune, ma composto di tante piccole casette, una per ogni frate. Così vuol la regola. Ogni casetta ha tre camere e un piccolo giardino chiuso da un alto muro; ma quella che mi fu assegnata guardava la valle e, da quel lato, non era chiusa che da un parapetto, sotto al quale il monte scendeva a picco. Le casette fanno corona alla chiesa, dietro cui sta un magnifico bosco. Tutto questo villaggio religioso è circondato da un muro e non si può entrare se il frate portinaio non apre il cancello.
Padre Romualdo mi accolse proprio come mi aveva annunciato: a braccia aperte. Giunsi la notte ed egli mi condusse subito alla casetta che m’aveva destinato. Volle che mi vestissi subito da frate, mi pregò di parlar poco con gli altri frati (erano tre in tutto e addetti ai servizi umili come la loro intelligenza: il cuoco però conosceva profondamente l’arte sua), di farmi servire da loro senza riguardi e altre raccomandazioni dalle quali credetti di capire che il padre m’avesse fatto passare per un pezzo grosso dell’ordine, venuto in incognito. S’informò de’ miei bagagli che dovevano venire al mattino e io l’avvertii di far scaricare con giudizio le casse per non rompere le bottiglie. Mi dette la buona notte e io, dopo aver fumato un sigaro nel giardinetto, mi coricai sul lettuccio monastico che mi concesse un sonno beato.
Al mattino, mi levai di buon umore e, mentre stavo odorando i fiori del giardino e guardando giù l’immensa valle da cui salivano le nebbie mattutine, sentii alcune voci dominate da quella di padre Romualdo che gridava:
— Piano! giudizio con quelle casse di libri!
Le casse di libri furono presto nel mio appartamento e sapete già che erano delle migliori edizioni di Bordeaux, di Brolio, di Barolo, di Capri e di altre regioni propizie all’enologia.
Mi sentivo benissimo. La stranezza della mia posizione, la cucina eccellente, la tranquillità intima, la stessa voluttà che provavo nelle ore calde sedendo sotto l’ombre fitte del bosco con la sola camicia e la leggera tonaca di lana bianchissima, la quale si presta tanto bene alle carezze intime delle brezze montane, tutto insomma contribuiva a far di me un vero frate, insensibile a ogni seccatura del mondo esterno, annichilito nella pace della vita animale. Padre Romualdo mi prodigava le finezze e le attenzioni più delicate e gli altri frati mi rispettavano silenziosamente, facendomi certi profondi inchini cui corrispondevo con un sorriso di degnazione. Un giorno feci un complimento al cuoco il quale, commosso mi baciò la mano.
Dopo una settimana di quella vita beatamente epicurea, cominciai a sentire che c’era pure qualche cosa che non andava. Quando mi alzavo al mattino e nel mio giardinetto fumavo un sigaro contemplando la valle, la città e il mare, avevo dei momenti grigi che tendevano tutti i giorni a farsi più scuri e provavo un senso di vuoto, di insoddisfazione, che diventava sempre più nervoso e penoso. Mi mancava l’eterno femminino. Quando sentivo un canto di villana salir dalla valle al mio giardinetto, avevo già certi spasimi interni che incominciavano a disgustarmi della vita contemplativa.
Padre Romualdo tutte le sere veniva nella mia casetta. Aveva preso confidenza e fumava e beveva come se la regola glielo imponesse. Mi raccontava alle volte certe storielle grassocce che lo facevano ridere sino alle lagrime e si rovesciava sul seggiolone tenendosi la pancia e sgangherando le mascelle. Il buon padre si sentiva sovrano e padrone di Monte Stella e, poichè i suoi tre fraticelli lo servivano come un pascià, egli si era liberato sempre più dai lacci monastici e ho il sospetto che peccasse e si assolvesse da sè. Certo lassù, in quel monastero venerato da tutta una regione, egli solo aveva facoltà di confessare.
Una sera gli contai le mie nuove tribolazioni che egli accolse con uno scoppio di ilarità. Lascio i commenti aretineschi che vi fece sopra. Egli era oramai giunto in età da non soffrire come soffrivo io, ma mi narrò, con molta evidenza, le sue lotte passate, le sue vittorie contro la tentazione, dove qua e là mi parve di scorgere qualche restrizione e qualche bugia. La confessione era il suo tema prediletto e mi narrava le marachelle che aveva sentito dalle donne, i casi di coscienza che aveva dovuto sciogliere, le sue soluzioni e una filza di aneddoti pornografici che lo facevano sussultare dalle risa sopra la scranna, mentre io senza volere, ogni volta più l’ascoltavo volentieri.
Una sera aveva bevuto più del solito e cominciava a perder l’erre. Bussarono alla porta del giardino e il padre dalla sua sedia chiese ad alta voce: — Chi è? — Un fraticello rispose: — La contessa Y* che si vuol confessare. Il padre brontolò sottovoce alcuni spropositi grossi, poi gridò che la introducessero in chiesa a far l’esame di coscienza, che tra poco sarebbe venuto.
Tornò a spropositare. Erano ore quelle da venire a romper le tasche a un povero servo di Dio? Benedette donne, che fanno i peccatacci e seccano la gente a tutte l’ore per farseli perdonare! E via di questo passo. Io ebbi un’idea luminosa e gli dissi: — Vuoi che vada io? — Prima credette che scherzassi, ma dopo che gli ebbi mesciuto un bicchiere di Capri traditore, cominciò a ridere della burla e finì col consentirmelo, facendomi fare i più terribili giuramenti di segreto. Gli sturai un’altra bottiglia e uscii.
In parola d’onore, ero meno commosso a Milazzo quando sentii a fischiare le palle la prima volta. Si ha un bell’essere capitano di cavalleria, ma l’idea di confessare una signora, che sapevo giovane e bella, mi faceva un certo effetto.
Passai dalla sagrestia e mi misi la cotta e la stola, tirandomi il cappuccio bianco più avanti che mi fosse possibile. Ero sicuro di non trovare in chiesa altro che la mia penitente; ero certo di farla franca, ma insomma un po’ di tremarella l’avevo.
La chiesa era scura scura, poichè i piccoli lumicini che ardevano davanti agli altari non rompevano le tenebre. Un odore d’incenso, d’umidità fresca e di fiori empiva ogni cosa e, nel silenzio profondo e solenne, sentivo il rumore dei miei sandali e mi veniva quasi la voglia di camminare in punta di piedi. Tuttavia, curvo e con le mani immerse nelle larghe maniche, mi diressi al confessionale. Vidi un’ombra nera chinata sopra un inginocchiatoio, mi chiusi dentro e tirai la tendina.
Avevo sempre addosso quella benedetta emozione che mi faceva battere il cuore, ma appena fui seduto mi venne quasi voglia di ridere A un tratto, al finestrino di sinistra, la parte del cuore, sentii una voce bisbigliare il Confiteor. Per vostra norma la contessa era una bella bruna di venticinque anni, maritata, alta, ben fatta, in fama d’essere spiritosa, ma severissima in riga di galanteria.
— Figlia mia, siete al tribunale della penitenza. Confessate con sincerità piena e contrita le vostre colpe a Dio che le ascolta e ricordatevi che quel che deporrete a questo santo tribunale rimane un segreto tra voi e Dio soltanto.
— Padre, mi accuso del peccato di superbia. (Cominciamo dal primo dei peccati mortali, dissi tra me. Quando parlava, sentivo il tepore del suo alito passare tra i buchi della graticola).
— Ditemi, figlia mia, le circostanze di questo peccato, perchè possa misurarne la gravità. Siete voi stata vana del vostro nome, delle vostre ricchezze o del vostro corpo?
— Di tutti e tre, padre. (Ahi! ahi!)
— E questa vostra colpa si è tradotta esternamente con atti, con sguardi, o con parole?
— Mi accuso di essermi guardata troppo volentieri nello specchio, e... (titubò un poco) specialmente uscendo dal bagno... (Sacripante! Domando io se sono cose da contare a un capitano di cavalleria che fa vita monastica e rimpiange terribilmente l’eterno femminino! Cominciavo a spaventarmi).
— Male, figlia mia. Dio non v’ha dato un bel corpo per compiacenze peccaminose, ma perchè serva a sua eterna glorificazione. (La frase era stupida. Cominciavo a impaperarmi. Avevo una gran voglia d’insistere e di domandare particolari più minuti, ma temetti di eccedere. Ci fu un breve silenzio).
— E sopra il secondo peccato, l’avarizia, avete nulla da dire?
— No, padre, non mi pare d’esservi caduta.
— E... e sopra al terzo... Vediamo: siate sincera. Pensate che quel che affidate al tribunale della penitenza rimane segreto, suggellato con sette suggelli, e riflettete che le domande che vi farò non vengono da curiosità indiscreta, ma dalla necessità in cui si trovano i ministri del Signore di pesar bene tutte le circostanze, per conoscere e giudicare la gravità del peccato.
— Sì, padre; mi accuso di aver . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Angeli e ministri di grazia! La contessa non era severa; no, no: era prudente!
Quando le ebbi data l’assoluzione e i sette salmi penitenziali da dire, scappai, chè mi pareva d’aver le fiamme nelle ossa. Padre Romualdo russava sul mio letto e io cominciai a radermi la barba per presentarmi il domani alla contessa.
Stetti in città un mese, radunando con la contessa i materiali di una futura confessione. Padre Romualdo l’avrà assolta, ma a me è sempre rimasto un mezzo rimorso. Mi pare che il sorprendere così i segreti di una signora non sia troppo delicato.
Raccontarveli, poi!