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238 | Brani di vita |
Passai dalla sagrestia e mi misi la cotta e la stola, tirandomi il cappuccio bianco più avanti che mi fosse possibile. Ero sicuro di non trovare in chiesa altro che la mia penitente; ero certo di farla franca, ma insomma un po’ di tremarella l’avevo.
La chiesa era scura scura, poichè i piccoli lumicini che ardevano davanti agli altari non rompevano le tenebre. Un odore d’incenso, d’umidità fresca e di fiori empiva ogni cosa e, nel silenzio profondo e solenne, sentivo il rumore dei miei sandali e mi veniva quasi la voglia di camminare in punta di piedi. Tuttavia, curvo e con le mani immerse nelle larghe maniche, mi diressi al confessionale. Vidi un’ombra nera chinata sopra un inginocchiatoio, mi chiusi dentro e tirai la tendina.
Avevo sempre addosso quella benedetta emozione che mi faceva battere il cuore, ma appena fui seduto mi venne quasi voglia di ridere A un tratto, al finestrino di sinistra, la parte del cuore, sentii una voce bisbigliare il Confiteor. Per vostra norma la contessa era una bella bruna di venticinque anni, maritata, alta, ben fatta, in fama d’essere spiritosa, ma severissima in riga di galanteria.
— Figlia mia, siete al tribunale della penitenza. Confessate con sincerità piena e contrita le vostre colpe a Dio che le ascolta e ricordatevi che quel che deporrete a questo santo tribunale rimane un segreto tra voi e Dio soltanto.
— Padre, mi accuso del peccato di superbia. (Cominciamo dal primo dei peccati mortali, dissi tra