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Il Natale nella lirica

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IL NATALE NELLA LIRICA


I boccali di Montelupo, ricchissimi di auree sentenze, debbono portar dipinta sulla pancia anche questa: che la stessa idea è concepita, sviluppata ed espressa diversamente nei diversi secoli. Ella dirà che questo aforisma poteva essere risparmiato agli innocenti lettori i quali hanno giudizio da imprestare, e sanno bene che senza queste trasformazioni delle idee e delle forme non ci sarebbe storia letteraria. Io protesto pel mio rispetto agli innocenti lettori, ma dico anche che non è poi affatto inutile ripetere questa massima decrepita. Non Le pare che a questo mondo ci sia ancora dell’ottima gente la quale pretenderebbe che sentissimo e scrivessimo come nel trecento, nel cinquecento, o alla peggio come nel milleottocento dodici o quindici, l’epoca degli inni sacri del Manzoni! Non Le pare che novant’anni siano parecchi? Io Le auguro di non saperlo per prova.

Se Ella poi vuol capacitarsi di quel che oggi si chiama evoluzione, sia del pensiero che della forma, [p. 278 modifica]cerchi gli esempi piuttosto che i ragionamenti; anzi prenda uno di quegli argomenti che, dal trecento in qua, furono sempre trattati e ne segua la successiva trasformazione. Così avrà quasi una sintesi della storia letteraria. Siamo alle feste di Natale? Ebbene: segua la metamorfosi del Natale nella nostra lirica.

Nel secolo XIV i poeti sono cristiani nel sangue e nell’anima, e capaci di vedere l’apparizione che fermò Saulo nella via di Damasco. Jacopo da Todi, giovane, ricco, innamorato, si dà bel tempo. Un giorno, in una festa pubblica, per la rovina di un impalcato, la sua donna muore improvvisamente, e Jacopo, trovatole sulle carni un aspro cilicio, si fa frate. È cristiano umile e fervente nell’amor di Dio. Del mondo non gli importa se non per quel che ha riguardo alla religione e nel Natale non vede più in là del mito cattolico:

Mio amore e Salvatore,
     quanto tu se’ grazioso,
     ch’empi il cor di dolzore
     e failo star gioioso!
     non so star più pensoso
     quando sovviene al core
     l’angeluccio mio amore
     che in gioia mi mantiene.

L’angeluccio piccolino
     che in Betelemme è nato
     non vi paia sì fantino
     ch’ello è re incoronato,
     e l’angelo l’ha chiamato
     per figliuol vero di Dio.
     Questo si è il signor mio
     che in sua man tutti ci tiene!


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Ma nel secolo seguente, il secolo degli umanisti, del paganesimo che ricomincia, non è più al bambino che si volgono gli affetti ed i canti; è alla madre, alla donna. Lorenzo il Magnifico si raccomanda al cielo per paura dell’inferno e quando nella lauda sesta par che voglia celebrare il natalizio del cristianesimo, si rivolge a Maria e non più all’angeluccio piccolino dell’umile Jacopone. Dice bensì:

Tu Maria fosti onde nacque
     tanto bene alla natura;


ma si volta subito alla donna, ed in lei loda, più che altro, la bellezza;

Quant’è grande la bellezza
di te vergin santa e pia!
.     .     .     .     .     .     .     .     
Con la tua bellezza tanta
la bellezza innamorasti.
O la bellezza eterna e santa
di Maria bella infiammasti.
Tu d’amor l’amor legasti,
Vergin santa dolce e pia.


D’allora in poi è rimasto qui quel che i protestanti chiamano mariolatria. Lasciamo in un cantuccio queste discussioni di lana caprina; ma notiamo questo, che nell’arte nostra c’è stato sempre piuttosto il culto della madre che della vergine. Quante sono le belle madonne del quattro e del cinquecento che non portino in braccio il bimbo testimonio della loro santa maternità? A questa mite e umana immagine si rivol[p. 280 modifica]sero più volontieri i pittori ed i poeti. Confrontate il terribile Dio del Savonarola colla benigna Maria alla quale il Benivieni esclamava con tanta piena d’affetto:

Vergine gloriosa,
     umile, santa e pia,
     madre, figliuola e sposa
     del tuo figlio, o Maria,
     deh volgi, prego, alquanto
     gli occhi tuoi da quel bene d’ogni bene.
     In noi discendi e il pianto
     la miseria e le pene
     vedi del servo tuo che a te sospira,
     a te, fonte d’amore,
     perchè in te sola il core
     spera, in te sol si posa, in te respira.
     Tu, madre di pietate,
     pelago di dolcezza,
     tu, specchio d’umiltate,
     fior d’ogn’altra bellezza,
     tu, porto di salute,
     tu, refugio dei miseri mortali,
     tu, fonte di virtute,
     sola dei nostri mali
     sei medicina e però a te ricorro,
     che le tue sante mani
     in me ne stenda e sani
     la piaga onde ferito a morte or corro.


Ah, chi scrive versi come questi, ama e crede veramente! Quanti oggi si protestano credenti e scrivono versi? Eppure quanti sanno trasfondere nell’opera loro tanta intensità d’affetto, tanta abbondanza di fede e d’amore? Se sapessero e se potessero [p. 281 modifica]scrivere così, chi parlerebbe più di Voltaire? Invece un poeta di conto e sinceramente religioso, Giacomo Zanella, canta che in noi la religione non è oramai più che il ricordo dell'amor materno|ricordo dell’amor materno e in essa non cerca più che la pace, e la chiama:

Aura impregnata del salubre timo
     De’ chiostri antichi e dell’occulta manna,
     Che all’alma avvolta nel corporeo limo
     Molce l’ardor che l’intelletto affanna.


Dalla spontaneità dell’affetto e dalla religione per la religione di Jacopone e del Benivieni, ci corre! Ma torniamo al Natale.

Nel secolo XVI l’affetto vero non lo troviamo più. La lirica diventa petrarchesca e la lirica religiosa canta la Vergine proprio come Laura. Questa non è esagerazione. Il Petrarca spirituale del Malipiero (oh, la superba, la splendida edizione del Marcolini!) non è altro che una rabberciatura del canzoniere per ridurlo a cantare Maria invece di Laura. Eccone un esempio. Tutti ricordano il celebre sonetto del PetrarcaIn qual parte del cielo, in quale idea, ecc.” Il Malipiero lo sconcia così:

In qual parte del ciel, in quale idea
     Sì bello esempio il re celeste tolse,
     Quando al mondo produr sua sposa volse
     Per dimostrar qua giù quanto potea?

Dal Verbo, ove ab eterno fu tal Dea
     Predestinata, la bellezza sciolse
     Il creator, ove di grazia accolse
     Tal privilegio onde non fu mai rea.

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Per tanto ogn’altro obbietto indarno mira
     Se questa, insieme col figliuol, non vide
     Chi a contemplar beltà gli occhi suoi gira.

Questa nessuno col suo aspetto ancide,
     Anzi d’ogni mal nostro lei sospira
     E dolcemente a gli suo’ amanti ride.


Ah, frataccio scellerato, chi t’insegnò a storcere contro Venere le invettive del poeta alla corte di Avignone? Chi t’insegnò a barattare i versi

     Virtù contra furore
     Prenderà l’arme e fia il combatter corto,
     Chè l’antico valore
     Ne’ gl’italici cor non è ancor morto


in questi altri

     Sai che il combatter contro ’l cielo è corto,
     Anzi di niun valore,
     Qual contra il fer leon vil cane è morto!


Ah! se ci fosse stato il Tassoni a pettinare questo archimandrita del Petrarca ed a gridargli

                              E ti fu per errore
     Da un ignorante quel capestro avvinto
     Che al collo non al... ti andava cinto!


Come non lo sospesero, non già a divinis, ma ad una forca alta cinquanta cubiti?

Dalle fredde imitazioni del cinquecento è curioso passare alle caldezze artificiose del seicento. Qui [p. 283 modifica]dov’è la fede? Dov’è l’affetto? Non si trovano che concetti sgangherati. Cominciamo dal cav. Marino:

Uomo e Dio grande in cielo, in terra umile
     Tra i disprezzi Gesù scopre gli onori;
     Ecco ch’oggi adorato è da pastori
     Pur nato appena in rustico fenile.

E se ben giace in rozza paglia o vile,
     Per messi e trombe ha gli angeli canori;
     E mentre sfoga in pianto i suoi dolori
     Tributaria a sè trae schiera gentile.

Balsamo al suo languir salgono i fiumi,
     E la sua nudità povera e bella
     Veste di rose a mezzo verno i dumi.

O del divin consiglio opra novella,
     Che fra glorie e miserie e nebbie e lumi
     Sempre suole alla stalla unir la stella!


Pompierata infame! Ma c’è di peggio. Lo Stigliani, l’avversario del Marini, unisce alla sciocchezza dell’antitesi la sconvenienza del pensiero:

Oggi è il dì che la Vergine fu madre
     Del suo medesmo padre
     E che dal sen di lei lo stesso Dio
     A chiusa porta uscìo.
     Oh maraviglia immensa,
     Intesa (se dir lece)
     Solo da chi la fece!
     Partorisce la donna
     E non ne perde il virginal onore,
     Fa l’arbor frutto e non ne perde il fiore.


Si può dir di peggio come pensiero e come forma? Eppure il cavalier Frà Tommaso Stigliani credeva [p. 284 modifica]in buona coscienza di aver fatto un ottimo madrigale religioso e nel suo canzoniere lo si trova nel sesto libro, cioè tra i soggetti morali!

La peste dei concetti, dei giuochi di parole, delle antitesi nelle quali allora si faceva consister l’arte, fu veramente crudele. Ecco alcuni esempi, tratti sempre da poesie sopra il Natale. Bartolomeo Ferini comincia così un sonetto:

Ben fu di vera luce ornata e chiara
     La notte (se chiamar notte conviensi)
     Che nacque il sol che co’ suoi raggi accensi
     L’oscuro e freddo mondo arde e rischiara.


E il Bruni:

Ecco il fattor fattura
     Il creator creato, ecc.
     . . . Il dolce canto
     Di quegli spirti alati
     Ch’àn lo sferico ciel per corde e lira.
     Chiama al presepio santo
     I pastor fortunati.


In questa canzone stessa, il Bruni qualifica così il giglio, forse perchè bianco:

     Il giglio fortunato,
     Alba al giorno de’ fiori!


Pier Matteo Petrucci, della Congregazione dell’Oratorio di Jesi, grida nel Presepio:

Sol te, Maria, l’afflitto mondo implora:
     Sol degna tu del sommo Re sei reggia.
     Sol degna tu del sommo Sole aurora.


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Dov’è l’affetto umile e profondo del Benivieni? È possibile passare i confini del buon giudizio in modo da accostarsi a questo madrigale del Petrucci?

Qual maraviglia che sì chiara splenda
     Questa notte beata,
     Se dall’alba e dal sole è illuminata!
     Altre volte l’aurora
     Fugge quando il sol nasce e si scolora;
     Ma in questa che n’uscìo l’eterna prole,
     Tiensi in braccio l’Aurora il suo bel Sole.


No, non si può esser più ebete di così!

Il settecento, il secolo dell’Arcadia inzuccherata, ci dà il Vittorelli che canta Maria come l’Irene delle sue anacreontiche, vale a dire con un sensualismo incipriato, mezzo mondano e mezzo biblico. E queste due quartine di un sonetto a Maria, ricordano, dice il Carducci, una madonna della pittura veneziana in una chiesa del Sacro Cuore:

Io t’amo; e il giuro per que’ tuoi sì begli
     Di tortora idumea purissim’occhi,
     I quai mi stanno innanzi, o che si svegli,
     O che nell’onda esperia il sol trabocchi.

Oh, fossi un angiol tuo! fossi un di quegli
     Che coll’ondoso manto inombri e tocchi,
     O destini a velare i tuoi capegli
     Lucidi più che della lana i fiocchi!


Ma se costui mette un po’ di sensualismo gesuitico nella dolce Maria di Dante, pure in questi versi c’è [p. 286 modifica]del calore. Ma chi sa dire che cosa ci sia in questo sonetto dello Zappi?

Io veggio entro una bassa e vil capanna
     Un pargoletto che pur dianzi è nato,
     Fra i rigor d’aspro verno abbandonato,
     Su paglia, fieno e foglie d’alga e canna.

Veggio la cara madre che s’affanna
     Perchè sel vede in sì povero stato...
     Misero! Ei sta di due giumenti al fiato.
     Misero! Ah, questo è Dio, nè il cor mi inganna!

Quel Dio che regge il Ciel, regge gli orrendi
     Abissi, e fa su noi nascer l’aurora,
     E il lampo, e i tuoni, e i fulmini tremendi.

Ma un Dio se stesso in sì vil foggia onora?
     Vieni, o superbo, e l’umiltade apprendi
     Da quel maestro che non parla ancora!


Carini quei loro smascolinati sonettini, pargoletti piccinini, mollemente femminini, tutti pieni d’amorini, disse il Baretti!

Andiam che la via lunga ne sospinge; ed eccoci ai due ultimi cantori del Natale, l’Arici e il Manzoni. Si ricorda Ella come il povero Jacopone pensasse a tutto fuor che al mondo nelle sue ingenue poesie? Ecco invece che in questo secolo ci si pensa anche a proposito del Natale. Per l’Arici e pel Manzoni questa solennità è fonte di pensieri civili più che religiosi: anch’essi nella religione cercano la pace piuttosto che Dio. [p. 287 modifica]L’Arici canta:

Dall’alto de’ cieli librandosi a volo
     Sui vanni fiammanti, l’angelico stuolo
     Tre volte al Signore la gloria cantò.

Tre volte iterando beate canzoni,
     Diffuse l’annunzio, la pace de’ buoni,
     La pace che togliere il mondo non può.


Ed il Manzoni si rallegra perchè

     Dalle magioni eteree
     Sgorga una fonte e scende,
     E nel burron de’ triboli
     Vivida si distende;
     Stillano mele i tronchi,
     Dove copriano i bronchi
     Ivi germoglia il fior.


Desiderio di una palingenesi che per ora non sembra vicina.

Eccoci partiti dall’umiltà di cuore per giungere agli auguri di pace terrena; eccoci partiti dalla religione pura per giungere alla religione applicata, passando gli stadi mezzani del petrarchismo, del seicentismo e dell’Arcadia. Pure dai vagiti della poesia italica del frate da Todi, fino al canto del cigno della poesia cattolica sciolto dal Manzoni, il Natale, come fatto, come mito, come credenza, è sempre rimasto quello. Ma ogni secolo lo vide a suo modo e gli diede [p. 288 modifica]quella forma d’arte che gli parve migliore. Eccole dunque l’evoluzione e la conferma dell’aurea sentenza inscritta sui boccali di Montelupo che Le dissi da principio.

E buone feste.