Biografia di Frà Paolo Sarpi/Vol. II/Capo XXV

Capo XXV.

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CAPO VIGESIMOQUINTO.


(1618). Accadde in quest’anno un avvenimento il quale benchè non abbia che una esigua relazione colla vita dei Sarpi, pure per essere stato narrato variamente dagli storici merita che io ne faccia menzione, rimandando il lettore desideroso di prove e documenti alla dissertazione istorica di Leopoldo Ranke che ha notabilmente illustrato questo fatto finora misterioso e pieno di congetture.

Dei due rami della casa austriaca, uniti per parentele, per alleanze e per medesimità d’interessi, l’uno regnava negli Stati ereditari di Germania, l’altro nella Spagna, India, Fiandra, Napoli, Sicilia e Milano: così che ambo insieme circuivano il dominio veneto, quello dalla Croazia, Carinzia, Friuli tedesco e Tirolo; questo da Milano per terra e dalla Puglia sul mare. Alla Repubblica, benchè molesti ambidue, non dava tanto sospetto il ramo germanico per non possiedere Stati in Italia, e per essere in sè diviso e tribolato a ora a ora dai Turchi, dalle inquietudini dell’Ungheria, da discordie religiose e dallo spirito tumultuante de’ sudditi. Ma diversi erano i casi di Spagna. Regnava Filippo III principe molle e stupido, e maneggiava la somma degli affari il conte di Lerma, uomo appena mediocre, che temendo la competenza di emuli ambiziosi, gli allontanava al governo delle provincie oltremare. I quali [p. 229 modifica]conoscendo la dappocaggine del re e la gelosa debolezza del favorito usavano a modo loro con potere dispotico, opprimendo i sudditi con guerre e rapine, e molestando i vicini principi di ogni prepotenza, non disdegnando per giungere ai loro fini le fraudi e il tradimento, artifizi legittimati dalla depravata morale di quei tempi. Ond’era nato in Italia un odio grandissimo contro quella nazione, e un proverbio popolare maledetta la Spagna, che dura ancora, ricorda tuttavia ai posteri la tirannia di quei governanti. Deboli e divisi, i principi italiani mordevano il freno, pure ubbidivano. Ma Venezia già da più anni aveva posta la principale sua politica ad attraversare i disegni de’ Spagnuoli; e convinta che la mala amministrazione della monarchia non le avrebbe mai permessa una grossa guerra, e che il Lerma per ozio, per nissuna pratica d’armi e per invidia a’ capitani e tema di diventare disutile, era sommamente affezionato a misure di pace, la Repubblica sovveniva ora di denari ora di soldati i principi italiani che dai pascià spagnuoli fossero aggrediti, nè mancava nelle corti forestiere di suscitar sospetti e traversie contro le mire ambiziose di quella di Madrid.

Da ciò nacque negli Spagnuoli un odio smisurato contro di lei, e tale desiderio di nuocerle che la Repubblica in piena paca viveva con loro come se fosse in guerra, sospettosa e guardinga. Era allora governatore di Milano don Pietro di Toledo, e vicerè di Napoli il famoso duca di Ossuna, e ambasciatore di Venezia il marchese di Bedmar, tutti tre infensissimi a San Marco. Toledo, poco abile capitano [p. 230 modifica]e inetto a raggiri diplomatici, si aiutava colle macchinazioni e insidiava per cospirazione le città confinanti della Repubblica; Ossuna, audace e violento, pirateggiava i convogli de’ Veneziani e ne turbava i commerci; Bedmar, astutissimo e brigatore, esplorava nella capitale gli ordini misteriosi del governo, le sue forze, i suoi mezzi, e gli umori de’ nobili, de’ cittadini e del popolo, e cercava di mettere discordia fra gli uni e gli altri.

Pochi anni addietro Venezia, in guerra coll’Austria per cagione degli Uscocchi e per Gradisca, colla Spagna per la difesa del duca di Mantova perchè voleva spogliarlo del Monferrato, ed essendole impedito di scriver soldati in Italia, fece una lega di reciproci soccorsi e mutua difesa colla repubblica di Olanda, della quale i primi semi vedemmo gettati più anni innanzi dal nostro Consultore; e n’ebbe pel suo bisogno un valoroso ma poco disciplinato esercito, che per la pace seguita nel 1617 giaceva ozioso e scontento, aspettando il fine delle capitolazioni. Mancando le paghe e minacciando di ammutinarsi, il governo fu obbligato di chiuderne parte nel lazzaretto, e parte mandarla qua e là dispersa in guarnigione.

Le passate guerre civili di Francia avevano prodotta una generazione bellicosa, inquieta, audacissima, della quale alcuni per essere calvinisti erano nemicissimi al nome di Spagna, e correvano ovunque trovassero di farle guerra; ed altri essendo avventurieri e facinorosi, avidi di sacco e di rapina, pigliavano soldo dove meglio tornava il conto: e di questi e di quelli Venezia ne aveva stipendiato buon numero. [p. 231 modifica]

Fra quelli della seconda specie era un Giacomo Pierre di Normandia, corsaro di fama, assai pratico delle cose di mare, d’ingegno volubile, di mente fervida, e progettista fecondissimo. Aveva guerreggiato da pirata i Turchi; era stato ai soldi dell’Ossuna, poi del duca di Firenze, e dell’Ossuna ancora con cui si disgustò; era a parte di molte fantastiche cospirazioni e disegni bizzarri in danno della Porta Ottomana, o della Spagna, o di Austria, o di Venezia orditi specialmente dal famoso Padre Giuseppe, francese, di nascita nobile, cappuccino, soldato, diplomatico, imbroglione, e negli anni seguenti il confidente ed amico di Richelieu, che vuol dire un gran politico e un gran birbante. Giacomo cercò poi di passare al servizio di Venezia, ma relazioni sfavorevoli indussero da prima il governo a rifiutarlo; poi parendogli di essere meglio certificato, lo ammise ad un impiego subalterno della marina, i soli che si concedessero a’ forastieri, con provisione di 40 ducati al mese. Poco dopo, o per avidità di premio o per cattivarsi meglio la confidenza, rivelò al Consiglio dei Dieci di alcune cospirazioni dell’Ossuna per prendere Venezia a tradimento; ma in appresso, seguendo la naturale sua instabilità, cominciò a macchinare quello stesso che rivelato aveva. Menava per compagno e segretario un Langraud, altro francese, col quale osservò l’indole pacifica de’ Veneziani, il governo sostenuto dalla sola opinione, il carattere timido del popolo, le armi in mano a’ mercenari, la facilità di una sorpresa, e l’immenso bottino che avrebbono fatto col sacco e l’incendio della città. Venuti in opinione di impadronirsi di Venezia, [p. 232 modifica]aprirono il loro disegno con altri mercenari; e trovatili conformi, si voltarono all’Ossuna promettendogli Venezia semprechè gli sovvenisse di navilio, uomini e danari. Il vicerè accettò il progetto, diede danari per sedurre gli Olandesi nel lazzaretto, promise il navillo e i soldati; gli incoraggì a continuare l’impresa, e che lo avvisassero quando fosse bene apparecchiata. Il Bedmar anch’egli vi si prestava e si tenevano spessi convegni in sua casa, pel mezzo di un Bruillard suo confidente; ma egli si conduceva con tanta destrezza e artifizio che ove la congiura svanisse o fosse scoperta, non potesse esserne a patto niuno sospettato. Si hanno anco indizi che Leone Brulart, quel divoto che trattava Frà Paolo da ipocrita, ne fosse consapevole.

Intanto Giacomo Pierre esaminava le lagune, ne misurava i fondi, vedeva i luoghi dove potesse approdare e la qualità de’ navili che sarebbe abbisognato per ciò. Poi scorreva inosservatamente, e a modo di passeggiata oziosa, la città notando i posti che conveniva prendere e dove fortificarsi: l’arsenale, la zecca, la piazza di San Marco, il Palazzo, le Procuratie erano i primi. Saliva sul campanile di San Marco per osservare meglio il teatro de’ suoi disegni, e di là girava l’occhio su tutta la sottostante città, sulle lagune, i castelli ed i porti; ma vario ed indeciso mutava ad ogni momento progetti, e pur non pertanto seguitava a scriver lettere e a spedir messi al duca di Ossuna per eccitarlo alla spedizione delle navi e degli uomini bisognevoli. Sbarcare all’improvviso, far saltare in aria l’arsenale, incendiare con fuochi artificiali l’armata, [p. 233 modifica]assalire il Gran Consiglio intanto che fosse adunato, massacrare i patrizi, occupare le sboccature che menano alla piazza San Marco, gridar Spagna, minacciare ai cittadini l’ultimo eccidio, erano i disegni e le cure, quando fosse per giungere il navilio dell’Ossuna, che si distribuivano i congiurati. Ma o che l’Ossuna volesse conoscere meglio gli ordini e i mezzi o che travedesse esagerazione nei riporti, o che non si trovasse ancora munito, fatto è che andava tirando le cose al lungo.

Intanto Giacomo e Langraud ebbero mandato di partire pel loro servizio sull’armata. Nel medesimo tempo due de’ congiurati, Juven e Montcassin, capitani agli stipendi della Repubblica, rivelarono la congiura al doge. Il primo poco sapeva perchè appena vi era stato ammesso, ma avendone orrore, pensò di scoprirla. Al quale uopo traendo seco il compagno finse andare al Palazzo per oggetto militare; ma poichè Moncassino vide che moveva i passi verso le stanze ducali, gli chiese che volesse dal doge: Domandargli rispose Juven, la licenza di ardere Venezia. Sbigottito Moncassino, voleva sottrarsi; ma confortato dal compagno che dovere ed onore richiedevano si manifestasse la congiura, si arrese: Nella quale essendo iniziato molto adentro, scoprì tutto ciò che sapeva; ed ebbe anco agio a nascondere un patrizio nella casa dove si tenevano i convegni, e fargli udire le parole e i nuovi progetti dei cospiratori prima della loro separazione. Questa scoperta mise lo spavento nel governo. Già da gran tempo conosceva l’animosità dell’Ossuna, invigilava attentamente i passi ostili del Bedmar, dubitava di [p. 234 modifica]Leone Bruslart, e sospettava anco di Giacomo Pierre, sopra il quale erano pervenuti al Senato anonimi avvisi che era emissario del vicerè. Ora spalancandosi innanzi il pericolo di quella congiura, scopo di cui era niente meno che lo sterminio della Repubblica, gli spiriti occupati dal terrore non diedero più luogo alla prudenza. Non pensavano che i concerti erano ancora in aria che nulla era determinato, che Giacomo e Langraud erano già partiti da alcuni giorni sull’armata, nè potevano senza diserzione e senza essere scorti tornare a Venezia; che altri de’ congiurati partivano a nuovi concerti per Napoli; ed altri si disperdevano qua e là; ma solo si affissarono all’idea dell’associazione di tanti venturieri spalleggiati da persone così potenti, e parve che fossero imminenti i precipizi. Accresceva la iattura d’animo l’ingegno sedizioso de’ soldati olandesi, i quali per dividere, il Senato ne aveva mandate pochi giorni innanzi tre compagnie a Verona; e la scoperta di un tentativo del presidio di Murano per dare quella fortezza agli Spagnuoli, e gli avvisi ricevuti di alcuni assalti da Napoli sulle coste dell’Istria, e di vascelli e soldati dell’Ossuna che dovevano sbarcare a Trieste. Messe insieme tutte queste cose, avvisarono che la congiura fosse al suo compimento, che avesse fili estesi ed appoggi formidabili, e che non essendovi un minuto da perdere, le deliberazioni più precipitose sarebbero state appena sufficienti a salvare lo Stato.

Il Consiglio dei Dieci si adunò frettolosamente a’ 12 di marzo del 1618, e dopo lette le denuncie, le informazioni, e le cose udite dall’esploratore, [p. 235 modifica]considerò che bene giovava di conoscere i particolari della postura; ma che pressando il tempo era meglio spicciarsi dei capi in quel modo si sarebbe potuto, essendo regola di giustizia la necessità di Stato. Per ordine suo Giacomo Pierre e il suo compagno Langraud furono fatti ammazzare dal provveditore Barbarigo; e tre altri arrestati intanto che fuggivano, furono imprigionati, processati e poi mandati alle forche. Alcuni giorni dopo un Berard convinto d’intelligenza per dar Crema al governatore di Milano, fu pure condotto a Venezia, e il boia mise fine alla sua vita. Questi supplizi così pronti e repentini incussero il terrore in tutti i venturieri, a cui parendo ad ogni punto d’avere il carnefice alle spalle, fuggirono il più presto che poterono, quali in Napoli, quali a Milano riparando.

Divulgata la cosa, e che gli Spagnuoli vi avevano avuto mano, il popolo si sollevò, e per poco stette che non ammazzasse il Bedmar; il quale fuggendo Venezia dove più non era sicuro, e riparatosi in Milano, fu in breve rimosso da quella legazione e dal re Filippo mandato in Fiandra.

Questa è la famosa congiura di cui l’abate di San Reale e recentemente Carlo Botta hanno fatto un romanzo, narrando l’orribile carnificina di cinque a seicento vittime, con tante circostanze favolose che a’ dì nostri non era poi difficile a verificare, almeno in parte. Peggio fece Pietro Daru, il quale, invertendo l’ordine cronologico dei fatti, ha voluto supporre quella pretesa macelleria un ritrovato machiavellico dei Veneziani per occultare la loro intelligenza col duca di Ossuna quando congiurò di [p. 236 modifica]farsi re di Napoli. La cospirazione de’ mercenari accadde nel 1618, e all’Ossuna non venne in pensiero di ribellarsi al re di Spagna se non nel 1619; e Venezia, anzi che vi avesse parte, alle prime aperture che le furono fatte mandò ordine al suo residente di Napoli che non se ne impicciasse.

La precipitazione con cui adoperò il governo veneto non gli permise di venire in chiaro che cosa fosse precisamente quella congiura, e benchè convinto in sè stesso che Ossuna, Bedmar e Bruslard vi avevano più o meno parte, gli mancavano i documenti per poterlo provare al mondo. Intanto il supplizio notturno di cinque o sei miserabili, i loro cardaveri appesi per un piede al patibolo e col volto coperto di drappo nero, indizi a’ spettatori ch’erano rei di alto tradimento, il supplizio irregolare di due altri, la morte insomma di sette od otto persone al più, fu dalla fama e dallo spavento, accresciuti dal misterioso silenzio del governo, convertita in più centinaia di strozzati nelle carceri, affogati nei canali, o periti per mano sicaria, e ciascuno interpretò quell’occulto avvenimento a norma delle sue inclinazioni. Una congiura più audace che probabile, di pochi venturieri, fu trasformata in una macchinazione estesa, dove la parte principale l’avevano personaggi grandi. Chi vi credeva e chi non vi credeva; chi incolpava la Spagna d’ambizione sfrenata e crudele, e chi Venezia di artifizio atroce per far odiosa la Spagna.

A mettere in piena luce il vero, il Collegio, nel mese di novembre, chiamati i due consultori di Stato Frà Paolo Sarpi e cavaliere Servilio Treo, mostrò [p. 237 modifica]loro le carte comunicategli dal Consiglio dei Dieci e la minuta di una narrazione ufficiale da commettersi al pubblico, chiedendone a loro il parere. Ed essi dopo maturo esame, considerando che la taccia data volgarmente al Bedmar ed all’Ossuna era immensa, che le prove erano poche e soggette a molte obbiezioni, e che sarebbe convenuto al governo di ritrattarsi di quello che senza sua colpa si era sparso fra il pubblico, e che d’altronde la congiura stessa al modo che veniva esposta offriva molte difficoltà e non appariva nè minacciosa nè forte, consigliarono che per allora il silenzio portava meno difficoltà che il parlare: ultimo partito a cui si attenne il governo.

Questa è tutta la parte che in tale negozio ebbe il Sarpi, ed è favola ciò che fu scritto da Gregorio Leti, che assistesse i condannati condotti al patibolo. Anco il Grisellini si è ingannato parlando di un’istoria di quella congiura scritta dal Sarpi e da lui presentata al Collegio, dal quale richiesto del suo parere se conveniva pubblicarla, egli opinasse pel no. Frà Paolo non era uomo da scrivere cose inutili.