Biografia di Frà Paolo Sarpi/Vol. II/Capo XXIV
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CAPO VIGESIMOQUARTO.
(1609-17). Dalle cose fin qui discorse chiaro apparisce quanto nel periodo tra il 1608 e 1617 dovesse essere il Consultore occupatissimo nelle faccende di pubblica amministrazione, oltre al tempo che gli toglievano i doveri del suo Stato e i disturbi che gli apportavano i privati che a lui per consiglio ricorrevano: deve perciò fare maraviglia che tanto gliene sopravanzasse ancora per dedicarsi alle scienze. Nelle lettere al suo amico Leschassier havvene una del 3 febbraio 1610 in cui gli dà conto di alcune nuove osservazioni sulla declinazione dell’ago calamitato fatte in Aleppo dal suo amico il patrizio Francesco Sagredo; in altra del 16 marzo gli descrive il telescopio seguendo la costruzione del Galileo, e gli accenna le scoperte di questo fatte nella stella di Giove e in altre costellazioni fisse; e in una terza del 27 aprile gli ragiona a lungo delle osservazioni proprie fatte con esso telescopio intorno le fasi che reciprocamente si presentano la terra e la luna, e del modo con cui ricevono o si tramandano a vicenda la luce; indi delle macchie lunari, cui egli, prevenendo le posteriori scoperte, suppone cavità ed eminenze; e finisce pronosticando che l’invenzione del telescopio avrebbe mutato faccia alle scienze astronomiche, facendole progredire immensamente. Fu forse in questa occasione che mandò al Leschassier un saggio di selenografia, o carta lunare, di cui fu trovata copia fra le sue schede colla data del 1610: «Dove, dice il Grisellini, miravansi locate nei propri siti, con plausibile proporzione, moltissime delle piccole oltre delle grandi macchie, le quali poi dall’Evelio e dal Riccioli furono per analogia appellate Pontus Euxinus, Mare Mediterraneum, Cholchis ecc.». Dal che risulta il Sarpi essere stato il primo a immaginare le tavole selenografiche. Certo è che delle scienze astronomiche e dei nuovi fenomeni che presentava l’invenzione del telescopio il Consultore si dilettava moltissimo ed egli stesso ci fa sapere che andava spesse volte a Padova a far visita al Galileo e trattenersi con lui di dotte cose.
Fu due anni innanzi che il caso aveva fatto trovare ad un Olandese il canocchiale, e che la scoperta di questo istromento divulgatasi per l’Europa suggerì al Galileo l’invenzione del telescopio. «Quando io era giovane, scrive Frà Paolo parlando del canocchiale, pensai ad una tal cosa e mi passò per mente che un occhial fatto di figura di parabola potesse far tal effetto. Avevo ragioni e dimostrazione, ma perchè queste sono astratte e non mettono in conto la repugnanza della materia, sentivo qualche opposizione. Per questo non mi son molto inclinato all’opera, e questa sarebbe stata faticosa, onde nè confirmai, nè reprobai il pensier mio con l’esperienza. Non so se forse quell’artefice (intende l’Olandese) abbia riscontrato col mio pensiero». Queste poche parole sfuggito ad uomo tanto modesto e così avaro di render vanto a sè stesso danno credito a ciò che narra Frà Fulgenzio, che essendo stato portato un canocchiale a Venezia chiuso dal geloso venditore in una cassetta, e pel quale domandava mille zecchini, la Signoria chiese il Sarpi del suo giudizio sull’uso che poteva farsene ma egli senza veder l’istrumento e solo udendo narrarne gli effetti, ne immaginò l’artifizio; indi conferitone col Galileo, questi gli dichiarò che aveva colto nel segno. Dal che apparirebbe che la costruzione del primo telescopio fu ideata dal Sarpi, e presa e condotta a fine da ambidue insieme; e che i consigli del frate veneziano abbiano giovato al Fiorentino per indi perfezionarla. Amico intrinseco del grande astronomo, dal quale era onorato e chiamato maestro suo, parteggiò con lui subito che mise in voga e cominciò ad insegnare nella università di Padova il sistema di Capernico.
Grisellini riferisce un frammento ch’e’ dice cavato dalle schede di Frà Paolo e che allude alla gita del Galileo a Roma, quando nel 1611 fu invitato da quella Corte a portarsi colà e mostrare co’ suoi telescopi le nuove maraviglie da lui scoperte nel cielo; ed è il seguente: «Ora che per avviso dell’illustris. e chiaris. senatore misser Domenico Molino intendo che mister Galileo Galilei è per trasferirsi a Roma, là invitato da varii cardinali a fare mostra di suoi inventi nel cielo, io temo che se in tale circostanza egli metta in vista le dotte ragioni che lo portano ad anteporre circa il nostro sistema solare la teoria de canonico Copernico, non incontrerà nel genio dei gesuiti e degli altri frati. Cambiata da costoro la questione fisica et astronomica in teologica, prevedo con mio massimo dispiacere che per vivere in pace e senza la nota di eretico e di scomunicato dovrà ritrattare i suoi sentimenti in tal proposito. Verrà però il giorno, e ne sono quasi certo, che gli uomini da studi migliori rischiarati deploreranno la disgrazia del Galileo e l’ingiustizia usata a sì grand’uomo; ma intanto egli dovrà soffrirla, e non lagnarsene che in secreto». Questo pezzo ritrae molto delle maniere di Frà Paolo e non ho dubbio che non sia suo, ma il Grisellini deve avervi fatte alcune manipolazioni, massime nei due ultimi periodetti, per dargli un tuono più enfatico, tuono che non mai si trova negli scritti del Consultore. Ritenendo nondimeno che la sustanza sia di Frà Paolo, si vede con quanta acutezza abbia egli prevedute le disgrazie che più anni dopo sopravennero al suo amico, e che gli fece increscere di avere abbandonata l’università di Padova, dove l’Inquisizione non avrebbe potuto allungare le infernali sue unghie sopra di lui, per siedere in quella di Pisa dove i gran-duchi di Toscana troppo debolmente lo protessero.
Come ho detto, essendosi perduto il carteggio di questi due grandi uomini non possiamo dire fino a qual punto Frà Paolo abbia contribuito ai progressi dell’astronomia. Quanto alle matematiche pure, egli stesso ci dice che la moltiplicità delle faccende, e più ancora la morte di Marino Ghetaldi che lo stimolava, avevano alquanto rallentato del suo ardore; non perciò passò mai tempo in cui le avesse al tutto intermesse. Anzi le riprese da poi, e sempre più meditando sulla nuova via spaziata dal Viète, aveva scritto, e sembra che fosse omai alla sua perfezione nel 1615, un trattato della Ricognizione delle Equazioni che per testimonianza di Alessandro Anderson era avidamente atteso dal pubblico. E qui giovi dire che lo stesso Anderson e Giacomo Aleaume, matematici insigni di quel tempo, mandavano prima di darle a luce, le loro opere al Consultore per udirne il giudizio.
Nel 1617 si era occupato di osservazioni intorno al barometro e sopra il calcolo del moto che fa una palla cacciata dal cannone. Scrisse ancora, non sappiamo in qual tempo, un trattato sul Moto delle acque dove aveva preso a spiegare il fenomeno del flusso e riflusso del mare. Le aride notizie che abbiamo su questi oggetti non ci permettono d’indagare quali fossero le sue opinioni e fino a qual segno arrivasse colle scoperte. Da Frà Fulgenzio sappiamo solamente in confuso che Frà Paolo fu autore di una ipotesi che spiegava per un moto unico il sistema dell’universo, il che verrebbe a coincidere colla ipotesi copernicana; che fu autore di macchine ingegnosissime, eziandio militari, e di strumenti; che i più riputati meccanici non isdegnavano di consultarlo sui loro lavori; che l’invenzione del pulsiligio, o istrumento da misurare le battute dei polsi; attribuita al Sartorio sia invece del Sarpi; e che ai lumi e consigli di lui fosse lo stesso Sartorio debitore d’avere ritrovato le leggi della sua statica. Narra eziandio che il cavaliere Alfonso Antognini capitano di molta riputazione, e dotto assai nella strategia, avendo scritto un libro dell’arte militare, andò appositamente a Venezia per conferire col Sarpi intorno alla costruzione e l’uso delle macchine degli antichi, e in particolare intorno agli specchi ustori ond’è fama che Archimede si servisse ad incendiare le navi dei Romani che assediavano Siracusa; e che Frà Paolo non pure lo fornì di notizie, ma gli corresse eziandio le descrizioni e i disegni; e degli specchi parlando, benchè omai da 40 anni non si occupasse più di quegli esperimenti, gli addusse la probabilità del fatto cavandola da dimostrazioni fisiche e matematiche, e gli disegnò altresì le figure.
Fra le schede sarpiane nota il Grisellini di avere veduto un comento sopra il celebre passo di Cicerone: «È mirabile una certa continuazione e serie delle cose, talchè concatenandosi l’una coll’altra si vedono fra loro sussidiate e collegate a vicenda»: sul quale Frà Paolo dissertando ragiona della scala degli esseri, e come per varie digradazioni i corpi inorganici vadano a congiungersi ai corpi organizzati non animati, e questi poi agli animati, sempre progredendo per nessi diversi; ma l’analisi che ne dà sembra esagerata e che senta di soverchio le dottrine moderne e particolarmente di Bonnet. Sicuramente il pensiero di Frà Paolo era meno sistematico, e non meno ingegnoso e profondo; e avrei preferito che il Grisellini ce lo avesse conservato nel sobrio ed originale suo stile piuttosto che esporcelo in un modo in cui la infedeltà è troppo visibile.
Infine se è vera la fama conservata da una lunga tradizione sarebbono testimoni dell’ingegno architettonico il Frà Paolo e il palazzo Donati alle Fondamenta Nuove, e il teatro anatomico di Padova, attribuiti a suo disegno.
Comunque sia egli è pur fuori di dubbio che Frà Paolo sorpassò in sapere ed ingegno ogni altro grand’uomo del suo secolo, e sparse una immensa luce anco sulle età future. Imperocchè quantunque nulla o pressochè tanto ci sia rimasto di quanto fece per le scienze, i suoi tentativi, i suoi lumi, le sue scoperte comunicate ad altri, servirono di possente impulso, e giovarono come insegnamenti. Sarebbe un pirronismo affatto irragionevole il negare che il Sartorio l’Acquapendente e forse più di tutti il Galileo non ne abbiano approfittato, e che molte delle loro scoperte non siano state incoraggiate o suggerite dal Consultore. Quantunque altri lo abbia preceduto in qualche tentativi, si può dire esser egli stato il primo ad applicare l’esperienza e l’analisi all’esame dei misteri della natura. E questa scoperta vale essa per mille, e forse il gran Bacone di Verulamio dovette al carteggio che ebbe con Frà Paolo molte di quelle sublimi sue idee, l’applicazione delle quali diede una spinta così poderosa al pregresso delle scienze.
Pari alla dottrina furono gli encomi dati a così grand’uomo; abbiamo già vedute che opinione ne avessero, come scienziato, Della Porta, Acquapendente, Galileo; come teologo la stima in cui fu tenuto lungamente a Roma ne è una non dubbia prova; come giureconsulto e uomo di Stato, il credito di cui godette nella sua patria e fra gli estranei. Il celebre napolitano Francesco Conforti scriveva di lui queste poche ma significantissime parole: «Fra tutti coloro che scrissero in diritto pubblico-ecclesiastico, niuno è che superi il Sarpi». Lungo sarebbe riferire gli encomi di che l’onorarono gli Oltramontani; un solo basterà per tutti e sia quello del suo amico Claudio Salmasio: «Il Sarpi, egli scriveva, vindice acerrimo, finchè visse, della patria libertà, del quale un più felice ingegno, dopo il rinascimento delle lettere, non nacque mai; e neppure per molti secoli innanzi; e pare che la natura spendesse tutti i suoi sforzi per formarlo, e tosto ne rompesse il conio acciocchè niun altro potesse esistere o pari o simile». Nè tante lodi furono l’effetto di adulazione o di fanatismo finchè e’ visse, che anco dopo la sua morte una medaglia coniata in suo onore lo intitola Doctor gentium, a piè del ritratto di lui, che credesi opera di Leandro da Ponte e che tuttora esiste nella biblioteca di San Marco a Venezia, si leggono aggiunte al suo nome i qualificativi di vir ad miraculum doctus, integer, justus; le lusinghiere epigrafi scritte sul suo sepolcro, massime quella di Giovanni Antonio Veniero che per decreto pubblico doveva essere esposta sul suo monumento, e l’avidità con cui furono ricercati, stampati, letti, tradotti i suoi scritti, e la sempre crescente sua fama malgrado le calunnie e le diffamazioni del partito curiale, e le forzate confessioni degli stessi suoi nemici, sono testimoni che il suo merito fu eminente e che l’ammirazione de’ passati non era meno giusto del rispetto che gli hanno portato i posteri. A San Vito nel Friuli, per religione alla memoria del figlio si conserva tuttora e mostralasi al forestiero l’umile casetta ove nacque il padre di Frà Paolo: tenero e generoso orgoglio di un popolo, pari a quello dei Mantovani che fino al secolo XIII venerarono l’albero a piè del quale’ credevano essere nato Virgilio.
I colpi terribili e funesti da lui vibrati alla Curia romana e gli effetti progressivi delle sue dottrine lo hanno devoto all’odio di una fazione numerosa ed attiva e che per molti palesi ed arcani mezzi esercitava e tuttora esercita una grande influenza sopra le opinioni della società. Ma cotesti che pur riuscirono a rendere odiosi a’ cattolici i nomi di Lutero, di Calvino e di altri nemici della monarchia papale, quantunque abbiano accumulato sulla memoria del Sarpi un abborrimento ancora maggiore, la riputazione di lui si è non pure conservata, ma sempre accresciuta; il che deve ascriversi in parte alla costanza del governo veneto che fino alla sua caduta sempre difese arditamente la gloria del suo Consultore, ma più di tutto alla posizione felice che Frà Paolo seppe scegliere nel fare la sua opposizione. Rispettando le credenze ricevute, assalì gli abusi evidenti e sentiti e che più d’accosto interessavano il mondo. Quindi le sue verità rimasero, e il tempo che riforma tante opinioni o ne cancella i prestigi ha confermate, dopo tre secoli di avvicendamento e di progressi sociali, tutte quelle del Consultore.
Fra tanti onori, con tanta fama, soggetto di ammirazione all’Europa e di odio immenso a Roma, pegno carissimo a’ suoi nazionali, curiosità de’ più illustri viaggiatori, ambizione dei principi che lo invitavano alla sua corte, e più grande di loro. Frà Paolo conservò sempre lo stesso genere di vita, modesta e povera. La sua virtù superando la viltà dei suoi nemici, ne spregiava le ingiurie o le compativa, e quando gli veniva parlato di taluno che si prendeva il rio gusto d’oltraggiarlo, era solito rispondere: «Che volete? gli è toccato un cervello e una condizione tale d’interessi che non può far altro». Udendo che monsignor Zacchia nuncio apostolico a Venezia ed altri Romanisti non mai dicevano il suo nome senza accompagnarlo di villani epiteti, quasi egli si fosse il più tristo uomo del mondo: «Hanno ben ragione, rispose; non c’è paragone tra me e loro. Egli vogliono essere perfettissimi e santissimi, ed io non pretendo a tanto». Sprezzatore della fortuna e de’ suoi prestigi, aveva spesso in bocca il proverbio: Si spiritus dominantis super te ascenderit, locum tuum ne deseras: «Se ti assale lo spirito di predominio, non abbandonare il tuo posto». E ancora «chi cammina in su le zanche e siede in alto, non diminuisce fatica, ma sta più in pericolo». La sua vita era così innocente che il signor di Villiers ambasciatore di Francia a Venezia udendo il nominato nunzio che lo chiamava ipocrita, non potè ristarsi dal dirgli: «Monsignore, voi lo chiamate ipocrita, eppure non l’ho mai veduto far alcuna delle azioni solite agli ipocriti: non mai andar per strada col rosario in mano, non a baciar medaglie, non a fare il santoccio per le chiese, non a parlare con affettata spiritualità. Gl’ipocriti cercano bene di mascherarsi di pietà, ma accade pure che si scoprano i fini loro, perchè la pelle dell’agnello non basta a coprire il lupo. L’avarizia, l’ambizione, i piaceri sono ordinariamente lo scopo di costoro; ma se la virtù di Frà Paolo merita nome d’ipocrisia, confesso che non ci vedo nè oggetto nè fine».