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210 capo xxiii.

cio librario era un ramo lucrativo d’industria e che non pure al lustro della Repubblica, ma, quello che più importa, sopperiva ancora alle agiatezze di assai privati; e poichè gli ecclesiastici non misurano le cose se non dal lato dell’interesse che vi hanno, ove il governo avesse a loro affidato la censura e accettato l’Indice, la rovina de’ librai era infallibile. Malgrado i rifiuti, Clemente VIII avendo nel 1595 rifatto l’Indice con nuove addizioni, e pressando la Repubblica perchè lo accettasse, si stipulò un concordato speciale per cui le regole furono ristrette, la revisione fu mandata ai cherici per le cose puramente dogmatiche, ma l’approvazione o reiezione riservata al solo maestrato secolare.

Con tutto ciò i ministri romani, sempre accorti a beneficiarsi del tempo, vollero che del concordato non si stampassero più che 60 copie: bene apponendosi che in breve si sarebbono o dissipate o smarrite, da’ librai dimenticate le clausole, dimenticate da’ magistrati, e cogli anni dal Senato, talchè avrebbe potuta l’Inquisizione insurgere, e la Curia rinovare le sue pretese.

Nè questa se ne stette lungo tempo a bada. Abbiamo vedute le insidie mosse nel 1608 per la proibizione de’ libri contro l’interdetto; non riuscita, diede tocchi di tempo in tempo. Nel 1609 la Curia ne prese occasione dal libro del re d’Inghilterra; la Repubblica proibì la vendita di quel libro, ma continuò a permettere la vendita degli altri che il papa voleva proscritti. Nel 1610 furono ripetute le querele per la stampa di alcuni altri libri ingrati