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capo xxiii. 213

incantamenti, in cui i giureconsulti scrivevano grossi libri sulla stregoneria e raccontavano colla maggiore serietà le cose più incredibili; in cui i teologi scrivevano trattati sull’arte degli esorcismi; in cui non vi era paese dove tra, le fiamme non crepitasse qualche infelice accusato e convinto di avere conversato col demonio, di essere volato per aria, di essersi trasformato o in lupo o in gatto o in can nero, di avere ucciso alcuno o coll’alito o col guardo, o di avere eccitata la gragnuola o il fulmine: è mirabile, dico, che codesto frate avesse il coraggio di chiamare la stregoneria una leggerezza di opinione, una semplicità di donnicciuole che merita più l’instruzione del catechista che la severità dei giudici. Un giureconsulto francese, Enrico Boguet, che pubblicò nel 1608 un lungo Discorso degli Stregoni con istruzioni opportune pei giudici che devono processarli, fu tanto scandalizzato della repubblica veneta che si faceva scrupolo di condannare a morte uno di quelli se la sua stregoneria non era provata all’evidenza, che la stimò neppur degna di essere nominata. Se avesse poi sentito Frà Paolo a trattare la fattucchieria di puerile superstizione, non so fino a qual punto sarebbe asceso il suo sdegno.

(1615-18). La guerra in cui si era impegnata la Repubblica coll’Austria a cagione degli Uscocchi, il bisogno di tenersi armata per guardarsi dalle insidie della Spagna, e le spese necessarie al mantenimento delle truppe, l’obbligarono ad accrescere le pubbliche gravezze; ma volendo che cia-