Biografia di Frà Paolo Sarpi/Vol. I/Capo VIII

Capo VIII.

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CAPO OTTAVO.


(1600). La condizione claustrale somministrava a Frà Paolo troppo scarsi mezzi per coltivare le scienze, e gli erano inciampo i pregiudizi monastici, la vita del chiostro regolata ad ore prefisse, e un tempo prezioso che gli rubavano gli esercizi frateschi, tempo che avrebbe potuto occupare più utilmente che non a cantar latino in coro. Inoltre essendo egli spesso consultato in faccende pubbliche che toccavano ad interessi della corte di Roma, la sua condizione di semplice frate non era senza pericoli; e dovendo usare molti riguardi, non poteva prestare quei liberi servizi quali il suo animo repubblicano avrebbe voluto: inconveniente sentito anco da coloro che già vedevano in lui un egregio difensore della Repubblica nelle frequenti sue controversie colla curia; per i quali motivi lo persuadevano a distrigarsi da quella dipendenza, facendogli sperare il loro appoggio nel conseguimento di una cattedra episcopale. Nè egli, per quanto fosse modesto, doveva stimarsene indegno, o credere d’innalzar troppo i pensieri, dopochè con tanta riputazione aveva coperte le prime cariche dell’Ordine, ed era stato già una volta proposto a vescovo dal cardinal protettore, e onorato da personaggi grandi e prelati cospicui, e ancora dallo stesso pontefice che agli ambasciatori veneti parlava di lui con lode. [p. 128 modifica]

Per la morte di Angelo Caffarino, de’ domenicani, vacava allora la sede vescovile di Caorle, di cui la nomina apparteneva al Senato, la instituzione al pontefice. È Caorle un’isola delle lagune, verso il Friuli, di circa 6000 abitanti, sparsi in dieci villaggi. Ma un vescovo, per dignità il primo della Venezia marittima e per ristrettezza di confine e parcità di rendite il più miserabile di quanti ne aveva la Repubblica, e però conferito solitamente a’ frati. Eccitato il Sarpi ad aspirarvi, ne supplicò il Collegio, o vogliam dire consiglio di Stato, il quale non mancò di raccomandarlo a Roma nella qualità di candidato. Ma Offredo Offredi nunzio apostolico a Venezia, volendo invece portare il suo confessore Frà Lodovico de Grigis francescano, scrisse al pontefice, non accettasse Frà Paolo già autore di tanti consigli e scritture al Senato in pregiudizio degli interessi della Santa Sede; che non credeva nella filosofia di Aristotele e consigliava che per decreto pubblico non fosse insegnata nella università di Padova se non con certe restrizioni; e che nell’accademia del Morosini negava l’immortalità dell’anima: e intanto gli raccomandava il De Grigis, che si ebbe il vescovato. Benchè al Senato spiacesse l’affronto, desideroso di evitare contrasti per causa privata e di poco momento, si tacque.

Quell’accusa dell’immortalità dell’anima era giusta, ma esposta malignamente e con ignoranza. Ecco il fatto.

In quel tempo l’università di Padova era divisa in due fazioni: de’ filosofi sperimentali, e degli aristotelici. Fra gli ultimi era Cesare Cremonini [p. 129 modifica]entrato professore in quella università nel 1589 e mortovi nel 1631; il quale seguendo le opinioni di Pietro Pomponaccio e di Simone Porzio metteva in dubbio, sull’autorità dello Stagirita, l’immortalità dell’anima; dicendo non essere dimostrabile colla ragione, sì solamente apparire dalle Sacre Carte e dagli insegnamenti della Chiesa, a cui bisognava deferire. Questa dottrina era tollerata a quei tempi per rispetto del grande Aristotele, idolo dei teologi scolastici, e senza il quale, diceva il Bellarmino, la fede è perduta; ma non piaceva a Frà Paolo, perocchè poteva condurre a conseguenze pericolose. Egli invece seguiva la stessa opinione, ma modificata a un dipresso come era stata accettata da varii Padri della Chiesa e sostenuta da metafisici moderni: cioè, che l’anima sia un ente per sua natura mortale; perocchè se essa ha avuto un principio, ne viene per necessità che debba avere anco un fine; e se è debitrice della sua esistenza a Dio, ragion vuole che ella non porti seco la proprietà di essere perpetua, che è sola d’Iddio. Ciò non toglie che ella sia immortale, non per sè, ma per conservazione; e, direm quasi, per una necessità della divina giustizia, la quale solo per questa via può dare in una vita avvenire le convenienti ricompense o pene ai virtuosi od ai malvagi.

L’idea poi che l’anima è un ente immateriale, è un’idea indefinibile che il pensiero non sa nè può concepire. Che è ciò che non è materia, che è indivisibile, che non ha dimensioni, che non occupa spazio? È una chimera, un niente. Ma se l’anima è nel corpo, se ha sua sede nel cervello o nel [p. 130 modifica]cuore, ella assolutamente deve avere le sue dimensioni, e occupare uno spazio; e quindi supponetela una sustanza sottile come volete, semplice come più vi piace, invisibile ai sensi, impalpabile, e dategli qual nome più vi aggrada, è pur sempre materia: e la materia benchè prenda forme infinite che si scompongono per un processo naturale o dell’arte, è nondimeno indestruttibile, e in conseguenza ridotta alla semplicità de’ suoi elementi, debbe avere, principii o spiriti perpetui e inalterabili.

Queste opinioni non sono nè nuove nè contrarie alla fede, perocchè non sono contraddette dalla Scrittura, e furono professate dai più illustri dottori della Chiesa, i quali non pure supposero l’anima corporea e non immortale per sè, ma eziandio corporeo fecero Dio; san Giustino martire lo dichiara in termini molto precisi: «Noi diciamo Dio incorporeo non perchè sia, ma perchè siamo avvezzi ad indicare gli attributi della divinità coi termini più onorevoli; e l’essenza di Dio non essendo sensitiva nè alla vista nè al tatto, noi la chiamiamo incorporea». Non meno esplicite sono le dichiarazioni di Tertulliano, di Origene, di Melitone Sardicense, di Clemente Alessandrino e di altri antichissimi teologi.

Vero è che Aristotele e i Peripatetici ammettevano che l’anima finiva assolutamente col corpo, ma Frà Paolo avrebbe voluto che non fosse insegnato questo filosofo se non colle debite eccezioni. Ciò nondimeno un nunzio di papa non era obbligato a intenderla su questo verso, molto più avendo un privato interesse da far prevalere. Imperciò a Roma, [p. 131 modifica]dove veniva riputato Aristotele il più saldo puntello della fede, benchè negasse l’immortalità dell’anima e la vita futura, era giusto che fosse sospettato eretico chi non voleva ammettere la psicologia di quel filosofo.

(1601). Ma Frà Paolo, ignorando forse le cagioni occulte di quella esclusiva e incoraggito nuovamente da’ patrizi suoi amici, vacando la sede di Nona, altro piccolo vescovado in Dalmazia suffraganeo a Spalatro, con ventotto parecchie, si diresse tuttavia al Collegio con una supplica del 17 ottobre 1601, del tenore seguente:

«Serenissimo principe, illustrissimi ed eccellentissimi Signori.

«Piacque alla Serenità Vostra ed alle Signorie vostre eccellentissime l’anno passato, essendo venuta la vacanza del vescovato di Caorle, accettare una mia supplicazione e far annotare lettere in raccomandazione di me Frà Paolo de’ Servi di Venezia all’Illustrissimo signor ambasciatore in Roma per farmi ottenere quel carico, e se non si interponeva il rispetto di Monsignor Reverendissimo Nuncio di Sua Santità che lo volle procurare al suo confessore, io sarei stato graziato per la somma benignità della Serenità Vostra, la quale essendo io sicuro che conservi la stessa graziosa disposizione verso di me, essendo ora venuta la vacanza del vescovato di Nona, sono ritornato a supplicarla di abbracciare in questa occasione la persona mia, favorendomi della sua raccomandazione presso l’illustrissimo ambasciatore suo. Il che desidero non per altra causa che per aver tempo [p. 132 modifica]e comodità di attendere più riposatamente a’ miei studii; e mostrarmi, in tutte le occasioni che potessero nascere, quel riverente e sviscerato servidore di questo serenissimo dominio che ho sempre fatto professione di essere, e che mi farò conoscere finchè il signor Dio mi terrà in vita. E in buona grazia di Vostra Serenità e di Vostre Eccellenze umilissimamente mi raccomando».

Il Senato onde non esporre sè e il Servita a nuovo rifiuto, incumbenzò il suo ambasciatore a Roma Giovanni Mocenigo di saggiar terreno, e scandagliare l’animo di Clemente VIII; e l’ambasciatore ne fece vivissime instanze al pontefice, parlandogli della passata ingiustizia, della compiacenza della Repubblica verso di lui, dei meriti di Frà Paolo, della sua probità, religione e sapere: a cui Clemente rispondeva: So che è un uomo di eminente dottrina, ma pratica con eretici. Era un pretesto indegno del buon senso di quel papa, il quale appunto allora stipendiava per suo medico il celebre Andrea Cesalpino, accusato pubblicamente di materialismo; ma e’ nascondeva altra materia sotto. Imperocchè oltre che era poco disposto a favorire la Repubblica pei dissapori che aveva con lei, era disgustato del Sarpi, sapendo i pareri che avevale dato intorno alle controversie ferraresi, e a quella di Ceneda, e alla recente sull’esame del patriarca, e intorno al concordato per l’affare dell’Indice; e temeva che questo frate diventato vescovo, in una diocesi dello Stato veneto, fosse per restar sempre veneziano, e che quanto facile era di opprimere un frate, altrettanto difficile diventava il far fronte ad un prelato che alla grandezza del titolo [p. 133 modifica]giungesse ampiezza di sapere. Non era forse alieno dallo inalzarlo e renderselo benevolo, molto più che lo conosceva personalmente e lo stimava; ma avrebbe voluto che il beneficio lo riconoscesse dalla Santa Sede, e dargli l’episcopato nello Stato Pontificio o in luogo dipendente da Roma. Infine dopo circa sei mesi di lungherie, pressato dal Mocenigo, diede una di quelle risposte ambigue così facili a Roma, che pareva favorevole e poteva essere contraria. Su questo appoggio il senato con suo dispaccio del 17 aprile 1602 mandò all’ambasciatore perchè raccomandasse ufficialmente Frà Paolo al pontefice. Ma le antipatie di lui non erano le sole cui conveniva superare. I gesuiti odiavano cordialmente il Sarpi per le consultazioni da lui fornite alla congregazione de Auxiliis, e per le sue opinioni a loro contrarie. Quindi i gesuiti di Venezia tennero all’erta quelli di Roma, gl’informarono della qualità dell’uomo e dei pericoli di vederlo inalzato a dignità cospicua, e della necessità di attraversarlo con tutti i mezzi possibili. E quantunque non fossero amati da Clemente, erano potentissimi in Corte, e al mal fare trovarono ausiliarie le invidie di alcuni confratelli di Frà Paolo, e il mal talento del nunzio Offredi, che a sostentare le antecedenti menzogne altre ne aggiunse: tanto che per tutti questi motivi il Sarpi fu escluso nuovamente. Consueta sorte de’ principi di dovere troppe volte obbedire ad impulsi estranei al loro cuore, contrari al loro interesse, e di cui non sanno presagire le conseguenze.

Le dignità avevano per vero poche lusinghe sull’animo di Frà Paolo, cui vedemmo fin dalla prima [p. 134 modifica]giovinezza ammirato in Mantova ed a Milano da principi e personaggi illustri; poi a Venezia da dotti, da prelati e da ambasciatori; indi a Roma accettissimo a cardinali e papi: sembrando quasi che la fortuna si compiacesse di allettarlo co’ suoi favori nel punto istesso in cui e’ gli dispregiava, più inteso ad erudire lo ingegno che a grandeggiare per dignità vane, di rado premio alla virtù, troppo spesso conseguite colle bassezze.

Contuttociò era ei pure fornito di quel giusto, generoso orgoglio che non è mai disgiunto dal carattere di una grand’anima: orgoglio che dista del pari dalla scimunita apatìa di animi frigidi, quanto dalla gonfia baldanza di presontuosi e vani; ma che ha origine da una esatta cognizione del proprio merito, conscio di non presumer troppo se aspira a un premio nella pubblica stima, e che invece si vede sacrificato a invide gelosie od a volgari passioni.

Non per ciò della doppia ed immeritata ripulsa nutrì egli alcun sentimento di vendetta; ma si diede ad un vivere più cauto, onde non dar presa ulteriore alle malignazioni. Questa circostanza gli fece maggiormente sentire l’incomoda situazione dell’uomo di genio costretto a vivere framezzo agli ipocriti ed agli ignoranti; e se la fortuna non si fosse compiaciuta di toglierlo dalla nullità a cui vollero condannarlo gli uomini, Frà Paolo tratto dalla sua modestia e dalla naturale sua circospezione a occultarsi, ora più che mai, agli occhi del mondo, giacerebbe un nome ignoto alla posterità, come altri tanti nati in occasioni meno propizie. [p. 135 modifica]

Papa Clemente non ebbe vita per conoscere l’enorme suo sbaglio, e forse durando egli, od altro pontefice a lui simile, nulla sarebbe avvenuto di quanto accadde pochi anni dopo. Ma bene lo confessò il cardinale Bellarmino dopo i casi dell’Interdetto, querelandosi che non si fosse pensato a tempo dalla Corte a guadagnarsi un uomo da cui poteva aspettarsi eminenti servigi. Intorno a che non so se il cardinale avesse torto o ragione; imperocchè se Frà Paolo in quello che è sostanzialmente religione si conservò sempre purissimo, non ne consegue che dovesse essere ancora curialista; e penso invece che vescovo o cardinale sarebbe sempre stato quel medesimo che fu frate: essendo troppo difficil cosa che un uomo educato tanto liberalmente, e fornito di tanti lumi e di un criterio così geometrico, potesse farsi complice delle prevenzioni e dottrine della Curia romana. Tutto al più avrebbe mutato se lo facevano papa, perchè di tutte le condizioni è questa la sola che ha la specialità d’innovare il vecchio uomo. Qualunque siano stati i concetti di un individuo, se gli mettete una tiara in sul capo, si trasforma in un essere affatto nuovo: rinuncia le opinioni dell’uomo e prende opinioni da papa. Nè sarebbe stato un miracolo se Frà Paolo dopo tutto ciò che scrisse contro l’Interdetto, asceso sulla cattedra di San Pietro avesse fatto una solenne e spontanea palinodìa, come già fece Pio II. Prospero Lambertini cardinale, si rideva di molte superstizioni; Prospero Lambertini papa, le sostentava. Quand’era Lambertini, aveva in discredito l’inquisizione; diventato Benedetto XIV, la persuadeva. Col mutare del nome, mutano [p. 136 modifica]natura. Il celebre Ganganelli è forse il solo che si conservasse papa quel medesimo che già fu frate, ed è forse perciò che rinnegato a mezza bocca dai Romani è più conosciuto al mondo col nome di papa Ganganelli, che di papa Clemente XIV.

Quando si vogliono tirare a fine sinistro le azioni di un uomo, faccia pur bene finchè vuole, siano pure innocenti le sue intenzioni, troverà sempre maligni interpreti. I Curiali che hanno pronte le scappatoie per giustificare a cagion di esempio Urbano VIII che volle conferire al siciliano Boi un pingue vescovado per ricompensarlo della sua perizia nel giuocare agli scacchi; o per scusare Giulio III che diede il capello cardinalizio ad un bindolo il cui merito era di saper bene dimesticare una scimia: trovarono degno di rimprovero il Sarpi perchè aspirò ad un vescovado di poche centinaia di ducati all’anno, non per altra causa che per attendere più riposatamente a’ suoi studii. San Paolo, dicono loro, dice che desidera cosa buona chi desidera l’episcopato; ma è egli, aggiungono, per attendere agli studii che hassi a desiderarlo? No certo, rispondo io, ma per avere una buona Mensa: tale essendo il titolo, desunto dalla destinazione, delle rendite episcopali; ed ereticava il Sarpi pensando che ciò che è destinato alla mensa, possa essere profanato dagli studii.

La farisaica invidia lo prese maggiormente di mira e lo circuì di un assiduo spionaggio; ma fu costretta a confessare quanto i costumi di Frà Paolo fossero irreprensibili, posciachè non potè appuntare che sopra le inezie, accusandolo di eresia perchè nella [p. 137 modifica]messa non recitava la Salve regina. Era vero: Gregorio XIII aveva tolto quel rito fino dal 1579; ma un Capitolo di trenta frati alla barba del papa lo volle ristabilito, e Sarpi era eretico perchè ubbidiva al papa e non al Capitolo. Fu accusato ancora per la foggia del suo berrettino, cui dicevano ribelle a quanto prescriveva una bolla di Gregorio XIV. E infine in un Capitolo tenuto in Vicenza agli 11 maggio del 1605 fu accusato da quel Padre Arcangelo Piccioni, maestro di teologia e già provinciale, nominato altrove, che portava pantofole non cattoliche; e quelle pantofole citate in giudizio, levate di piè dal Sarpi, furono esaminate con tutte le formalità dal vicario generale; e riconosciuto che erano ortodosse, tra somme risate fratesche pronunziò sentenza in latino che exemptionem nullius esse momenti et planellam decere religiosos, onde passò il proverbio tra i Serviti che persino le pantofole di Frà Paolo erano state canonizzate.

È miracolo in un secolo pieno di pregiudizi e di superstizioni, e in cui il Sant’Offizio vedeva dapertutto maghi, streghe e incantamenti, che Frà Paolo non sia stato accusato di magìa o per lo meno di teurgismo; ma ciò si deve attribuire probabilmente alla sua circospezione: nè mi pare insulsa la congettura di Bayle, che per questo motivo e’ tenesse occulte le sue scoperte anatomiche. Imperocchè quantunque l’Inquisizione a Venezia avesse corte le unghie, nè abbia potuto avere la consolazione di far arrostire alcuno eretico, qualche frate fanatico non avrebbe mancato di accusarlo di sacrilegio, come già avvenne al Vessalio in Fiandra. Non per questo [p. 138 modifica]la scappò netta del tutto, conciossiacosachè parendo ad alcuni che un sapere così sterminato non potesse essere effetto naturale, imaginarono che Frà Paolo aveva uno spirito famigliare. Cardano e qualche altro matto se ne vantò, Torquato Tasso se lo credeva; ma Cecco d’Ascoli fa abbruciato vivo, Pietro d’Abano in effigie, Petrarca dovette purgarsene a Clemente VI, Tommaso Campanella la scontò in carcere e il monaco Bacone non so come l’abbia cansata; le quali cose quando io mi ricordo, mi dolgo veramente e di cuore che il destino degli uomini grandi sia troppo spesso quello di dover essere il bersaglio degli uomini stolti.