Biografia di Frà Paolo Sarpi/Vol. I/Capo VII
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CAPO SETTIMO.
Per breve tempo potè Frà Paolo restituirsi a’ suoi studi, stantechè fu quasi subito disturbato da altri accidenti, per intendere i quali e dar ragione delle cose che seguirono mi conviene toccare alcuni punti di storia.
Sisto V era morto nell’agosto del 1590, e se Roma perdette un gran papa, comechè non molto santissimo, il Sarpi perdette un giusto e giudizioso estimatore delle sue qualità. Il cardinale Castagna che gli successe col nome di Urbano VII morì dopo 13 giorni; e Frà Paolo udito il suo inalzamento e la pronta sua morte, esclamò: Ideo raptus est, ne malitia mutaret intellectum ejus, «Fu così presto rapito, acciocchè la malizia non lo guastasse». Gregorio XIV regnò poco più di 10 mesi, e due mesi soltanto Innocenzo IX, a cui succedette a’ 28 di gennaio 1592 Clemente VIII di casa Aldobrandini di Firenze, ambizioso, prudente, pratico delle cose e degli uomini, insomma quale il Pallavicino desidera i papi, più forniti di politica che di santità.
Il papato a quei tempi rigogliva di forze, ma lo travagliavano le guerre di religione e l’opposizione sempre crescente del protestantismo. In Francia dopo sanguinose fazioni tra cattolici ed ugonotti, la famosa lega di Parigi cadeva, Enrico IV trionfava, e tra ortodosso ed eretico teneva in ardui pensieri la Santa Sede. La Riforma aveva vinto in Olanda, minacciava il Belgio, combatteva in Francia; l’Italia non era senza sospetti e la crudeltà della Inquisizione gli accresceva. I principi mal sopportavano l’enorme potere esercitato dai pontefici su di loro, per cui erano violati tutti i diritti e la stessa loro dignità; e solo stretti dalle necessità de’ tempi, mordendo il freno, ubbidivano. A ciò si aggiungevano gli interessi politici associati colla religione, che bene spesso non era che un pretesto ad altre ambizioni. Per le quali cose la corte di Roma si trovava implicata in tutte le vicende dell’Occidente, sperando nelle une, temendo delle altre. Fra tante passioni e reazioni, i successori di San Pietro avevano stremo bisogno di senno e di cautela per non precipitare in qualche sinistro da comprometterli sul serio, perchè il fanatismo è cieco e solo gli occhi della ragione abbracciano spazi infiniti. In così varie difficoltà Clemente si condusse con prudenza: fece assai cose utili, altre lodevoli, conciliò Enrico IV alla Chiesa, indi lo stesso re colla Spagna e col duca di Savoia, fece coi danari guerra ai Turchi, sostenne le pretensioni papali senza spingerle troppo oltre; ma quello che in altra età gli avrebbe meritato altari, fu l’ampliazione del dominio temporale di San Pietro.
Eppure era destinato dai cieli che sotto il suo pontificato dovessero predisporsi le cagioni occulte di un avvenimento, che rivelando al mondo gli arcani del papato, doveva essere il principio della sua decadenza. Di tutti gli stati cattolici Venezia fu sempre il più ossequente in verso a’ romani pontefici, e quello ancora in cui e’ più fidavano ne’ loro pericoli. Sorgevano invero d’ora in ora, ed anco spesso, alterchi, perchè la repubblica non volle mai ammettere l’intervenimento della potestà ecclesiastica nella sua amministrazione interiore; ma di solito finivano in composizioni amichevoli. Ma dopo che i dominii pontificii, per l’acquisto di Ferrara, si trovarono a contatto con que’ della repubblica, le contese di giurisdizione canonica si associarono ad altre molto più vive intorno a’ confini, commercio, dogane, privilegi, stipulazioni antiche, che presero talvolta un carattere minaccioso; le quali benchè per l’assennatezza di entrambi si accomodassero o si assopissero alla meglio ciò nondimeno lasciarono in corte di Roma semi di disgusto, e una tal quale predisposizione a ostilità contro Venezia che sotto il seguente pontificato partorì una grave discordia. Dirò le origini principali.
(1592). Intanto che i Veneziani erano travagliati dagli Uscocchi, pirati immanissimi che abitavano in Segna di Dalmazia nei dominii di casa d’Austria, numerosi banditi condotti da capi audacissimi infestavano lo Stato Romano e il regno di Napoli, ed Ermolao Tiepolo, generale veneto, credendo di opporre una peste all’altra, gli prese al soldo in numero di 500 e trasportolli nell’Istria. La qual cosa udita dal papa, ne fu sdegnato, e mandò che quei masnadieri gli fossero consegnati; il senato rispose che doveva essere contento di vedersi liberato senza spesa di quella illuvie. Ma il papa andò tanto innanzi che richiamò il suo nunzio; il senato gli mandò ambasciatori per giustificarsi, e in ultimo non volendo romperla per una cagione così futile, ordinò che i banditi fossero trasportati parte in Candia, parte a Cerigo dove il nuovo clima e le infermità gli sterminarono.
(1595). Dopo questo breve contrasto passarono fino al 1595 anni di pace e buona amicizia, quando un altro se ne suscitò che pareva gravido di conseguenze più serie.
Ceneda è grossa terra della Marca Trivigiana che per vicende di guerra appartenne in sovranità ai re d’Ungheria, ai Carraresi, agli Scaligeri, ai Visconti, ma più di tutto ai Veneziani che più volte la riacquistarono, quando per armi, quando per trattati. Ma il dominio utile appartenne a’ vescovi del luogo che dilatarono la temporale loro giurisdizione su varie altre terre d’intorno: se non che vessati dai signori laici e dal comune di Treviso, nel 1337 si fecero vassalli diretti dei Veneziani a condizioni che variarono col tempo. Nel 1546 per querele de’ Cenedesi e ribellione del vescovo alla Repubblica, il senato gli tolse ogni giurisdizione temporale e mandò a governare la terra col suo distretto un podestà. Ciò nulla ostante i vescovi tentarono più volte di riprendersi la perduta autorità, e pretestando che Ceneda era feudo della Chiesa, trassero nella loro causa i pontefici, pronti sempre ad afferrare le occasioni per intromettersi in tutti i negozi, ed ingrandire; e quantunque la costanza della Repubblica rendesse inutili gli sforzi del sacerdotale orgoglio, Marcantonio Mocenigo, fatto vescovo nel 1588, volle pur ritentare le pretensioni de’ suoi antecessori. Non più vescovo e conte di Ceneda, ma vescovo e principe si fece chiamare, e operò da principe sovrano e indipendente. Proibì a’ Cenedesi il ricorso a’ tribunali secolari, gli obbligò al fôro ecclesiastico, e a ricorrere per caso di appello alla Santa Sede, di cui diceva feudo il tenitorio. Il papa, contento del regalo, elesse suo procuratore il nunzio a Venezia, e sostentò gli atti illegittimi del Mocenigo.
I Cenedesi tenendosi aggravati, ricorsero al senato; e questo offeso ne’ propri diritti, annullò gli atti del nunzio e del vescovo, e mandò oratori a Roma per esporre lo stato genuino delle cose a Clemente. Il quale persistendo, corse alle minaccia, poi ai monitorii e infine alla scomunica, che i Veneziani e i Cenedesi si fecero un dovere di non osservare. E già la lite prendeva un aspetto minaccioso, quando il papa pressato da altre contingenze accordò colla repubblica che sulla parola di principe l’uno e l’altro annullasse le cose fatte in pregiudizio reciproco, rimettendo il fondo della contesa ad altro momento. Ma erano astuzie: i Curiali tornarono da capo, e peggio il vescovo. Nuove querele a Roma; il papa se ne protestò ignaro, e abolì queste altre novità. Ma non ancora finiva se lo stesso pontefice, per una disobbedienza del vescovo, non lo obbligava a deporsi dall’episcopato, nel 1598, a cui il senato sostituì Lionardo Mocenigo, cugino di Marcantonio. Così per allora fu acquetato quel negozio, cui vedremo risorgere nel 1611.
Lo stesso anno 1595 spiacque a’ Veneziani una bolla del pontefice la quale proibiva, pena la scomunica, agli Italiani di portarsi di là dai monti nei paesi dove fossero eretici, senza una licenza degli inquisitori locali. La qual legge così strana, se avesse avuto effetto, sarebbe riuscita di somma molestia ai mercatanti di Venezia che pei loro traffichi visitavano Inghilterra, Svizzera, Germania, Olanda ed altre regioni acattoliche. Pure il governo per non accrescere gli umori, si contentò di comandare al Sant’Offizio di non ricevere le denuncie, o che dall’oltremonti o che da Roma venissero.
Un’altra contesa fu pure suscitata in quest’anno medesimo. Clemente con un suo breve voleva che anco a Venezia fosse osservato l’Indice de’ libri proibiti, il che tornava in sommo pregiudizio al commercio librario di quella città. Il senato si oppose, e interpellò in via privata Frà Paolo, il quale diede alcune memorie su questo proposito, che servirono d’instruzione al governo e agli ambasciatori in Roma. Infine la lite fu composta l’anno seguente per un concordato, alla redazione del quale il Servita ebbe molta parte, e che i papi successori cercarono di violare, come dirò.
(1596). Intanto gli Uscocchi tormentavano Veneziani e Turchi, gli Austriaci gli proteggevano; e i Turchi a vendetta mossero guerra all’Austria in Ungheria, nel tempo che i Veneziani combattevano i pirati. Ma il papa che mirava ad una lega tra l’Austria, la Polonia e Venezia contro i Turchi, affine di prolungare i mezzi di difesa negli Uscocchi e mettere screzio tra la Repubblica e gli Ottomani, mandò loro, nel 1596, un soccorso d’armi e munizioni. Venezia se ne dolse per mezzo de’ suoi ambasciatori: il papa se ne scusava, e proponeva la sua lega. La quale a patto niuno poteva convenire ai Veneziani, perchè oltre all’interrompere i loro commerci in Levante, una guerra colla Porta Ottomana poteva riuscire pericolosa alla Repubblica, stante lo stato ambiguo dell’Europa e la potenza della Spagna in Italia, che signoreggiando Sicilia, Napoli, Milano e i Presidii della Toscana opprimeva i piccoli principi, e ambiva il dominio di tutta la penisola.
Fra questi occulti rancori continuavano gli uffici di amicizia, e la Repubblica prestò anco importanti servigi alla Santa Sede, quello principalmente di essersi con molto calore adoperata a riconciliare Enrico IV alla comunione cattolica, in che ebbe la prima lode. Ma da un litigio ne nasceva un altro, e molti interessi inframettevano querele e disgusti, minuti invero, ma che sommati insieme accrescevano la diffidenza reciproca.
(1598). I papi in virtù della falsa donazione di Costantino, tipo delle altre donazioni di Pipino, Carlo Magno e successori, vantavano diritti sul ducato di Ferrara possieduto dalla casa d’Este. Fino dai tempi di Gregorio XIV si erano intavolati intrighi per escludere da quella successione don Cesare, erede dopo la morte di Alfonso II duca regnante, e farla cadere nei nipoti del pontefice, ma non riuscirono per l’opposizione del gran duca di Toscana. Morto poi Alfonso nel 1597, Clemente VIII colle scomuniche e molto più colle armi obbligò don Cesare a cedergli, il seguente anno, Ferrara e suo territorio e accontentarsi di Modena e Reggio. Nel qual anno medesimo il papa fece anco occupare Comacchio e la sua valle, feudo imperiale, cui l’imperatore Rodolfo, occupato nella guerra di Ungheria e bisognoso del pontefice, cedette agevolmente. Poi il papa per vanità o per gratificarsi colla pompa pontificia i popoli, andò con seguito splendido a visitare la nuova conquista.
Ad onorarlo il senato mandò bella comitiva dei principali patrizi e assai prelati dello stato veneto, tra i quali andò per esservi consecrato Leonardo Mocenigo, eletto vescovo di Ceneda, il quale con seco si condusse il Sarpi cui prima aveva preso a suo maestro di diritto canonico. Ivi il Sarpi ebbe occasione di conoscere Gaspare Scioppio, allora giovane di 22 anni ma d’ingegno sviluppato, e che appresso divenne celebre per erudizione, maldicenza e spirito inquieto. Scioppio era luterano, ma pensava a farsi cattolico, e seguiva la corte del papa suo protettore che poi lo fece cavaliere e conte.
Sbrigato Frà Paolo di questa faccenda, un’altra gliene sopravvenne. Vertìa già da alcuni anni la famosa disputa tra gesuiti e domenicani intorno gli aiuti della divina grazia, essendo fatale che la religione debba essere perpetuamente tribolata dal genio contenzioso dei teologi. Lodovico Molina gesuita spagnuolo aveva pubblicato, nel 1518, un libro intitolato: Concordia del libero arbitrio coi doni della divina grazia, nel quale astruso argomento, scoglio di errori agli antichi ed a’ moderni, l’autore mise fuori una dottrina cui chiama nuova, benchè non la sia cotanto, nella quale concedendo assaissimo al libero arbitrio, ristringe per conseguenza gli aiuti della grazia; e poichè i frati pieni di rivalità e d’invidie non sanno far nulla se non si bezzicano tra di loro, il Molina si fece un dovere di attaccare le decisioni del dottore angelico san Tommaso, gloria de’ domenicani; e questi punti dell’offesa, se ne risentirono, e suscitarono al gesuita una gran tempesta. Molti teologi impugnarono, molte università condannarono il molinismo, cui i Gesuiti con pari alacrità difesero. La causa fu portata a Roma, e il papa ne affidò l’esame ad una congregazione che dall’ufficio fu detta de Auxiliis. Ed erane parte Ippolito Massarini, teologo servita, poi vescovo di Montepeloso, che al Sarpi si diresse, siccome a quello che dottissimo conosceva in teologia e profondamente versato nella patristica e nei sistemi tenebrosi degli scolastici, e lo chiese di lumi e notizie intorno allo stato di quella controversia.
La quale oscura e poco intesa dai disputanti medesimi, se si dovesse definire da un filosofo direbbe, provarsi da diuturna esperienza che il libero arbitrio nell’uomo è pieno ed assoluto, e provarsi dalla ineffabile giustizia di Dio, che la sua grazia piove sempre egualmente sull’empio e sul giusto, in tutti i tempi, in tutte le occasioni; che diede all’uomo la ragione per distinguere l’onesto dal disonesto: che il voler penetrare più oltre è temerità umana, e scrutare come Dio prevede che tal uomo sarà salvo o dannato è sforzo di ciechi vermi che vogliono vedere nella immensità della luce divina. Ma Sant’Agostino, cervello africano più immaginoso che ragionatore, infatuato nel manicheismo sino dalla prima sua gioventù, nè potendosene al tutto spogliare, cercò di conciliarlo, almeno in parte, colla teologia ortodossa; e tratto dalle circostanze a combattere eretici di contraria specie, seguendo la foga del suo temperamento ci lascia incerti se quando impugna gli uni non adotta i sentimenti degli altri: ed è notabile che molte sue opinioni sostenute dai calvinisti, sono eresie fra i cattolici, e che la sua dottrina sulla grazia e il libero arbitrio ripetuta da Giansenio fu condannata dalla corte di Roma.
Questa materia fu viepiù imbrogliata dagli scolastici, che adottando per loro testo Aristotele si perderemo in tanti raffinamenti di metafisica, che è un vero caos.
Del molto che Frà Paolo scrisse al Massarini, non ci resta indizio; ma possiamo desumere quale fosse la sua sentenza da un trattatello intorno la cosa istessa, scritto per comando pubblico, donde si rileva ch’egli opina a favore dei domenicani e riprova il libro del Molina. Dal quale avendo la congregazione cavato, poi condannato d’eresia 21 proposizioni, il che poco stette che non rubellasse alla Santa Sede la compagnia di Gesù, si può da qui stabilire la prima origine dell’odio che gli portarono i gesuiti poi sempre, per avere, quantunque indirettamente, cooperato a quella condannazione. Ciò era per lui indifferente, ma più gli nocquero nella opinione del pontefice le ulteriori contese fra Roma e la Repubblica.
Imperocchè dimorando tuttavia il papa a Ferrara, alcuni sudditi veneziani pescando nella Gora di Po, appartenente alla Repubblica, i pontificii pretendendovi ragioni, gli fecero prendere; da ciò nacquero rappresaglie e risse fra i confinanti: il senato se ne querelò, mandò sul luogo alcune galere a tutela delle ragioni pubbliche e di quelle de’ sudditi, e infine fu composta la differenza senza deciderla, restituendosi reciprocamente i prigioni.
Ma subito dopo ne insorse un’altra più importante. I Veneziani sin da tempi antichissimi si vantavano sovrani dell’Adriatico, e in virtù di tale diritto obbligavano i vascelli che entravano in quel mare carichi di mercanzia a toccare il porto di Venezia dove pagavano una gabella. I soli Veneti essendone eccettuati, ne proveniva che potendo usare miglior mercato ne’ trasporti, tutto il commercio di quei paraggi fosse in mano loro. Era pure antico costume che i navili i quali andavano a caricar olii nella Puglia dovessero voltare direttamente a Venezia, di dove poi quella merce si diramava pel continente d’Italia. Ma i duchi di Ferrara, per tolleranza, n’erano talvolta esclusi; e le loro navi entravano direttamente per la Sacca di Goro nel territorio ferrarese. I papali vollero non solo godere la stessa tolleranza, ma mutarla in diritto: nè bastando, alcuni fecero sentire al pontefice i vantaggi risultanti al commercio de’ suoi Stati ove in Ferrara si stabilisse un emporio, il quale col tempo e colle agevolezze avrebbe potuto rivaleggiare Venezia. Perciò Clemente chiese che tutti i barcherecci papalini che entravano per la Sacca di Goro in su quel di Ferrara fossero esenti dai consueti dazi. La insolita domanda pregiudicievole al traffico de’ Veneziani, fu rigettata; e persistendo i pontificii, il senato mandò legni armati per obbligare alle solite pratiche i navigli papalini e trattare da contrabbandieri quelli che di strada uscivano. Dal canto suo il pontefice pensò di deviare fino a Comacchio un ramo del Po, e piantar ivi buone fortificazioni sulla spiaggia a tutelare i suoi sudditi ed allontanare colla forza i legni marcheschi.
Bolliva questa contesa quando un’altra se ne aggiunse. Gl’interramenti continui portati dal Po e da’ fiumi suoi confluenti nelle lagune, abbassando larghi tratti di mare, minacciavano sempre più di difficoltarne la navigazione. A provvedervi il senato immaginò opera gigantesca, e fu di deviare porzione delle acque padane per mezzo di uno scavo artificiale. E qui pure il papa ad opporsi, e dire che pregiudicava a’ suoi Stati. Già i due governi minacciavano di ricorrere alle armi, se necessità politiche non avessero obbligato il pontefice a cercare un componimento. Conciossiacosachè nè la Spagna nè il gran duca di Toscana sopportavano di buon grado l’acquisto di Ferrara, e si erano chiariti a favore della casa d’Este; onde il cardinale Aldobrandini non volendo accrescersi i nemici, anzi bisognoso della Repubblica, consigliò lo zio pontefice ad accordarsi.
(1601). Breve fu la concordia. Anticamente i dogi avevano il diritto di confermare i vescovi, eletti, come era costume, dal popolo; i quali non potevano entrare nel possesso dei loro beni temporali, nè esercitare la loro potestà se prima non erano riconosciuti dai supremi del governo civile, e da essi ricevutane quella che chiamavano l’investizione. I papi da poi si arrogarono di confermarli, ed anco di obbligarli andare a Roma per esame e consecrazione e giuramento di fedeltà alla Santa Sede. Contuttociò la Repubblica considerò sempre la patriarchia di Venezia come un suo juspatronato, e i patriarchi nominati e instituiti dal senato e consecrati dai vescovi della provincia esercitarono sempre i diritti e il possesso della loro sede, senza che i papi facessero alcuna opposizione. Ma Clemente VIII aveva fatto decreto che tutti i vescovi d’Italia, qualunque si fossero le loro prerogative, dovessero andare a Roma per esservi esaminati, quasi che ivi nella scelta non si vada per favori ed interessi come e più che altrove. Morto adunque il patriarca Lorenzo Priuli, ed eletto dal senato Matteo Zane, il papa pretese che fosse obbligato anch’egli alla nuova legge. Si oppose il senato, e produsse le antiche sue ragioni; ma insistendo il pontefice, per finirla fu trovato un termine di mezzo: che Zane andrebbe a Roma, ma per mera riverenza, non per obbligo nè per esame.
In questi dissidii Frà Paolo fu consultato privatamente più volte, e alcune sue scritture fra le inedite mi sembrano di questi tempi e allusive ai narrati argomenti: le quali cose non potevano essere così celate che i malevoli non le sapessero, e ne informassero, anco ampliandole, tosto il pontefice, che certo non ne poteva essere contento. Ne vedremo gli effetti nel seguente capo.