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atto terzo | 173 |
forse i nemici a debellar pugnando
fra l’armi suderai? Qualche disastro
se a soffrir per la patria atta non sei
senza viltá, di’: che farai per lei?
Attilia. È ver; ma tal costanza...
Regolo. È difficil virtú; ma Attilia alfine
è mia figlia e l’avrá. (partendo)
Attilia. Sí, quanto io possa,
gran genitor, t’imiterò. Ma... oh Dio!
tu mi lasci sdegnato:
io perdei l’amor tuo.
Regolo. No, figlia: io t’amo,
io sdegnato non son. Prendine in pegno
questo amplesso da me. Ma questo amplesso
costanza, onor, non debolezza inspiri.
Attilia. Ah! sei padre, mi lasci, e non sospiri!
Regolo. Io son padre, e nol sarei,
se lasciassi a’ figli miei
un esempio di viltá.
Come ogni altro, ho core in petto;
ma vassallo è in me l’affetto;
ma tiranno in voi si fa. (parte con Publio)
SCENA VII
Attilia, poi Barce.
sgombrate da quest’alma; inaridite
ormai su queste ciglia,
lagrime imbelli. Assai si pianse; assai
si palpitò. La mia virtú natia
sorga al paterno sdegno;