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178 | xviii - attilio regolo |
anch’ei le vene inaridir, che ormai
non può versar per lei
né sangue né sudor, che non gli resta
che finir da romano. Ah! m’apre il cielo
una splendida via: de’ giorni miei
posso l’annoso stame
troncar con lode, e mi volete infame!
No, possibil non è: de’ miei romani
conosco il cor. Da Regolo diverso
pensar non può chi respirò, nascendo,
l’aure del Campidoglio. Ognun di voi
so che nel cor m’applaude;
so che m’invidia, e che, fra’ moti ancora
di quel, che l’ingannò, tenero eccesso,
fa voti al ciel di poter far l’istesso.
Ah! non piú debolezza. A terra, a terra
quell’armi inopportune! Al mio trionfo
piú non tardate il corso,
o amici, o figli, o cittadini. Amico,
favor da voi domando;
esorto, cittadin; padre, comando.
Attilia. (Oh Dio! ciascun giá l’ubbidisce.)
Publio. (Oh Dio!
ecco ogni destra inerme.)
Licinio. Ecco sgombro il sentier.
Regolo. Grazie vi rendo,
propizi dèi: libero è il passo. Ascendi,
Amilcare, alle navi;
io sieguo i passi tui.
Amilcare. (Alfin comincio ad invidiar costui.) (sale sulla nave)
Regolo. Romani, addio. Siano i congedi estremi
degni di noi. Lode agli dèi, vi lascio,
e vi lascio romani. Ah! conservate
illibato il gran nome; e voi sarete
gli arbitri della terra, e il mondo intero