Arcadia (Sannazaro)/Prosa IV

Prosa IV

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ARGOMENTO


Con bella desrizion poetica dipigne le bellezze della Ninfa Amaranta, e ’l solazzo suo in contemplarla; e facendo Elpino e LOgisto propor premj per dare a chi vince cantando, gl’induce per giudicio di Selvaggio a cantare, e riceverne in premio la gloria.


prosa quarta.


Piacque maravigliosamente a ciascuno il cantare di Galizio, ma per diverse maniere. Alcuni lodarono la giovenil voce piena di armonia inestimabile; altri il modo soavissimo e dolce, atto ad irretire qualunque animo stato fosse più ad amore ribello: molti commendarono le rime leggiadre, e tra rustici pastori non usitate; e di quelli ancora vi furono, che con più ammirazione estolsero l’acutissima sagacità del suo avvedimento; il quale costretto di nominare il mese a’ greggi ed a’ pastori dannoso, siccome saggio del sinistro augurio in sì lieto giorno, disse il mese innanzi Aprile. Ma io, che non men desideroso di sapere chi questa Amaranta si fosse, che di ascoltarne l’amorosa canzone era vago, le orecchie alle parole dello innamorato pastore, e gli occhi ai volti delle belle giovanette teneva intentissimamente fermali, stimando per li movimenti di colei, che dal suo amante cantare si udiva, poterla senza dubitazione alcuna comprendere; e con accorto sguardo or questa, or quella riguardando, ne vidi una, che tra le belle bellissima giudicai; li cui capelli erano da un sottilissimo velo co[p. 38 modifica]verti, di sotto al quale due occhi vaghi e lucidissimi scintillavano, non altrimenti che le chiare stelle sogliono nel sereno e limpido cielo fiammeggiare; e ’l viso alquanto più lunghetto che tondo, di bella forma, con bianchezza non spiacevole, ma temperata, quasi al bruno declinando, e da un vermiglio e grazioso colore accompagnato riempieva di vaghezza gli occhi, che ’l miravano: le labbra erano tali, che le mattutine rose avanzavano; fra le quali, ogni volta che parlava, o sorrideva, mostrava alcuna parte de’ denti, di tanto strana e maravigliosa leggiadria, che a niun’altra cosa, che ad orientali perle gli avrei saputo assomigliare: quindi alla marmorea e delicata gola discendendo, vidi nel tenero petto le picciole e giovenili mammelle, che a guisa di due rotondi pomi la sottilissima veste in fuori pingevano, per mezzo delle quali si discerneva una vietta bellissima, ed oltra modo piacevole a riguardare, la qual perocchè nelle secrete parti si terminava, di a quelle con più efficacia pensare mi fu cagione: ed ella delicatissima e di gentile e rilevata statura, andava per li belli prati con la bianca mano, cogliendo i teneri fiori. De’ quali avendo già il grembo ripieno, non più tosto ebbe dal cantante giovane udito Amaranta nominare, che abbandonando le mani e ’l seno, e quasi essendo a se medesima uscita di mente, senz’avvedersene ella, tutti le caddero, seminando la terra di forse venti varietà di colori. Di che poi quasi ripresa accorgendosi, divenne non altrimenti vermiglia nel viso, che suole talvolta il rubicondo aspetto della incantata Luna, ovvero nello uscire del Sole la [p. 39 modifica]purpurea Aurora mostrarsi a’ riguardanti. Onde ella, non per bisogno, credo, che a ciò la strignesse, ma forse pensando di meglio nascondere la sopravvenuta rossezza, che da donnesca vergogna le procedea, si bassò in terra da capo a coglierli, quasi come di altro non le calesse, sciegliendo i fiori biauchi dai sanguigni, e i persi dai violati. Dalla qual cosa io, che intento e sollicitissimo vi mirava, presi quasi per fermo argomento, colei dovere essere la pastorella, di cui sotto confuso nome cantare udiva: ma ella dopo breve intervallo di tempo, fattasi de’ raccolti fiori una semplicetta corona, si mescolò tra le belle compagne; le quali similmente, avendo spogliato l’onore ai prati, e quello a se posto, altere con soave passo procedevano, siccome Najade, o Napee state fossero, e con la diversità de’ portamenti oltra misura le naturali bellezze aumentavano. Alcune portavano ghirlande di ligustri con fiori gialli, e tali vermigli interposti: altre aveano mescolati i gigli bianchi e i porporini con alquante frondi verdissime di aranci per mezzo: quella andava stellata di rose, quell’altra biancheggiava di gelsomini; talchè ognuna per se, e lune insieme più a’ divini spirti, che ad umane creature assomigliavano: per che molti con maraviglia diceano: o fortunato il posseditore di cotali bellezze! Ma veggendo elle il sole di molto alzato, e ’l caldo grandissimo sopravvenire, verso una fresca valle piacevolmente insieme scherzando e motteggiandosi drizzarono i passi loro. Alla quale in brevissimo spazio pervenute, e trovativi i vivi fonti sì chiari, che di purissimo cristallo pareauo, cominciarono con le gelide [p. 40 modifica]acque a rinfrescarsi i belli volti, da non maestrevole arie rilucenti: e ritiratesi ie schiette maniche insino al cubito, mostravano ignude le candidissime braccia, le quali non poca bellezza alle tenere e delicate mani sopraggiungevano. Per la qual cosa noi più divenuti volonterosi di vederle, senza molto indugiare, presso al luogo, ove elle stavano, ne avvicinammo, e quivi a piè d’un’altissima elcina ne ponemmo senza ordine alcuno a sedere. Ove come che molti vi fossero e in celere, ed in sampone espertissimi, nondimeno alla più parte di noi piacque di volere udire Logisto ed Elpino a pruova cantare, pastori belli della persona, e di età giovanissimi: Elpino di capre, Logisto di lanate pecore guardatore; ambiduo co’ capelli biondi più che le mature spiche, ambiduo di Arcadia, ed egualmente a cantare, ed a rispondere apparecchiati. Ma volendo Logisto non senza pregio contendere, depose una bianca pecora con due agnelli, dicendo: di questi farai il sacrificio alle Ninfe, se la vittoria del cantare fia tua; ma se quella li benigni Fati a me concederanno, il tuo domestico cervo per merito della guadagnata palma mi donerai. Il mio domestico cervo, rispose Elpino, dal giorno, che prima alla lattante madre il tolsi, insino a questo tempo lo ho sempre per la mia Tirrena riserbato, e per amor di lei con sollicitudine grandissima in continue delicatezze nudrito, pettinandolo sovente per li puri fonti, ed ornandogli le ramose corna con serti di fresche rose e di fiori: ond’egli avvezzato di mangiare alla nostra tavola, si va il giorno a suo diporto vagabondo errando per le selve, e poi quando [p. 41 modifica]tempo gli pare, quantunque tardi sia, se ne ritorna alla usata casa, ove trovando me, che sollicitissimo lo aspetto, non si può veder sazio di lusingarmi, saltando, e facendomi mille giuochi d’intorno. Ma quel, che di lui più che altro mi aggrada, è che conosce ed ama sopra tutte le cose la sua donna, e pazientissimo sostiene di farsi porre il capestro, e di essere tocco dalle sue mani; anzi di sua volontà le para il mansueto collo al giogo, e tal fiala gli omeri all’imbasto; e contento di essere cavalcato da lei, la porta umilissimo per li lati campi senza lesione, o pur timore di pericolo alcuno: e quel monile, che ora gli vedi di marine conchiglie con quel dente di cinghiale, che a guisa di una bianca luna dinanzi al petto gli pende, ella per mio amore gliel pose, ed in mio nome gliel fa portare. Dunque questo non vi porrò io; ma il mio peguo sarà tale, che tu stesso, quando il vedrai, il giudicherai non che bastevole, ma maggiore del tuo. Primieramente io ti dipongo un capro, vario di pelo, di corpo grande, barbuto, armato di quattro corna, ed usato di vincere spessissime volte nell’urtare; il quale senza pastore basterebbe solo a couducere una mandra, quantunque grande fosse: oltra di ciò un nappo nuovo di faggio con due orecchie bellissime del medesimo legno, il quale da ingegnoso artefice lavorato tiene nel suo mezzo dipinto il rubicondo Priapo, che stretlissimamente abbraccia una Ninfa, ed a mal grado di lei la vuol baciare: onde quella d’ira accesa, torcendo il volto indietro, con tutte sue forze intende a svilupparsi da lui, e con la manca mano gli [p. 42 modifica]squarcia il naso, con l’altra gli pela la folta barba; e sonovi intorno a costoro tre fanciulli ignudi, e pieni di vivacità mirabile, de’ quali l’uno con tutto il suo podere si sforza di torre a Priapo la falce di mano, aprendogli puerilmente ad uno ad uno le rustiche dita; l’altro con rabbiosi denti mordendogli la irsuta gamba, fa segnale al compagno, che gli porga aita; il quale intento a fare una sua picciola gabbia di paglia e di giunchi, forse per rinchiudervi i cantanti grilli, non si muove dal suo lavoro per ajutarlo; di che il libidinoso Iddio poco curandosi, più si ristringe seco la belissima Ninfa, disposto totalmente di menare a line il suo proponimento: ed è questo mio vaso di fuori circondato d’ogn’intorno d’una ghirlanda di verde pimpinella, legata con un brieve, che contiene queste parole:

Da tal radice nasce
Chi del mio mal si pasce.

E giuroti per le Deità de’ sacri fonti, che giammai le mie labbra nol toccarono, ma senpre l’ho guardato nettissimo nella mia tasca dall’ora, che per una capra e due grandi fiscelle di premuto latte il comperai da un navigante, che nei nostri boschi venne da lontani paesi. Allor Selvaggio, che in ciò giudice era stato eletto, non volle che pegni si ponessero, dicendo, che assai sarebbe, se ’l vincitore n’avesse la lode, e ’l vinto la vergogna: e così detto, fa cenno ad Ofelia, che sonasse la sampogna, comandando a Logisto che cominciasse, e ad Elpino che alternando a vicenda rispondesse; per la qual cosa appena il suono fu sentito, che Logisto con cotali parole il seguitò. [p. 43 modifica]


ANNOTAZIONI

alla Prosa Quarta.


Senza avvedersene ella ec. Questo passo senza dubbio fu imitato dal Tasso nell’Atto II. Scena 2 dell’Aminta, con non minore verità e leggiadria.


Ma mentre ella s’ornava, e vagheggiava,
Rivolse gli occhi a caso, e si fu accorta,
Ch’io di lei m’era accorta, e vergognando
Rizzossi tosto, e i fior lasciò cadere.


Siccome Najade, o Napee. Gli antichi aveano riempiuto di divinità il mondo non che il cielo. Fra le divinità dunque di quaggiù le Najadi abitavan ne’ fiumi, le Nappe ne’ fonti, le Driadi ne’ boschi, l’Amadriadi negli alberi, l’Oreadi ne’ monti, l’Innide ne’ prati.

Piacque di voler udire Logisto ed Elpino ec. Qui il Sanazzaro ha imitato o Virgilio nell’Egl. vii.


Forte sub arguta consederat ilice Daphnis;
Compulerantque greges Corydon et Thyrsis in unum;
Thyrsis oves, Corydon distentas lacte capellas,
Ambo florentes aetatibus; Arcades ambo;
Et cantare pares, et respondere parati.


o Teocrito nell’Idilio vi.


Dameta un giorno ed il bifolco Dafni,
Arato mio, guidato a un luogo stesso
Avean l’armento. Un era biondo, e l’altre
Allora allora le rosate guancie
Di tenera lanugine vestìa.
Sul margine d’un fonte ambo sdrajati,
Mentre più ardenti il sol vibrava i rai,
Ambo così sciolser la voce al canto.


Il mio domestico cervo ec. Tutto il restante di questa Prosa è fatto ad imitazione dell’Egloga iii. di Virgilio, o dirò meglio ancora dell’Idilio i. di Teocrito.