Arcadia (Sannazaro)/Egloga VI

Egloga VI

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Prosa VI Prosa VII
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EGLOGA SESTA.

serrano ed opico.


Serrano.

Quantunque, Opico mio, sii vecchio e carico
Di senno e di pensier che ’n te si covano,
Deh piangi or meco, e prendi il mio rammarico.
Nel mondo oggi gli amici non si trovano:
La fede è morta, e regnano le ’nvidie;
E i mai costumi ognor più si rinnovano.
Regnan le voglie prave e le perfidie
Per la roba mal nata che gli stimula,
Tal che ’l figliuolo al padre par che insidie.
Tal ride del mio ben, che ’l riso simula;
Tal piange del mio mal, che poi mi lacera
Dietro le spalle con acuta limula.

Opico.

L’invidia, figliuol mio, se stessa macera,
E si dilegua come agnel per fascino,
Che non gli giova ombra di pino o d’acera.

Serrano.

II pur dirò, così gli Dii mi lascino
Veder vendetta di chi tanto affondami,
Prima che i mietitor le biade affascino:
E per l’ira sfogar ch’al core abbondami,
Così ’l veggia cader d’un olmo, e frangasi,
Tal ch’io di gioja e di pietà confondami.
Tu sai la via che per le piogge affangasi:
Ivi s’ascose, quando a casa andavamo,
Quel che tal viva, che lui stesso piangasi.
Nessun vi riguardò perchè cantavamo;
Ma innanzi cena venne un pastor subito
Al nostro albergo quando al foco stavamo,

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E disse a me: Serran, vedi ch’io dubito,
Che tue capre sian tutte; ond’io per correre
Ne caddi sì, ch’ancor mi dole il cubito.
Deh se qui fosse alcuno a cui ricorrere
Per giustizia potessi! or che giustizia?
Sol Dio sel veda che ne può soccorrere.
Due capre e duo capretti per malizia
Quel ladro traditor dal gregge tolsemi;
Sì signoreggia al mondo l’avarizia.
Io gliel direi; ma chi mel disse volsemi
Legar per giuramento; ond’esser mutolo
Convienimi: e pensa tu, se questo duolsemi.
Del furto si vantò poi ch’ebbe avutolo;
Che sputando tre volte fu invisibile
Agli occhi nostri; ond’io saggio riputolo.
Che se ’l vedea, di certo era impossibile
Uscir vivo da’ cani irati e calidi,
Ove non val che l’uom richiami o sibile.
Erbe e pietre mostrose e sughi palidi,
Ossa di morti, e di sepolcri polvere,
Magici versi assai possenti e validi
Portava indosso, che ’l facean risolvere
In vento in acqua in picciol rubo o felice;
Tanto si può per arte il mondo involvere.

Opico.

Quest’è Protéo, che di cipresso in elice,
E di serpente in tigre trasformavasi,
E feasi or bove or capra or fiume or selice.

Serrano.

Or vedi, Opico mio, se ’l mondo aggravasi
Di male in peggio; e deiti pur compiangere
Pensando al tempo buon che ognor depravasi.

Opico.

Quand’io appena incominciava a tangere

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Da terra i primi rami, ed addestravami
Con l’asinel portando il grano a frangere;
Il vecchio padre mio che tanto amavami,
Sovente all’ombra degli opachi suberi
Con amiche parole a se chiamavami:
E, come fassi a quei che sono impuberi,
Il gregge m’insegnava di conducere,
E di tosar le lane, e munger gli uberi.
Tal volta nel parlar soleva inducere
I tempi antichi, quando i buoi parlavano,
Che ’l ciel più grazie allor solea producere.
Allor i sommi Dii non si sdegnavano
Menar le pecorelle in selva a pascere;
E, com’or noi facemo, essi cantavano.
Non si potea l’un uom ver l’altro irascere:
I campi eran comuni, e senza termini;
E Copia i frutti suoi sempre fea nascere.
Non era ferro, il qual par ch’oggi termini
L’umana vita; e non eran zizzanie,
Oud’avvien ch’ogni guerra e mal si germini.
Non si vedean queste rabbiose insanie;
Le genti litigar non si sentivano,
Per che convien che ’l mondo or si dilanie.
I vecchi quando alfin più non uscivano
Per boschi, o si prendean la morte intrepidi,
O con erbe incantate ingiovanivano.
Non foschi o freddi, ma lucenti e tepidi
Erano i giorni; e non s’udivan ulule,
Ma vaghi uccelli dilettosi e lepidi.
La terra che dal fondo par che pulule
Atri aconiti, e piante aspre e mortifere,
Ond’oggi avvien che ciascun pianga ed ulule;
Era allor piena d’erbe salutifere,
E di balsamo e ’ncenso lacrimevole,
Di mirre preziose ed odorifere.

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Ciascun mangiava all’ombra dilettevole
Or latte e ghiande, ed or ginepri e morole.
O dolce tempo, o vita sollazzevole!
Pensando all’opre lor, non solo onorole
Con le parole; ancor con la memoria
Chinato a terra come sante adorole.
Ov’è il valore, ov’è l’antica gloria?
U’ son or quelle genti? oimè son cenere,
Delle quai grida ogni famosa istoria.
I lieti amanti, e le fanciulle tenere
Givan di prato in prato rammentandosi
Il foco e l’arco del figiuol di Venere.
Non era gelosia, ma sollazzandosi
Movean i dolci balli a suon di cetera,
E ’n guisa di colombi ognor baciandosi.
O pura fede, o dolce usanza vetera!
Or conosco ben io che ’l mondo instabile
Tanto peggiora più, quanto più invetera.
Tal che ogni volta, o dolce amico affabile,
Ch’io vi ripenso, sento il cor dividere
Di piaga avvelenata ed incurabile.

Serrano.

Deh, per Dio, non mel dir, deh non mi uccidere:
Che s’io mostrassi quel ch’ho dentro l’anima,
Farei con le sue selve i monti stridere.
Tacer vorrei; ma il gran dolor m’inanima
Ch’ io tel pur dica: or sai tu quel Lacinio?
Oimè, ch’a nominarlo il cor si esanima.
Quel che la notte veglia, e ’l gallicinio
Gli è primo sonno, e tutti Cacco il chiamano,
Perocchè vive sol di latrocinio.

Opico.

Oh oh, quel Cacco! o quanti Cacchi bramano
Per questo bosco! ancor che i saggi dicano,
Che per un falso mille buon s’infamano.

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Serrano.

Quanti nell’altrui sangue si nutricano!
I’ ’l so, che ’l pruovo, e col mio danno intendolo,
Tal che i miei cani indarno s’affaticano.

Opico.

Ed io per quel che veggio ancor comprendolo,
Che son pur vecchio, ed ho curvati gli omeri
In comprar senno, e pur ancor non vendolo.
O quanti intorno a queste selve nomeri
Pastori in vista buon, che tutti furano
Rastri zappe sampogne aratri e vomeri!
D’oltraggio o di vergogna oggi non curano
Questi compagni del rapace gracculo:
In sì malvagia vita i cuori indurano,
Pur ch’abbian le man piene all’altrui sacculo.


ANNOTAZIONI

all’Egloga Sesta.


L’invidia, figliuol mio, se stessa macera. Periandro diceva; Come la ruggine rode il ferro, così l’invidia consuma l’ anima di colui, nel quale ella si trova. Onde Orazio nell’Ep. 2 del Lib. i.


Invidus alierius rebus macrescit opimis;
Invidia Siculi non invenere tyranni
Majus tormentum.


Tutta quest’Egloga, dova si descrive l’innocenza de’ tempi antichi, e la malizia che a quella è subentrata, è veramente bella.

Sputando tre volte fu invisibile ec. Fra i moltissimi effetti, in parte veri, e in parte falsi che lo sputo produce, e che Plinio riferisce nel Cap. 4 del Lib. xxviii. nella St. Nat., non trovo accennato questo di rendere invisibile alcuno; ma certamente il Sanazzaio avrà ciò detto, dietro qualche superstiziosa opinione o popolare, o tratta da que’ tanti libri di sortilegi, che un tempo erano con grandissima avidità ricercati. Dal che ben si capisce, che la parola saggio qui usata equivale a mago, stregone, e simili. [p. 69 modifica]

Erbe e pietre mostrose ec. Chi amasse vedere quanto ne’ tempi andati si credesse all’attività di queste cose, legga il libro Magie nalurelle et cabalistique du Petit Albert, ove troverà abbondanti segreti di farsi amare, di rendersi invisibile, di cambiar i metalli men nobili ne’ più nobili ec. ec. Sembra che tali fattucchierie siano state credute più a lungo in Francia ed in Germania, che in Italia. Di fatto quando i nostri Poeti non ebbero duopo di magie, o pel meraviglioso de’ loro poemi, o per particolazzare il carattere di genti rozze, come qui fa il Sanazzaro, ben volentieri se ne rideano. Serva di prova la seguente Stanza del Navagero:


Udito ho dir che gran virtù, si trova
Nelle parole, nell’erbe e ne’ sassi.
Provato ho le parole, e non mi giova,
Perduto ho le parole, il tempo, e i passi.
Deliberato io son di far la prova
D’un’insalata quando tu ci passi:
Se non mi gioverà quest’insalata,
Io giuro a Dio di darti una sassata.


Quest’è Protéo, cioè questi è simile a Proteo che ec. Proteo, Dio marino, che si cangiava in varie forme, e che da vertendo fu detto anche Vertunno. Egli fu creduto indovino; ma chi voleva sapere da lui le future cose, era mestieri cha lo legasse, perchè non isfuggisse. Quindi Ovidio nel Lib. i. de’ Fasti:


Decipiat ne te versis tamen ille figuris,
Impediant geminas vincula firma manus.


Copia, Dea dell’ubertà e dell’abbondanza, che si suolo dipingere con un corno, di cui escano fuori frutti d’ogni genere che la terra produce. Orazio nell’Od. xvii. del Lib. i.


. . . . . . Hinc tibi copia
Manabit ad plenum benigno
Ruris honorum opulenta cornu.


Aconiti, plurale di aconito. Questa voce significa in ispezie quell’erba velenosa che oggi è detta elleboro nero; ma significa anche in genere qualunque erba velenosa. Secondo le favole chi disse che l’aconito divenne velenosa perchè fu tocca dalla nera spuma del Cerbero strascinato fuori dell’inferno da Ercole quando v’andò per liberare Alceste, chi la imaginò velenosa fin da principio, essendo nata dal sangue di Prometeo legato sul monte Caucaso.

E in guisa di colombi ognor baciandosi. Non posso [p. 70 modifica]rattenermi dal riferire alcuni versi dell’Epigr. a Nina dello stesso Sanazzaro, in cui con Catulliana dilicatezza fa pur menzione del baciarsi delle colombe:


Nolo mormora muta, nolo pictos
Dearum, Nina, basiare vultus:
Sed totam cupio tenere linguam,
Insertum humidulis meis labellis;
Hanc et sugere; morsiunculasque
Molles adjicere; et columbulorum
In morem, teneros inire lusus,
Ac blandum simul excitare murmur.


E tutti Cacco il chiamano. Lacinio è qui chiamato Cacco, perchè si vuol dire dal pastor Serrano, che colui si vivea di ladronecci, non meno che il mostro Cacco, che colle sue ruberie infestò tutta la campagna di Roma, e venne da ultimo ucciso per mano d’Ercole.