Arcadia (Sannazaro)/Prosa VII
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ARGOMENTO
Domandato il Sanazzaro da Carino pastore dell’essere suo, risponde, e tratta in parte della sua nobiltà e casata: e poi nel resto si diffonde in raccontare il suo amore, e in che modo per la crudeltà della sua donna egli in gioventù si trovasse fuor di Napoli.
prosa settima.
Venuto Opico alla fine del suo cantare non senza gran diletto da tutta la brigata ascoltato, Carino piacevolmente a me voltatosi, mi domandò, chi, e d’onde io era, e per qual cagione in Arcadia dimorava; al quale io dopo un gran sospiro, quasi da necessità costretto, così risposi: Non posso, grazioso pastore, senza noja grandissima, ricordarmi de’ passati tempi; li quali, avvegna che per me poco lieti dir si possano, nientedimeno avendoli a raccontare ora che in maggior molestia mi trovo, mi saranno accrescimento di pena, e quasi uno inacerbire di dolore alla mal saldata piaga, che naturalmente rifugge di farsi spesso toccare; ma perchè lo sfogare con parole ai miseri suole alie volte essere alleviamento di peso, il dirò pure. Napoli, siccome ciascuno di voi molte volte può avere udito, è nella più fruttifera e dilettevole parte d’Italia, al lito del mare posta, famosa e nobilissima città, e di arme e di lettere felice, forse quant’alcun’altra, che al Mondo ne sia; la quale da’ popoli di Calcidia venuti, sovra le vetuste ceneri della Sirena Partenope edificata, prese ed ancora ritiene il venerando nome della sepolta giovane. In quella dunque nacqui io, ove non da oscuro sangue, ma, se dirlo non mi si disconviene, secondo che per le più celebri parti di essa città le insegne de’ miei predecessori chiaramente dimostrano, da antichissima e generosa prosapia disceso, era tra gli altri miei coetanei giovani forse non il minimo riputato: e lo avolo del mio padre dalla Cisalpina Gallia, benchè, se a’ principj si riguarda, dalla estrema Ispagna prendendo origine, nei quali duo luoghi ancor oggi le reliquie della mia famiglia fioriscono, fu oltra alla nobiltà de’ maggiori per suoi propri gesti notabilissimo. Il quale capo di molta gente con la laudevole impresa del Terzo Carlo nell’Ausonico Regno venendo, meritò per sua virtù di possedere la antica Sinuessa con gran parte de’ campi Falerni, e i monti Massici, insieme con la picciola terra sovraposta al lito, ove il turbolento Volturno prorompe nel mare, e Linterno, benchè solitario, nientedimeno famoso per la memoria delle sacrate ceneri del divino Africano; senza che nella fertile Lucania avea solto onoralo titolo molle terre e castella, delle quali solo avrebbe potuto, secondo che alla sua condizione si richiedeva, vivere abbondantissimamente. Ma la fortuna via più liberale in donare, che sollicita in conservare le mondane prosperità, volle che in discorso di tempo, morto il Re Carlo, e ’l suo legittimo successore Lanzilao, rimanesse il vedovo Regno in man di femmina. La quale dalla naturale incostanza e mobilità di animo incitata, agli altri suoi pessimi fatti questo aggiunse, che coloro, i quali erano stati e dal padre, e dal fratello con sommo onore magnificati, ella esterminando ed umiliando annullò, e quasi ad estrema perdizione ricondusse. Oltra di ciò quante, e quali fossero le necessitadi, e gli infortunj, che lo avolo e ’l padre mio soffersero, lungo sarebbe a raccontare. Vengo a me adunque, il quale in quelli estremi anni, che la recolenda memoria del vittorioso Re Alfonso di Aragona passò dalle cose mortali a più tranquilli secoli, sotto infelice prodigio di comete, di terremoto, di pestilenzia, di sanguinose battaglie nato, ed in povertà, ovvero, secondo i savj, in modesta fortuna nudrito, siccome la mia stella e i fati vollero, appena avea otto anni forniti, che le forze di Amore a sentire incominciai, e della vaghezza di una picciola fanciulla, ma bella e leggiadra più che altra che vedere mi paresse giammai, e da alto sangue discesa, innamorato, con più diligenzia, che ai puerili anni non si conviene, questo mio desiderio teneva occulto. Per la qual cosa colei, senza punto di ciò avvedersi, fanciullescamente meco giuocando, di giorno in giorno, di ora in ora più con le sue eccessive bellezze le mie tenere midolle accendeva; intanto che con gli anni crescendo lo amore, in più adulta età, ed alli caldi desii più inclinata pervenimmo. Nè per tutto ciò la solita conversazione cessando, anzi quella ognor più domesticamente ristringendosi, mi era di maggiore noja cagione. Perchè parendomi l’amore, la benivolenza, e l’affezione grandissima da lei portatami non essere a quel fine, che io avrei desiderato; e conoscendo me avere altro nel petto, che di fuori mostrare non mi bisognava; nè avendo ancora ardire di discoprirmele in cosa alcuna, per non perdere in un punto quel, che in molti anni mi parea avere con industriosa fatica racquistato; in sì fiera malinconia e dolore intrai, che ’l consueto cibo, e ’l sonno perdendone, più ad ombra di morte, che ad uom vivo assomigliava. Della qual cosa molte volte da lei domandato qual fosse la cagione, altro che un sospiro ardentissimo in risposta non rendea. E quantunque nel letticciuolo della mia cameretta molte cose nella memoria mi proponessi di dirle, nientedimeno, quando in sua presenza era, impallidiva, tremava, e diveniva mutolo; in maniera che a molti forse, che ciò vedeano, diedi cagione di sospettare. Ma ella, o che per innata bontà non se ne avvedesse giammai, o che fosse di sì freddo petto, che amore non potesse ricevere, o forse, quel che più credibile è, che fosse sì savia, che migliore di me sel sapesse nascondere, in atti ed in parole sovra di ciò semplicissima mi si mostrava. Per la qual cosa io nè di amarla mi sapea distraere, nè dimorare in sì misera vita mi giovava. Dunque per ultimo rimedio di più non stare in vita deliberai; e pensando meco del modo, varie e strane condizioni di morte andai esaminando: e veramente o con laccio, o con veleno, ovvero con la tagliente spada avrei finiti li miei tristi giorni, se la dolente anima da non so che viltà sovrapresa non fosse divenuta timida di quel, che più desiderava. Tal che, rivolto il fiero proponimento in più regolato consiglio, presi per partito di abbandonare Napoli, e le paterne case, credendo forse di lasciare amore e i pensieri insieme con quelle; ma, lasso, che molto altrimenti, ch’io non avvisava, mi avvenne; perocchè se allora, veggendo, e parlando sovente a colei, ch’io tanto amo, mi riputava infelice, sol pensando che la cagione del mio penare a lei non era nota; ora mi posso giustamente sovra ogni altro chiamare infelicissimo, trovandomi per tanta distanza di paese assente da lei, e forse senza speranza di rivederla giammai, nè di udirne novella, che per me salutifera sia: massimamente ricordandomi in questa fervida adolescenza de’ piaceri della deliziosa patria, tra queste solitudini di Arcadia, ove, con vostra pace il dirò, non che i giovani nelle nobili città nudriti, ma appena mi si lascia credere che le salvatiche bestie vi possano con diletto dimorare: e se a me non fosse altra tribulazione, che l’ansietà della mente, la quale me continuamente tiene sospeso a diverse cose, per lo fervente desìo ch’io ho di rivederla, non potendolami nè notte nè giorno, quale sia fatta, riformare nella memoria, si sarebbe ella grandissima. Io non veggio nè monte, nè selva alcuna, che tuttavia non mi persuada di doverlavi ritrovare, quantunque a pensarlo mi paja impossibile. Niuna fiera, nè uccello, nè ramo vi sento movere, ch’io non mi giri paventoso per mirare se fosse dessa in queste parti venuta ad intendere la misera vita, ch’io sostegno per lei: similmente niun’altra cosa veder vi posso, che prima non mi sia cagione di rimembrarmi con più fervore e sollicitudine di lei; e mi pare, che le concave grotte, i fonti, le valli, i monti, con tutte le selve la chiamino, e gli alti arbusti risonino sempre il nome di lei. Tra i quali alcuna volta trovandomi io, e mirando i fronzuti olmi circondati dalle pampinose viti, mi corre amaramente nell’animo con angoscia incomparabile, quanto sia lo stato mio difforme da quello degl’insensati alberi, i quali dalle care viti amati dimorano continuamente con quelle in graziosi abbracciari; ed io per tanto spazio di cielo, per tanta longinquità di terra, per tanti seni di mare, dal mio desio dilungato, in continuo dolore e lacrime mi consumo. O quante volte e’ mi ricorda, che vedendo per li soli boschi gli affettuosi colombi con soave mormorio baciarsi, e poi andare desiderosi cercando lo amato nido, quasi da invidia vinto ne piansi, cotali parole dicendo: O felici voi, ai quali senza sospetto alcuno di gelosia è concesso dormire, e vegghiare con sicura pace! Lungo sia il vostro diletto, lunghi siano i vostri amori: acciocchè io solo di dolore spettacolo possa a’ viventi rimanere. Egli interviene ancora spesse fiate, che guardando io, siccome per usanza ho preso in queste vostre selve, i vagabondi armenti, veggio tra i fertili campi alcun loro magrissimo appena con le deboli ossa sostenere la secca pelle, il quale veramente senza fatica e dolore inestimabile non posso mirare, pensando, un medesimo amore essere a me ed a lui cagione di penosa vita. Oltra a queste cose mi sovviene, che fuggendo talora io dal consorzio de’ pastori, per poter meglio nelle solitudini pensare a’ miei mali, ho veduto la innamorata vaccarella andare sola per le alte selve muggendo, e cercando il giovane giovenco, e poi stanca gittarsi alla riva di alcun fiume, dimenticata di pascere, e di dar luogo alle tenebre della oscura notte: la qual cosa quanto sia a me, che simile vita sostegno, nojosa a riguardare, colui solamente sel può pensare, che lo ha pruovato, o pruova. Egli mi viene una tristezza di mente incurabile, cou una compassione grandissima di me stesso, mossa dalle intime midolle, la quale non mi lascia pelo veruno nella persona, che non mi si arricci; e per le raffreddate estremità mi si muove un sudore angoscioso, con un palpitare di cuore sì forte, che veramente s’io nol desiderassi, temerei che la dolente anima se ne volesse di fuori uscire. Ma che più mi prolungo io in raccontar quello, che a ciascuno può essere manifesto? lo non mi sento giammai da alcun di voi nominare Sanazzaro, quantunque cognome a’ miei predecessori onorevole stato sia, che, ricordandomi da lei essere stato per addietro chiamato Sincero, non mi sia cagione di sospirare; nè odo mai suono di rampogna alcuna, nè voce di qualunque pastore, che gli occhi miei non versino amare lacrime; tornandomi alla memoria i lieti tempi, ne’ quali io le mie rime, e i versi allora fatti cantando, mi udia da lei sommamente commendare: e per non andare ogni mia pena puntalmente raccontando, niuna cosa m’aggrada, nulla festa nè giuoco mi può non dico accrescere di letizia, ma scemare delle miserie: alle quali io prego qualunque Iddio esaudisce le voci de’ dolorosi, che o con presta morte, o con prospero succedimento ponga line. Rispose allora Carino al mio lungo parlare: Gravi sono i tuoi dolori, Sincero mio, e veramente da non senza compassione grandissima ascoltarsi: ma dimmi, se gli Dii nelle braccia ti rechino della desiata donna, quali furo a quelle rime, che non molto tempo è ti udii cantare nella pura notte? delle quali, se le parole non mi fossero uscite di mente, del modo mi ricorderei: e io in guidardone ti donerò questa sampogna di sambuco, la quale io con le mie mani colsi tra monti asprissimi, e dalle nostre ville lontani, ove non credo, che voce giammai pervenisse di mattutino gallo, che di suono privata l’avesse: con la quale spero che, se dalli fati non ti è tolto, con più alto stile canterai gli amori di Fauni e di Ninfe nei futuro: e siccome insino qui i principj della tua adolescenza hai tra semplici e boscherecci cauti di pastori infruttuosamente dispersi, così per lo innanzi la felice giovenezza tra sonore trombe di poeti chiarissimi del tuo secolo non senza speranza di eterna fama trapasserai; e questo detto si tacque; ed io l’usala lira sonando così cominciai.
ANNOTAZIONI
alla Prosa Settima.
Napoli . . . . la quale da’ popoli di Calcidia venuti ec. Le tre Sirene, Partenope, Ligia e Leucosia, figliuole del fiume Acheloo, e della Ninfa Calliope, non avendo potuto colla dolcezza del loro canto trarre a se Ulisse, pel dolore si gettarono in mare. Partenope fu poi portata, dove si edificò Napoli, che prima venne chiamata Partenope, dai Calcidici, ch’erano di Negroponte, città principale dell’isola Eubea. I Cumani, distrussero Partenope, e per consiglio dell’oracolo d’Apollo, la riedificarono più splendidamente di prima, chiamandola Neapolis, cioè nuova città.
Del Terzo Carlo ec. Questi è Carlo detto il Pacifico, Principe di Durazzo, che fu mandato da Lodovico re di Ungaria ad istanza di Urbano VI. ad impadronirsi del regno di Napoli, il quale esacerbato pel favore, che la regina Giovanna di Napoli accordava all’Anti-Papa Franzese Clemente VII., voleva vendicarsene sotto pretesto di vendicare la morte di Andreasso, fratello di Lodovico, e marito di Giovanna, fatto da lei strangolare per mano di quelli co’ quali teneva un vituperevole commercio. Carlo condusse a buon termine la sua impresa, poichè di fatto mise in rotta l’armata di Giovanna, comandata da Ottone, Duca di Brunsvico, s’impadronì di Napoli, e ne fu incoronato Re: egli poco dopo s’incoronò anche Re di Ungaria; tanto ebbe prospera la sorte nel corso di pochi anni; ma da ultimo fu assassinato in una festa da ballo.
L’antica Sinaessa, città della Campania, oggi detta Sessa.
Linterno, oggi castello quesi del tutto rovinato fra il Volturno e Cuma, presso il mare. Ivi si ritirò vcipione l’Africano per vivere in quiete dopo le sue militari fatiche e per fuggire l’invidia de’ maligni.
Lanzilao, o Ladislao, figliuolo di Carlo III., del quale abbiamo parlato sopra. Egli fu non meno di suo padre re di Napoli, e quindi anche re di Ungaria. I Fiorentini, a cui Ladislao voleva muover guerra, temendo le sue forze, con grossa somma di danaro corruppero un medico, una figlia del quale era da quel re amatissima, affinchè lo avvelenasse. Il medico diede alla figlia un unguento, assicurandola che se con esso ella ungesse le parti naturali, il re avrebbe continuato ad amarla sino alla morte. Così Ladislao avendo con lei giaciuto, fu con lei medesima avvelenato, e morì poco tempo dopo.
In man di femmina ec. Questa è Giovanna II., la quale succedette a Ladislao, suo fratello, nel regno di Napoli. La vita di questa regina è delle più curiose che mai si possan leggere per la sua incostanza, e nel tempo stesso per la somma sua accortezza e forza d’animo ne’ pericoli più gravi.
Alfonso Re di Aragona. Martino V. avea privato Giovanna II. del regno di Napoli, ed ella per avere un sicuro appoggio chiamò Alfonso di Aragona, uomo di molto valore, e l’adottò per suo figliuolo. Questi occupò tutto il regno, e lasciollo a’ suoi discendenti.
Fra queste solitudini d’Arcadia, ove, con vostra pace il dirò, ec. Qui è certo che il Sanazzaro intende di parlare della Francia. Non istupiamoci però, se così male ne parla. Egli la viaggiò in tempo delle sue afflizioni, e dimorò in una delle sue men culte provincie. D’altronde allora particolarmente erano ancor bambine e debili le lettere in Francia, e già adulte e vigorose in Italia; nè mai qualunque parte della Francia potrà offrire agli occhi de’ riguardanti le delizie e le amenità dell’Italia, e massime di quella parte a cui anelava il Sanazzaro. Circa l’anzianità e preminenza delle lettere Italiane sovra le Franzesi, senz’estenderci di soverchio, basti il dire, che nelle sole Poesie Pastorali, tutti i Letterati leggono ancora con frutto e con piacere le Egloghe Latine del Pontano, del Sanazzaro e di altri di que’ tempi, non che quest’Arcadia, che abbiamo fra le mani; ma nissuno nè pure dei Franzesi legge un Remigio Belleau, quantunque essendo posteriore al Sanazzaro, abbia preso a questo le migliori cose, di cui, come di bellissimi fiori, ha sparso le sue Pastorali Giornate. Chi poi dubitasse, che più vago e più istruttivo sia il soggiorno in Italia, che in Francia, interroghi gli Artisti, gli Antiquarj, i Naturalisti, se generalmente parlando più in Francia che in Italia incontrino ubertà di suolo, varietà di vedute pittoresche, maraviglie di naturali fenomeni, maestà di antiche e moderne fabbriche, sublimità e bellezza di sculture e di pitture, tutto ciò insomma, che può lusingare l’uomo che ama il diletto, le scienze, le arti.