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bella contò le sue passioni, colla confidenza che ispirano le anime semplici, provando nel togliere i pesi dal cuore un primo sollievo.

— Vorrei scrivere una lettera a mio zio Demetrio.

— Sulla scrivania di Ferruccio c’è carta e penna. Venga con me.

Passarono insieme nello stanzino sulla punta dei piedi; e si accostarono al letto. Arabella pose una mano sulla mano dell’infermo assopito e stette un minuto ad ascoltare il battito dei polsi. Ferruccio aperse un pochino gli occhi. Siccome veniva fuori da una selva di sogni fitti, di vaneggiamenti e di stravaganti deliri, stentò a ritrovarsi, a ricordare a distinguere il vero dalle ombre. Nel pesante sopore in cui più d’una volta vide suo padre accapigliarsi col sor Tognino, gli era parso di udire la voce della zia Colomba mescolata ad altri rumori che lo menavano lontano, ai giorni della sua fanciullezza, tra i compagni di stamperia tra i chierici del seminario, tra le più remote e abbandonate sensazioni della sua vita oscura e modesta.

— Ho sete — balbettò sbarrando gli occhi.

Non ben desto, gli parve di vedere la signora Arabella attingere dell’acqua a una fontana che scaturiva lì presso, nella luce abbagliante d’una lucerna, e curvarsi verso di lui a refrigerargli la bocca e la fronte abbruciata. Capì ch’eran sogni di febbre e voltò il capo con espressione dolente, chiudendo di nuovo gli occhi.

— È meno arso di stamattina — disse sottovoce la donna.

— L’occhio lo trovo limpido.

— Ora non delira più, ma ieri faceva pietà. Ha nominato anche lei.