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tappetino. Arabella, riconosciuta la voce del malato, si alzò, pose la lucernetta sul cassettone e si mosse a dargli da bere. Ferruccio s’era un poco levato sul cuscino per togliersi il sacchetto del ghiaccio, che gli scivolava dietro il collo. Vedendo venire verso di lui la signora Arabella, socchiuse gli occhi e dondolò un poco la testa, come chi si accorge di vaneggiare sempre e mostra di compiangere sè stesso.

Arabella versò dell’acqua nella tazza e l’accostò alla bocca del malato, che riaprì gli occhi e bevette quasi fino al fondo.

— Come si sente?

Il giovine fissò gli occhi in faccia alla sua visione e interrogò ancora una volta colla pupilla immobile:

— È proprio lei? — balbettò.

— Vuol bere ancora?

— No, no... — disse Ferruccio, senza mai distaccare gli occhi dalla sua visione.

— Vuol ancora il ghiaccio sulla testa?

— No, no... E allungò la mano per prendere quella del suo fantasma.

Sentì veramente una mano viva e calda. E, come se da quel calore irradiasse la vita, la faccia dell’infermo arrossì, la pupilla si illuminò, e dopo aver chiusi gli occhi per sottrarsi a un acuto tormento, li riaprì velati di lagrime.

— Perchè è qui? — interrogò sommessamente.

— Lo saprà: ora stia tranquillo e lasci riposare la povera zia.

Ferruccio si tirò sotto obbediente. Non era ben sicuro che non fosse un sogno.