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presso la famosa fontana asciutta, quel malumore concentrato nel fegato scoppiò in una parola sonora, che riassumeva nella sua concisione tutto un trattato di filosofia politica:

— Buffoni!

Non gli riuscì di dir altro fino alla stazione, dove cercò di far passare il dispetto con un buon pranzo e con una bella bottiglia di vin di Valtellina. — Che buffoni!

La villa di Tremezzo gli aveva fatto una buona impressione. Non troppo alla riva, si appoggiava da una parte a un declivio molle e boscoso, dall’altra aprivasi con un terrazzo sul meraviglioso bacino di Bellagio, passando oltre colla vista sino a Varenna e più in su: un pezzo di cielo in terra. Era il luogo fatto apposta per sua nuora. Col lago di mezzo non c’era più pericolo che una masnada di mummie venissero a tormentarla. Quanti fiori in quella villa! Sua nuora era così innamorata dei fiori!... Si pentì di non averne portato via un mazzo; ma voleva scrivere al Botola che ne mandasse un cesto a Milano.

— Che razza di buffoni!

Scrisse una cartolina, la buttò egli stesso nella buca, e rinforzato da un buon pranzetto, dato un bell’addio alla mezza eccellenza, si rincantucciò nell’angolo del vagone. Cominciava a imbrunire. Il sole colorava ancor le cime più alte, ma verso occidente andavano spandendosi per il cielo delle lunghe nuvole cenericcie e stracciate, che il vento portava in su, gonfiandole come se ci soffiasse dentro.

Dopo qualche tempo la grossa nuvolaglia si raccolse in un nuvolone solo, livido e grosso, nel quale il lampo cominciò a dibattersi col moto nervoso di