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giando, fischiando sotto i primi goccioloni del temporale.

Ci volle tutta la carità, di cui è pieno il libro del breviario che gli faceva gonfia la veste sul petto, perchè don Giosuè si trattenesse dal gridare sul muso del vecchio affarista:

— Ladro maledetto, ti porterà via Belzebù! — «Ci vuol altro — pensava infuriando con sè stesso il canonico — ci vuol altro che predicare pace, conciliazione, misericordia, come seguita a ripetere quell’anima di polentina di don Felice. In questi tempi di affarismo, di ebraismo, di massonismo trionfante, bastoni di ferro bisogna! l’acqua santa non spegne più nemmeno la polvere delle strade. A furia di piagnistei e di fiducia nella Provvidenza ha visto il Papa quel che gli è toccato. Bastoni di ferro! trentamila cani còrsi ci vorrebbero.... a.... a.... Animali!

Dall’altro cantuccio scoppiavano idee non meno velenose contro gl’intriganti, che speculano sui rintocchi delle agonie, sulle goccie di cera, pipistrelli dell’oscurantismo, mummie tenute su dall’ignoranza dei gonzi....

L’ufficialetto sognava, col sigaro morto in bocca.

Il treno entrò in stazione. Il giovinotto fu il primo a scappar via. Gli tenne dietro il signor Tognino che, colla mano attaccata allo sportello, s’indugiò un istante come se aspettasse il prete: e quando questi gli fu presso, l’affarista sputò sul predellino.

— C’è del marcio... — ringhiò don Giosuè.

La folla li travolse e li separò, mentre l’acquazzone rovesciavasi, crescendo, sulla volta di vetro.

Il sor Tognino prese una vettura e prima di andare a casa volle vedere il notaio, col quale rimase fin verso le nove.