Amleto (Rusconi)/Atto terzo/Scena II
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SCENA II.
Una stanza della reggia.
Entra Amleto con alcuni Commedianti.
- AMLETO.
- Proferite, ve ne prego, il discorso come io lo proferii con voi, con lingua scorrevole; se doveste declamarlo con enfasi, come fanno tanti dei vostri colleghi, preferirei di averlo affidato al banditore della città. E non trinciate di troppo l’aria colla mano, ma sia gentile il vostro gesto, perocché anche nel più grand'impeto, nella furia e (direi) nel turbine della passione, dovete avere una temperanza che ne rintuzzi l’asprezza. Oh nulla m’indispone di più l’anima quanto íl vedere un atleta in parrucca che straccia una passione a brani, che la fa proprio in cenci, e introna gli orecchi degli spettatori, a cui per la maggior parte non talentano che le assurde pantomime e il baccano. Farei frustare questi Termaganti1 ampollosi, che vincono in furia anche Erode; ve ne prego, evitate ciò.
- PRIMO COMMEDIANTE.
- Lo prometto, principe
- AMLETO.
- Nè siate tampoco freddo, e il senno vi guidi conformate l'azione alla parola, la parola all'azione; e abbiate questa speciale avvertenza di non varcar mai i limiti del naturale, perocchè tutto quello che va al di la di esso ei distoglie dall'intento della scena, che fu sempre, ed è tuttavia quello di riflettere la natura come in uno specchio, di mostrare alla virtù i suoi veri sembianti, al vizio la sua immagine, conservando ad ogni secolo, ad ogni tempo la loro forma e la loro impronta. Ora chi esagera o non colorisce abbastanza, sebbene possa far ridere lo stolto, non potrà che far rammaricare il saggio, la censura del quale, e si tratti pure di un solo, deve per voi pesar più che gli applausi di tutto un teatro. Vi sono certi commedianti, che ho veduto recitare, e inteso a celebrare con lodi alte, per non dire sacrileghe, i quali non avevano nè l’accento, nè il portamento da cristiano, da pagano, o da uomo, e che si enfiavano e muggivano in modo si orribile, che io li ho presi per simulacri umani sbozzati grossolanamente da qualche villano artefice nelle officine della natura; cosi male imitavano l’uomo!
- PRIMO COMMEDIANTE.
- Spero che noi ci siamo riformati abbastanza a questo proposito, signore.
- AMLETO.
- Riformatevi interamente; e coloro che recitano fra voi le parti del buffone non dicano più di quello che fu scritto per loro, perché ve ne hanno, che per provocare le risa di certi stupidi spettatori, si danno a ridere nel momento in cui la scena richiede la massima attenzione; indegna cosa, o che mostra una ben deplorabile ambizione in colui che vi ha ricorso. Andate a prepararvi. (I Commedianti escono.) Ebbene, signore? (A Polonio che entra con Rosencrantz e Guildenstern.) Assisterà il re alla rappresentazione?
- POLONIO.
- E la regina anche, e subito.
- AMLETO.
- Dite ai commedianti di affrettarsi. (Polonio esce.) Volete voi pure andarli a sollecitare?
- ROSENCRANTZ e GUILDENSTERN.
- Volentieri. signore.(Escono Rosencrantz e Guildenstern.)
- AMLETO.
- Dunque, Orazio? (Ad Orazio che entra.)
- ORAZIO.
- Eccomi, amato principe, ai vostri ordini.
- AMLETO.
- Orazio, tu sei l'uomo più illibato ch’io abbia conosciuto.
- ORAZIO.
- Oh, mio caro signore.... ..
- AMLETO.
- No, non credere che io ti aduli, perocchè quale vantaggio ne trarrei da te, che, privo di beni di fortuna, altra eredità non hai sulla terra se non le tue buone doti? Perché sarebbe adulato il povero? No, le lingue di miele vadano ad incensare la stolta ricchezza, e il ginocchio del vile pieghi là dove può ricavar la mercede della sua genuflessione. Mi odi tu? Dacchè la mia anima ha avuto potenza di scegliere e ha saputo distinguere gli uomini, ella ti ha eletto e vergato col suo suggello perchè fossi di lei, avvegnachè sii tale, che indifferente ai dolori, sapesti sostenere con viso uguale i rabbuffi e i doni della sorte. Felici coloro, in cui la ragione e lo passioni si contemperano così armoniosamente, che non sono fra le mani della fortuna uno strumento che manda tutti i suoni che a lei piace. Datemi un uomo che non sia schiavo delle passioni, e lo porterò nel fondo del mio cuore, come faccio di te. — Basta di ciò. — Si rappresenta un dramma questa sera dinanzi al re; vi è una scena che riproduce molte delle circostanze che ti ho esposte sulla morte di mio padre. Ti prego, allorchè vedrai quell’atto, osserva mio zio con tutta la vigilanza della mia anima;2 se ad un certo discorso il suo delitto occulto non si manifesta, infernale fu lo spirito che abbiamo veduto, e le mie lucubrazioni sono nere come l’incudine di Vulcano. Indagalo attento, che io ribadirò i miei occhi al suo viso, e dopo riuniremo i nostri giudizi per sapere a che attenerci sulle sue apparenze.
- ORAZIO.
- Così farò, signore; e se durante la rappresentazione ei nulla mi ruba e si sottrae alla scoperta, pagherò il furto.
- AMLETO.
- Vengono allo spettacolo; debbo farla da smemorato; cercatevi un luogo.
Entrano il Re, la Regina, Polonio, Ofelia, Rosencrantz, Guildenstern, ed altri del seguito, guardie con fanali, ecc. Marcia Danese. Squillo di trombe.
- RE.
- Come sta il nostro cugino Amleto?
- AMLETO.
- Benissimo, in fede; vivo del cibo del camaleonte, mangio l'aria condita di speranza. Voi non potete alimentar così i capponi.
- RE.
- Non ho nulla a fare con una tal risposta; queste parole non son per me.
- AMLETO.
- No, né per me. — E voi, signore, (a Polonio) voi dite che recitaste una volta all’Università?
- POLONIO.
- Sì, principe; e fui stimato un buon attore.
- AMLETO.
- E che parte recitaste?
- POLONIO.
- Quella di Giulio Cesare; fui ucciso in Campidoglio; Bruto mi ammazzò.
- AMLETO.
- Fu cosa brutale in lui l’immolare una tal ostia.3 — Che siano pronti gli attori?
- ROSENCRANTZ.
- Si, principe; essi aspettano il vostro cenno.
- REGINA.
- Vieni qui, mio buon Amieto, siedi vicino a me.
- AMLETO.
- No, buona madre, qui vi è calamità più attraente.
- POLONIO.
- Oh, oh! udiste ciò? (Al Re.)
- AMLETO.
- Signora, potrò io adagiarmi sulle vostre ginocchia? (Assidendosi ai piedi d’Ofelia.)
- OFELIA.
- No, signore.
- AMLETO.
- Intendo, adagiare il capo sui vostri ginocchi?
- OFELIA.
- Si, principe.
- AMLETO.
- Pensate ch’io volessi dire cosa villana?
- OFELIA.
- Non penso nulla, signore.
- AMLETO.
- E un bel pensiero quello di adagiarsi ai piedi delle fanciulle.4
- OFELIA.
- Che è ciò, signore?
- AMLETO.
- Nulla.
- OFELIA.
- Siete allegro, signore.
- AMLETO.
- Chi, io?
- OFELIA.
- Sì, principe.
- AMLETO.
- Oh Dio, sono il vostro giullare e null’altro. Che cosa di meglio ha da far l’uomo che di essere allegro? Guardate come il contento traspira dagli occhi di mia madre, e non son due ore che mio padre è morto.
- OFELIA.
- No, principe, sono due volte due mesi.
- AMLETO.
- Tanto tempo? Allora il diavolo porti il bruno, ch’io indosserò una tunica di tessuto più fino! Oh cielo! morto son già due mesi e non per anche dimenticato? In tal caso vi è da sperare che la memoria di un grand'uomo possa sopravvivergli almeno un mezzo anno; ma, per la Madonna, converrà perciò che abbia eretto delle chiese, o altrimenti correrà rischio di essere obliato come l’animale, il cui epitaffio è: qui si corrompe una bestia senza nome.5
Squillo di trombe: comincia la pantomina. Entrano un Re ed una Regina, che si prodigano mille carezze; ella s’inginocchia e dichiara con effusione il suo amore; ei la rialza e declina il capo sul di lei seno; poi si assidono entrambi sopra un banco di fiori, dove il Re si addormenta ed è da lei lasciato. Un altro uomo sopraggiunge che toglie al Re la corona, la bacia, e versata una fiala di veleno nell’orecchio del dormiente, se ne va. La Regina ritorna, trova il Re morto e fa atti disperati. L’avvelenatore torna anch’egli con due o tre persone dietro, e sembra partecipare al di lei dolore. Il morto corpo è portato altrove. L’avvelenatore corrompe con doni la Regina; ella pare ritrosa dapprima, poi si arrende al suo amore. (Escono.)
- OFELIA.
- Che significa ciò, signore?
- AMLETO.
- Affé, questo è un malanno nascosto,6 accenna a catastrofe.
- OFELIA.
- Forse questa pantomima esprime l’argomento del dramma.
- AMLETO.
- Lo sapremo da costui (accennando al Prologo che entra); i commedianti non han nulla di segreto, dicono tutto.
- OFELIA.
- Ci dirà egli quale fosse il senso di questa pantomima?
- AMLETO.
- Sì, e di qualunque altra pantomima che vorrete mostrargli; non arrossite di farvi vedere, ed egli non arrossirà a dirvi cosa ciò significa.
- OFELIA.
- Siete cattivo, siete cattivo; baderò al dramma.
- PROLOGO.
- «Per noi e per la nostra tragedia imploriamo umilmente la vostra clemenza e vi supplichiamo di attenzione.»
- AMLETO.
- È questo un prologo o il motto d’un anello?
- OFELIA.
- È breve, signore.
- AMLETO.
- Come l’amore della donna.
Entrano un Re ed una Regina
- COMM. RE.
- «Trenta volte il carro di Febo fece il giro del salso impero di Nettuno e del globo della terra; e trenta volte dodici lune hanno rischiarato il mondo colla loro luce riflessa, dacché l’amore lega i nostri cuori, e l’imeneo le nostre mani coi nodi sacri.»
- COMM. REGINA.
- «Possano il sole e la luna darci a contare di loro altrettante rivoluzioni prima che sia spento il nostro amore. Ma, infelice ch’io sono, la salute vostra è da alquanto tempo languente; voi siete fatto straniero alla gioja, diverso tanto da quel che era
- vate, che io me ne rammarico. Però, signore, la mia inquietezza non vi turbi, avvengaché le femmine temono tanto più quanto più amano. I loro sgomenti pareggiano l'affetto: in esse questi due sentimenti o nulli sono o estremi. Il passato vi chiarì quale fosse la mia tenerezza; in ragione uguale è il mio timore. Molto teme chi molto ama; in cuor sensibile ad ogni sgomento traboccante è l'affetto.»
- COMM. RE.
- «Nullameno, amor mio, io dovrò lasciarti, ed anche presto; le mie forze mi abbandonano, e tu vivrai in questo bel mondo dopo di me, onorata, amata, e forse con altro sposo del pari tenero...»
- COMM. REGINA.
- «Oh si sperda l’augurio!7 Un tale amore nel mio seno sarebbe un reo tradimento; la maledizione scenda su di me se stendessi la destra ad un altro consorte; non isposa il secondo se non colei che uccise il primo.»
- AMLETO.
- Assenzio, assenzio.
- COMM. REGINA.
- «I motivi che possono indurre ad un secondo matrimonio debbono essere di interesse, non mai di amore. Darei una seconda volta la morte al mio marito estinto il di che mi accogliesse nel suo talamo un secondo sposo.»
- COMM. RE.
- «Credo che quello che dite in questo momento lo pensiate; ma spesso incontra che infrangiamo i voti che avevamo proferiti; le determinazioni sono serve della memoria; il loro parto è laborioso, ma per lo più vivono poco, come il frutto che permane attaccato all’albero finchè è verde, maturo cade. È ovvio che trasandiamo il pagamento di un debito contratto con noi medesimi; nell’ardore della passione promettiamo: intepidita quella, non ricordiamo più la promessa; allorchè cessano le gioje e i dolori, i disegni che questi avevano ingenerati cessano del pari; all'un eccesso sottentra l'altro, e di poco è mestieri per allietare il dolore, o contristare la gioja. Nulla di eterno quaggiù, ne è meraviglia se i nostri affetti mutano col mutare delle fortune, e incerto è tuttavia se sia la fortuna che guida l’amore, o questo quella. Quando l’uomo potente è caduto, i cortigiani si allontanano: il povero che si innalza vede i nemici mutati in amici, a l'affetto ha seguito fin qui la sorte. Chi non ha bisogno di amici ne avrà in gran copia e chiunque ricorre nelle sue necessità all'arido cuore di un amico tosto lo muta in avversario. Ma, per finire dove cominciai, dirò che i nostri voleri e le nostre sorti
- seguono vie così contrarie, che noi vediamo sempre abbattuti i nostri disegni. Le nostre determinazioni ci appartengono, non così la loro attuazione. Tu sei ora ferma a non volere un secondo sposo, ma muoja il primo, e la tua risoluzione del pari morrà.»
- COMM. REGINA.
- «La terra mi rifiuti il suo nutrimento, il cielo la sua luce; il riposo e i diletti si allontanino da me giorno e notte; le mie speranze cangino a disperazione; la prigione o il pasto di un anacoreta mi siano riserbati: tutte le sventure che fanno impallidire la fronte della gioja assalgano quello ch’io potrei desiderare e l'annientino; un flagello incessante mi persegua in questo e nell'altro mondo, se rimasta vedova potessi mai più divenir sposa!»
- AMLETO (A Ofelia).
- Oh se dovesse infrangere tal voto...
- COMM. RE.
- «Il giuramento è solenne. Amore, lasciami qui per un poco; la mia mente si aggrava, e volentieri ingannerei le noje del dì con un breve sonno.» (Si addormenta.)
- COMM. REGINA.
- «Il sonno vi rinfranchi la mente, nè mai la sventura venga a separarci!» (Esce.)
- AMLETO.
- Signora, come vi piace questo dramma?
- REGINA.
- La dama promette troppo, mi sembra.
- AMLETO.
- Ohi ma terrà parola.
- RE.
- Conoscete l'argomento? Vi è nulla che possa offendere?
- AMLETO.
- No, no, e’ cellano, è un veleno da burla; non v’è un male al mondo.
- RE.
- Come si intitola questo dramma?
- AMLETO.
- La trappola del sorcio. Come, come? Per metafora. In questo dramma si rappresenta un’uccisione commessa a Vienna; il nome del duca è Gonzago; sua moglie si chiama Baptista; vedrete fra poco; è un terribile lavoro. Ma che perciò? Vostra Maestà e noi, che abbiamo l’anima netta, siamo a questo indifferenti. I ribaldi tremino, noi sorridiamo.8 (Entra Luciano.) Questi è un certo Luciano, nipote del re.
- OFELIA.
- Voi siete un buon coro, principe.
- AMLETO.
- Potrei farmi interprete fra voi e il vostro amante se vedessi i movimenti dei due fantoccini.
- OFELIA.
- Siete pungente, signore, siete pungente.
- AMLETO.
- Vi costerebbe un gemito l’impotenza a cui vorreste ridurmi.
- OFELIA.
- Sempre meglio, e peggio.
- AMLETO.
- E con progressione consimile dovete voi pure eleggere i mariti. — Comincia, micidiale; lascia le tue
- dannate smorfie, e comincia. Va, il corvo ululante stride per la vendetta.
- LUCIANO.
- «Tenebrosi pensieri, mani pronte, succhi efficaci, ora propizia, stagione seconda, e nessuno per vederlo. Tu, negra mistura, spremuta a mezzanotte o da erbe selvatiche, tre volte maledette da Ecate, tre volte infette; tu, magica pozione, somministrata dalla natura, che tanta terribile forza possiedi, spegni immediatamente questa florida vita.» (Versa il veleno in un orecchio dell’addormentato)
- AMLETO.
- Ei lo avvelena nel giardino per carpirgli il dominio. Ha nome Gonzago; la storia esiste ancora scritta in buon italiano. Vedrete fra poco come l’uccisore si acquista l’amore della moglie di Gonzago.
- OFELIA.
- Il re si alza.
- AMLETO.
- Che! atterrito da un fuoco falso!
- REGINA.
- Che avete, signore?
- POLONIO.
- Sospendete la rappresentazione.
- RE.
- Fate lume... andiamo!
- TUTTI.
- Lumi! lumi! lumi! (Tutti escono, fuori di Amleto e di Orazio.)
- AMLETO.
- «Il cervo ferito innalzi i suoi gridi, e il cerbiatto illeso a sua posta saltelli, è forza che alcuni veglino quando altri dormono, e così va il mondo.» — Ebbene, amico, se la fortuna mi si volgesse contro9 non basterebbero questi versi. insieme con una foresta di penne, con due rosette alla provinciale nei miei nitidi calzaretti, per darmi dritto ad essere aggregato ad una schiera di commedianti?10
- ORAZIO.
- E partecipando anche metà.
- AMLETO.
- Partecipando per intero,11 io dico. «Perocchè tu sai, caro Damone, che questo regno fu smantellato dallo stesso Giove, e che ora qui regna un, un... bajocco.»12
- ORAZIO.
- Avreste potuto fare la rima.13
- AMLETO.
- Oh! buon Orazio ormai avrò le parole dello Spettro in conto di vangelo.14 Vedesti?
- ORAZIO.
- Assai bene. signore.
- AMLETO.
- Allorchè si parlò di avvelenamento...
- ORAZIO.
- L’osservai con attenzione.
- AMLETO.
- Ah, ah! Venga un po’ di musica vengano i suonatori. «Perocchè se al Re non talenta la commedia, egli è, pel cielo che non gli talenta.» (Entrano Resenerantz e Guildenstern.) Un po’ di musica, olà!
- GUILDENSTERN.
- Mio buon signore, mi concedete di dirvi una parola?
- AMLETO.
- Signore, anche un’intera istoria.
- GUILDENSTERN.
- Il Re, signore.
- AMLETO.
- Oh! che abbiamo di lui?
- GUILDENSTEILN.
- Si è ritirato nel suo appartamento, ed è molto alterato.
- AMLETO.
- Dal vino, signore?
- GUILDENSTERN.
- No, signore, piuttosto dalla collera.
- AMLETO.
- Mostrereste più senno andando a dirlo al dottore; perocché la cura ch’io potrei indicargli lo farebbe forse adirare sempre di più.
- GUILORESTERN.
- Mio buon principe, date un po’ di sesto ai vostri discorsi, e non deviate cosi bizzarramente dal soggetto.
- AMLETO.
- Son mogio, signore, dite.
- GUILDENSTERN.
- La regina, vostra madre, mi ha mandato a voi nella più grande afflizione dello spirito
- AMLETO.
- Siete il benvenuto.
- GOILDENSTERN.
- No, mio buon signore, questa cortesia non è di buona lega. Se vi piace di darmi una sana risposta, adempirò al comando della vostra genitrice; se no, me ne tornerò col vostro perdono, e il negozio sarà finito.
- AMLETO.
- Signore, non posso.
- GUILDENSTERN.
- Che cosa, principe?
- AMLETO.
- Darvi una sana risposta: la mia mente è malata. Però potrete disporre di quelle risposte ch’io sarò in grado di dare; o meglio, come dite, potrà disporne mia madre: quindi veniamo al fatto senz'altro. Mia madre, voi accennavate...
- ROSENCRANTZ.
- Dice che la vostra condotta l’ha immersa nella meraviglia e nello stupore.
- AMLETO.
- Oh meraviglioso figlio che può far così meravigliare una madre! — Ma non vi è uno strascico ai piedi di questo stupore materno?
- ROSENCRANTZ.
- Ella desidera di parlarvi nel suo gabinetto prima che andiate a coricarvi.
- AMLETO.
- Obbediremo, foss’ella dieci volte nostra madre.15 Avete null’altro a dirci?
- ROSENCRANTZ.
- Signore, voi mi amaste un tempo.
- AMLETO.
- E vi amo anche. lo giuro per queste dieci dita.
- ROSENCRANTZ.
- Mio buon signore, quale é la causa del vostro male? Voi rifiutate di guarire se tenete occulto il vostro dolore ai vostri amici.
- AMLETO.
- Amico, manco di promozione.
- ROSENCRAINTZ.
- Come può esser ciò se avete il voto del re stesso per succedergli al trono?
- AMLETO.
- Si, ma intanto che l’erba cresce... il proverbio è alquanto rancido. (Entra un suonatore con un flauto.) Oh il flauto! vediamo. — Ritirarmi con voi?... Ma perciò mi girate d’intorno e mi date la caccia come se voleste pormi in qualche rete?
- GUILDENSTERN.
- Oh signore, se il mio zelo è troppo ardente, il mio affetto mi rende incivile.
- AMLETO.
- Non intendo bene cosa vogliate dire. Volete suonare con questo flauto?
- GUILDENSTERN.
- Signore, non posso.
- AMLETO.
- Ve ne prego.
- GUILDENSTERN.
- Credetemi, non posso.
- AMLETO.
- Ve ne supplico.
- GUILDENSTERN.
- Non so suonare, signore
- AMLETO.
- La é cosa facile come il mentire; mettete le dita su questi fori, soffiate colla bocca, e ne avrete un’eccellente armonia. Guardate, queste sono le chiavi.
- GUILDENSTERN.
- Ma io non posso far render loro alcuna armonia, non ho l’abilita da ciò.
- AMLETO.
- Ebbene, guardate quale cosa indegna voi fate di me. Voi vorreste suonare su di me, vorreste far vista di conoscere le mie chiavi; vorreste strapparmi dal cuore un segreto: vorreste ch’io esalassi tutti suoni dal più acuto al più grave; e vi è molta musica, una voce eccellente in questo piccolo organo, e nullameno non potete suonarlo. Ora perché credete che sia più facile suonar me che questo flauto? Datemi il nome dello strumento che vorrete: sebbene possiate premer le mie corde, non potrete trarre alcun suono da me. (Entra Polonio.) Iddio vi benedica, signore.
- POLONIO.
- Principe, la regina desidera parlarvi subito.
- AMLETO.
- Vedete quella nube che simula la forma di un cammello?
- POLONIO.
- Per la messa, la è proprio come un cammello.
- AMLETO.
- Parmi somigli ad una donnola.
- POLONIO.
- Ha il dorso della donnola.
- AMLETO.
- E non ritrae della balena?
- POLONIO.
- Tal quale la balena.
- AMLETO.
- Dunque verrò da mia madre subito. — Costoro mi spingerebbero all’estremo della pazzia. — Verrò subito.
- POLONIO.
- Cosi dirò. (Esce.)
- AMLETO.
- Subito è presto detto. — Lasciatemi, amici. (Tutti partono.) È questa l’ora della notte sacra ai neri malefizi, l’ora in cui i sepolcri si spalancano e l’inferno soffia i suoi contagi su questo mondo. Ora potrei bere sangue fumante e compiere delitti di cui inorridirebbe la luce. Tregua!... Vadasi da mia madre.: — Oh cuore, non perdere la tua tempra; l’anima di Nerone non entri in questo fermo petto; ch’io sia crudele, ma non snaturato; le mie parole siano pugnali per lei, ma inermi siano le mie mani; la mia lingua e la mia anima dissimulino del pari, e la sua sentenza tuoni nella mia voce senza che mai la mia volontà consenta ad eseguirla! (Esce.)
- ↑ Termagante, divinità dei Saracini.
- ↑ Nell’edizione in quarto si legge della tua anima. Ma Amleto avendo esposto ad Orazio le circostanze della morte di suo padre e datogli a conoscere i suoi sospetti, lo prega ad osservare suo zio colla vigilanza che tali sospetti hanno in lui generata. Riferirsi alla sua vigilanza (di Orazio) sarebbe un luogo comune.
- ↑ L’ammazzare un così bel vitello.
- ↑ To lie between maids’ legs, che omettiamo di tradurre.
- ↑ With the hobby-horse, whose epitaph is: for, o, for, o, the hobby-house is forgot, col cavallo di legno.... dimenticato. Il cavallo di legno, a cui accenna il poeta, figurava nelle giostre, e fu fatto sbandire dai Puritani che vedevano in quel simulacro di bestia qualche cosa di papale. Un bell’umore ne scrisse l’epitaffio citato qui da amleto. Ben Jonson e Strutt descrissero diffusamente tutti i giuochi e le mosse che faceva il cavallo di legno. Questo passo nondimeno, a cui ci siamo sforzati di dare un senso, ha confuso fin qui tutti i commentatori.
- ↑ This is miching mallecho. Quest’ultima voce dallo spagnolo.
- ↑ Oh maledizione al resto (degli uomini, sottinteso.)
- ↑ La rozza scorticata si accasci, i nostri garretti sono illesi
- ↑ Diventa turca per me.
- ↑ Le penne e le scarpe annodate con un nastro elegante in torma di rosa erano i principali attributi dei commedianti ai tempi di Shakspeare.
- ↑ Nella Storia del Teatro, di Collier, vol. III, pag. 427, sono molti curiosi particolari intorno al modo col quale si pagavano in Inghilterra, al tempo di Shakspeare, gli attori: questi erano classificati in attori a paga intera, a tre quarti di paga, a mezza paga e a stipendiati, facendosi le parti in ragione del prodotto delle rappresentazioni.
- ↑ Paiocke. Quasi tutte le altre edizioni leggono peaeock (pavone); I testi antichissimi però hanno paiocke e Calelecutt penso fossero voci sinonime; ma nelle Illustrazioni al testo di Shakespeare (Edimburgo, 1811) è addimostrato che la voce paiocke seguillea il nostro bajocco. Nel Nuovo Mondo di Parole di Florio (1611), troviamo che bajocco significa moneta d’apparenza, moneta da nulla, onde l'applicazione figurata che ne fa Amleto.
- ↑ Cioè chiudere con A very very ASS (asino) per far rima con (illegibile)
- ↑ Le reputerò del valore di mille lire sterline
- ↑ Cioè dieci volte di più colpevole