Atto quarto

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William Shakespeare - Amleto (1599)
Traduzione dall'inglese di Carlo Rusconi (1858)
Atto quarto
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ATTO QUARTO



SCENA I.

La stessa.

Entrano il Re, la Regina, Rosencrantz e Guildensterno.

Re. Cotesti sospiri, signora, hanno una cagione: dovete spiegare i profondi singhiozzi del vostro seno oppresso; è bene che ne conosciamo la fonte. Dov’è vostro figlio?

Reg. Lasciateci soli un istante. (Ros. e Guil. escono) Ah mio buon signore, che ho io veduto questa notte?

Re. Che dunque, Gertrude? Come sta Amleto?

Reg. Furibondo come il mare e i venti scatenati e lottanti insieme. In un accesso sfrenato di follia avendo udito qualche romore dietro le cortine, sguainò la spada, e uccise senza volerlo il buon vecchio.

Re. Oh funesto avvenimento! Avremmo avuta la stessa sorte se fossimo stati al suo luogo. La sua libertà ne minaccia tutti; voi, noi, tutti, senza differenza. — Oimè! come scuseremo quest’atto sanguinoso? Esso verrà imputato a noi, la cui suprema prudenza avrebbe dovuto reprimere, incatenare quel forsennato, e mettere il suo furore fuor di stato di nuocere. Ma la tenerezza nostra era sì cieca, che non volevamo sentir ciò che la prudenza ci prescriveva di fare. Noi ci siamo comportati come chi nasconde una vergognosa malattia che, per volerla togliere alla conoscenza altrui, gli rode tutte le sorgenti della vita. Dov’è egli andato?

Reg. E’ portò lungi il corpo dell’uomo ucciso; e nella sua follia rifulse puro e innocente di quell’atto sanguinoso, come puro risplende l’oro fra vili minerali. Ei piange per ciò che ha fatto.

Re. Oh Gertrude, usciamo. I primi raggi del sole non avranno appena dorate le montagne, che lo faremo partire; e per iscusare questa odiosa azione nè sarà forza impiegare tutta la nostra autorità e tutta l’arte di cui siamo capaci. — Ah Guildensterno! (entrano Rosencrantz e Guildensterno) Miei amici, ite entrambi a prendere qualche scorta. Amleto, nel suo delirio, ha ucciso Polonio; e trascinato ne ha il cadavere fuor della stanza di sua madre. Ite, scoprite dov’è, parlategli con dolcezza e fate recar [p. 65 modifica]l’estinto nella cappella del palazzo. Pregovi, affrettatevi (escono Ros. e Guil.). Venite, Gertrude; andiamo a convocare i nostri più savii consiglieri, e a dichiarar loro le nostre risoluzioni e la sventura che ci è toccata. Forse la calunnia, il di cui ronzio percorre tutto l’universo, e che scocca il suo dardo avvelenato con tanta aggiustatezza, quanta ne ha la freccia che s’infigge nel suo bersaglio, potrebbe ingannarsi sul nostro nome e non colpire che l’aria impassibile. — Oh venite; la mia anima è piena di turbamento e di terrore.     (escono)

SCENA II.

Altra stanza.

Entra Amleto.

Am. Deposto in luogo sicuro... (Rosencrantz dal di dentro chiama: Amleto! principe Amleto!) Ma, qual è questo romore? Chi chiama Amleto? Oh, vengono qui.

(entrano Rosencrantz e Guildensterno)

Ros. Che avete fatto, signore, del cadavere?

Am. L’ho riunito alla polvere, di cui è parente.

Ros. Diteci dov’è, onde possiamo portarlo alla cappella.

Am. Nol crediate.

Ros. Creder che?

Am. Ch’io possa conservare il vostro segreto e non il mio. D’altra parte, all’inchiesta d’una spugna che potrebbe rispondere il figliuolo di un re?

Ros. M’avete in conto di una spugna, signore?

Am. Sì, e so che v’imbevete dei favori del monarca e delle sue ricompense. Ma tali ufficiali finiscono per divenir preda del coronato, che li conserva come una scimmia custodisce un nocciuolo in bocca: il primo che ivi entra è l’ultimo ad essere inghiottito. Allorchè il re ha bisogno di quel che gli avete poppato, ei vi preme, e la spugna ritorna secca.

Ros. Non v’intendo.

Am. Ne son lieto. Un cattivo discorso si sperde in un’orecchia insensata.

Ros. Principe, dovete dirci dov’è il cadavere, e venirne con noi dal re.

Am. Il cadavere è col re, ma il re non è col cadavere. Il re è una cosa... [p. 66 modifica]

Guil. Una cosa, signore?

Am. Da nulla. Conducetemi da lui; celati volpe, celati volpe1. (escono)

SCENA III.

Altra stanza.

Entra il Re con seguito.

Re. Ho mandato a cercarlo, e ho dato ordine perchè si scopra dov’è il cadavere. Oh! quanto è pericoloso il lasciarlo così libero! Nullameno non conviene che esercitiamo verso di lui il rigor delle leggi. Egli è caro alla pazza moltitudine, che ama, non per norma del giudizio, ma per quella degli occhi; e in simili casi, è il castigo dell’offensore che si pesa, non mai l’offesa. Perchè turbata non vada la pace pubblica, bisogna che questa partenza rassembri il frutto di matura deliberazione. I mali disperati si sanano con rimedi disperati, o sono incurabili. — (entra Rosencrantz) Ebbene, che è accaduto?

Ros. Da lui non potemmo sapere dove stia il cadavere.

Re. Ma, egli stesso dov’è?

Ros. Fuor del palagio in attenzione de’ vostri ordini.

Re. Conducetelo dinanzi a noi.

Ros. Olà, Guildensterno, fate venire il principe.

(entrano Amleto e Guildensterno)

Re. Ebbene, Amleto, dov’è Polonio?

Am. A cena.

Re. A cena? Dove?

Am. Non dove si mangia, ma dove si è mangiati. Una convocazione di vermi politici ha avuto luogo entro di lui. Il verme è il principe de’ mangiatori. Noi ingrassiamo tutti gli animali perchè ne ingrassino, e col nostro adipe imbandiam banchetto ai vermi. Un re molto pingue e un mendico magro son due pietanze differenti, ma poste sulla stessa mensa. Così tutto finisce.

Re. Oimè, oimè!

Am. Un uomo può gettar l’amo col verme appesovi che ha mangiato di un re, e mangiar poscia il pesce che s’è nodrito di quel verme.

Re. Che vuoi dire con ciò?

Am. Nulla; senonchè mostrarvi mercè qual progresso possa un re entrare nelle viscere di un mendico. [p. 67 modifica]

Re. Dov’è Polonio?

Am. In cielo; mandate colà, e se non vi si trova, fatene ricerca voi stesso nel luogo opposto. Ma, in fede mia, se nol vedete nello spazio d’un mese, lo sentirete all’odore salendo nella galleria.

Re. Ite a cercarlo.     (ad alcuni del seguito che escono)

Am. Ei v’aspetterà.

Re. Amleto, quest’azione che ne ha contristati tanto, per la sicurezza tua, a noi molto diletta, esige che ti allontani tosto da questo regno. Il naviglio che debbe portarti è preparato, il vento spira propizio, i tuoi compagni ti aspettano; e tutto è disposto per veleggiare verso l’Inghilterra.

Am. Verso l’Inghilterra?

Re. Sì, Amleto.

Am. Bene sta.

Re. Così pur diresti, se conoscessi le nostre intenzioni.

Am. Veggo un angelo che le discerne. Ma andiamo in Inghilterra! — Addio, cara madre.

Re. E al padre tuo, Amleto?

Am. Mia madre. Padre e madre, son marito e moglie. L’uomo e la donna hanno in comune la carne: onde, addio, madre. — Andiamo in Inghilterra.      (esce)

Re. Seguitelo; fate che entri tosto nella nave. Non differite; vo’ che esca dal regno prima di sera; partite, tutto è pronto. Siate solleciti (escono Ros. e Guil.). E tu, Inghilterra, se hai in qualche conto la mia amicizia, di cui la nostra potenza ti ha fatto sentire il prezzo, perocchè le piaghe che ti segnò la spada danese sono anche rosse e sanguinenti, e un tributo tu paghi al nostro trono, non dei trasandare la nostra volontà suprema, che, con pressanti lettere, sollecita da te la morte di Amleto. Obbediscimi, Inghilterra. Amleto è febbre che m’arde il sangue, e tu devi guarirmene. Finchè io non sappia che quest’atto fu riempito, la gioia non rinascerà più per me per qualunque sorriso della fortuna.     (esce)

SCENA IV.

Una pianura in Danimarca.

Entra Fortebraccio col suo esercito.

Fort. Ite, capitano; recate i miei saluti al monarca danese. Ditegli che, col suo beneplacito, Fortebraccio impetra la concessione di passare con l’esercito pel di lui regno. Voi conoscete [p. 68 modifica]gli ordini. Se Sua Maestà ha qualche cosa da comunicarne, andremo a porgergli in persona i nostri omaggi; di ciò, abbiate cura di avvertirlo.

Cap. Così farò, signore.

Fort. Voi, seguitemi. (esce coll’esercito, entrano Amleto, Rosencrantz, Guildensterno, ecc. ecc.)

Am. Guerriero, che esercito è quello?

Cap. L’esercito norvegio, signore.

Am. A che intende, ve ne prego?

Cap. E’ va contro i Polacchi.

Am. Chi lo guida?

Cap. Il nipote del vecchio re di Norvegia.

Am. Vanno essi contro tutta la Polonia, o soltanto contro qualcuna delle sue frontiere?

Cap. Per parlar vero, e senza ambagi, noi andiamo a conquistare un brano di terra di nessun prezzo, guidati soltanto dall’onore. I redditi di quella non li vorrei per cinque ducati; nè di più ne darà alla Norvegia o alla Polonia quand’anche fosse venduta all’incanto.

Am. Allora i Polacchi non la difenderanno.

Cap. Sì, e in essa sta di già un forte presidio.

Am. Duemila anime e ventimila ducati non definiranno la contesa di quel palmo di terra. Il tumore cresciuto per l’eccessiva lunghezza della pace scoppia internamente senza che appaia al di fuori la cagione della morte dell’uomo. Vi ringrazio, signore.

Cap. Iddio sia con voi.                                   (esce)

Ros. Volete seguirmi, signore?

Am. Vi raggiungerò fra poco. Andate innanzi (escono Ros. e Guil.). Come tutte le circostanze si manifestano in mio favore, e svegliano la mia assopita vendetta! Che cosa è l’uomo, se il suo supremo bene e tutto il prezzo del suo tempo restringesi nel mangiare e nel dormire? Un bruto, e null’altro. Certo quegli che ne dotò di questa sublime ragione, che può veder nel passato e nell’avvenire, non ci ha data questa intelligenza, celeste facoltà, perch’ella in noi si rimanga inerte. Ora, sia per uno stupido obblio simile a quello della bestia, sia per una scrupolosa delicatezza che teme di troppo approfondare l’avvenimento (e in tale scrupolo per un quarto di saggezza, tre ne stanno di viltà); io non so perchè ancor viva per dir sempre: questa cosa vuol farsi, avendo motivo, volontà, forza, e mezzi di farla. Il mondo è pieno di esempi che m’incuorano; e l’esercito bellicoso di questo giovine principe, la cui anima, infiammata da una divina ambizione, [p. 69 modifica]affronta l’invisibile avvenimento esponendo una vita mortale e incerta a tutte le eventualità, alla morte, ai pericoli più tremendi per un pugno di terra, ne è uno. La grandezza non istà nel non oprar mai senza un gran motivo; sta invece nel trovare nobilmente un oggetto di contesa allorchè l’onore ne va di mezzo. Come mi ristarei io adunque qui immobile, io, che ho un padre assassinato, una madre contaminata, mille stimoli al mio ardire e alla mia ragione, scorrendo le ore immerso in un vil sonno; mentre, con mia vergogna, veggo la vicina morte di ventimila uomini, che, per un nonnulla, per una vana fama s’incamminano al sepolcro come a tepidi letti, combattendo per ragioni che la moltitudine non può apprezzare, per una terra non pure abbastanza vasta per nasconderli estinti? Oh! d’ora in poi i miei pensieri siano di sangue, o si disperdano!     (esce)

SCENA V.

Elsinoro. — Una stanza nel palagio.

Entrano la Regina e Orazio.

Reg. Non vo’ parlare con lei.

Or. Ella ve ne prega, e vuole assolutamente vedervi. È vero che la sua mente è alterata, ma compatir conviene allo stato violento della sua anima.

Reg. Che chiede da me?

Or. Parla molto di suo padre; dice che s’avvede che v’è frode nel mondo; singhiozza e si percuote il petto; calpesta sdegnosa i fiori del terreno, e proferisce parole che non han quasi senso. Il suo discorso è vuoto; e nullameno la forma strana di tal discorso fa nascere, in quelli che l’odono, il desiderio di ragunarne i frammenti per cercarvi l’idea che li informa. Al lampo de’ suoi occhi, ai movimenti del suo capo direbbesi che vi sono pensieri nelle di lei parole. Nulla vi ha di sicuro; ma nondimeno vi è abbastanza per dar loro un’interpretazione sinistra.

Reg. Sarà bene di favellarle; imperocchè potrebbe spargere pericolose congetture nelle anime che covano il male. Fate che venga. (Or. esce) Al mio spirito infermo (e tale è la natura del delitto) la più lieve circostanza sembra il presagio di qualche gran disastro; tanto una coscienza colpevole è piena di sospetti! Col lungo temere d’esser tradita ella si tradisce da sè.

(rientra Orazio con Ofelia)

Of. Dov’è la bella Maestà di Danimarca? [p. 70 modifica]

Reg. Ebbene, Ofelia?

Of. «Come poss’io distinguere il vostro amor vero dall’altro? Forse da’ vostri sandali, dalla vostra tunica, dal vostro bastone?».     (cantando)

Reg. Oimè, buona fanciulla, che significa questo canto?

Of. Che dite? Vi prego; badate. (canta) «Egli è morto e scomparso, signora; è morto e scomparso. Al suo capo sta una verde zolla; a’ suoi piedi una pietra».

(con un riso insensato)

Reg. Oh, buona Ofelia...

Of. Pregovi, badate. (canta) «Il suo lenzuolo di morte è bianco come la neve delle montagne...     (entra il Re)

Reg. Oimè, guardate, signore.

Of. «Tutto coperto di dolci fiori, che sono stati recati alla sua tomba bagnati dalle lagrime di un amor sincero».

Re. Che è questo, povera Ofelia?

Of. Bene sta; Iddio vi salvi. Si dice che prima della sua metamorfosi la civetta fosse figlia di un panattiere. Signore Iddio, noi sappiamo quel che siamo, ma non quello che possiamo essere: il Cielo voglia giudicarvi!

Re. Ella pensa a suo padre.

Of. Pregovi, non parliamo di ciò; ma quando vi chiedono quel che questo significa, rispondete così: «buon giorno, è il primo dì di maggio. Dal mattino, col primo lume dell’alba, io m’assisi alla finestra, per divenire la vostra fidanzata... Allora ei surse, e indossò i suoi panni, aprì la porta della camera, e fece entrare la vergine che non si dipartì più tale di là».

Re. Povera Ofelia.

Of. Infatti, senza farvene sacramento, io finirò in breve: «pel Cielo e per la santa carità, oimè, abbiatene vergogna! ogni giovine al mio posto farebbe altrettanto. Per l’amore, ciò merita biasimo, ella rispose, e prima d’ingannarmi m’avevate detto che sarei divenuta vostra sposa. Questo avresti ottenuto, replicò l’amatore, lo giuro al sole, se non fossi entrata da te nella mia stanza».

Re. Da quanto tempo è in questo stato?

Of. Spero che tutto sarà bene. C’è d’uopo però pazientare; non posso astenermi dal piangere, allorchè penso che l’hanno deposto nella fredda terra. Mio fratello lo saprà, ed io vi ringrazio del vostro buon consiglio. Vieni, mio cocchiere! Buona notte, signore; buona notte, belle dame, buona notte, buona notte.

(esce)

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Re. Seguitela da vicino; ponetela in buona custodia, ve ne scongiuro. (Or. esce) Oh! è il veleno di un profondo dolore che nasce dalla morte di suo padre: e bada, Gertrude, che quando i dolori vengono, non vengono come spie ad uno ad uno, ma a legioni. Prima suo padre ucciso, poi vostro figlio partito (ed è egli stesso l’autore del proprio esilio), il popolo quindi costernato, ammutinato e contumace per la morte del buon Polonio! Incautamente operammo seppellendolo in segreto. La povera Ofelia, da se stessa divisa, e dalla propria ragione, senza di cui non siamo che vani simulacri, o meri bruti... infine, e questo avvenimento è importante come tutti gli altri, suo fratello è tornato di Francia, segretamente, e si pasce di questi guai; ei si tiene avviluppato fra oscure nubi, nè i malcontenti mancano che susurrino al suo orecchio racconti calunniatori sulla morte di suo padre, accagionandone noi. Oh, mia Gertrude, tante vicissitudini crudeli mi dànno mille morti! (si ode rumore dentro)

Reg. Oimè! che rumore è questo? (entra un gentiluomo)

Re. Dove sono le mie guardie? Siano difese le porte. Che accade?

Gent. Salvatevi, signore; l’Oceano, rompendo le sue dighe, non innonda le pianure con foga più impetuosa di quella con cui il giovine Laerte, nell’accesso del suo delirio, abbatte e rovescia i vostri uffiziali. Il popolo lo dice re; e come se il mondo nascesse oggi, gli usi più sacri son dimenticati, le costumanze antiche, salvaguardia degli Stati, vanno sconosciute. E’ gridano: eleggiam Laerte per re nostro! e i berretti volano per l’aere; le voci e le mani applaudiscono al grido di cui risuonano le nubi: Laerte sarà re, Laerte re!

Reg. Con qual gioia questa muta di Danesi segue latrando la sua falsa traccia! Ah! perfidi, ella vi perderà.

Re. Le porte sono atterrate. (raddoppia il tumulto; entra Laerte armato con seguito di Danesi).

Laer. Dov’è questo re? — Signori, (ai suoi) statevene al di fuori.

Dan. No, lasciateci entrare.

Laer. Pregovi, siatemi cortesi.

Dan. Saremo, saremo.     (si ritirano)

Laer. Vi ringrazio; rimanete alla porta. — O tu, vil re, rendimi mio padre.

Reg. Calmatevi, buon Laerte.

Laer. Se avessi una sola stilla di sangue che fosse in calma, essa rivelerebbe in me un figlio illegittimo, disonorerebbe il letto [p. 72 modifica]di mio padre, e imprimerebbe l’infamia sulla fronte onorata della mia genitrice.

Re. Per qual cagione, Laerte, provocare tanta rivolta? — Gertrude, lasciatelo; nol ritenete; non temete nulla per la nostra persona: v’è una forza divina che circonda e difende la maestà dei re; il tradimento non può che intravvedere da lungi, e mostrare lo scopo de’ suoi voti; ma rimane deluso nei primi passi dell’esecuzione. — Dimmi, Laerte, perchè sei si infellonito? — Lasciatelo, Gertrude; — favella.

Laer. Dov’è mio padre?

Re. Morto.

Reg. Ma non per opera sua.

Re. Lasciatelo far le sue dimande.

Laer. Come morì egli? non soffrirò d’essere schernito. Lungi da me ogni vincolo d’obbedienza; lungi ogni giuramento di fedeltà; muoiano nell’abisso la coscienza, la grazia, la salute. Disprezzo l’inferno e i suoi martori; in questo proposito solo sto saldo: sdegnando e abbandonando i due mondi, il presente e il futuro; avvenga ciò che vorrà, non ho che una brama: voglio piena e intera vendetta della morte di mio padre.

Re. Chi vorrebbe arrestarti?

Laer. Il mio volere, non tutto il mondo; e quanto a’ miei mezzi ne saprò trar sì buon profitto, che andrò lungi con poco.

Re. Buon Laerte, se desiderate di conoscere la verità sulla morte di vostro padre, dovrà per questo la vostra vendetta, come un uragano cieco e furioso, trascinar seco l’amico e il nemico, l’innocente e il colpevole, senza distinzione?

Laer. No, solo i nemici.

Re. Ebbene, volete conoscerli?

Laer. Apro le mie braccia e il mio seno ai suoi amici fedeli, e li nutrirei col mio sangue, come il pellicano fa verso i suoi figli.

Re. Almeno ora, Laerte, voi tenete il linguaggio di un buon figlio, e di un vero gentiluomo. S’io sia innocente della morte di vostro padre, e se in cuore ne porti un altissimo dolore, è cosa che apparirà al vostro giudizio chiara come il giorno che risplende dinanzi ai vostri occhi.

I Danesi. (dal di dentro) Lasciatela entrare.

Laer. Ebbene! che strepito è questo? (entra Ofelia bizzarramente coronata di fiori e di paglie) Oh febbre ardente, infiamma e dissecca il mio cervello! Lagrime corroditrici, abbruciate i miei occhi, e distruggete il senso e l’organo della mia vista! Pel Cielo, la perdita della tua ragione sarà scontata con una [p. 73 modifica]vendetta che farà inchinare dal nostro lato la bilancia. Oh rosa di maggio! innocente vergine, dolce sorella, amabile Ofelia! Ah! Cielo! è egli possibile che la giovine ragione di una fanciulla, nella sua primavera, caduca sia come la fragile vita di un vecchiardo? La natura è purificata dal sentimento dell’amore, e l’anima ch’esso esalta, separa e manda sempre qualche porzione preziosa di sè dietro all’oggetto amato.

Of. «Essi lo portarono sulla bara col volto scoperto; sulla sua tomba furono versati flutti di lagrime». Addio, mio amore.

Laer. Fruissi tu ancora della tua ragione, e m’incitassi alla vendetta, ne sarei meno commosso che da tal vista.

Of. Convien che cantiate, «sepolto, sepolto...» oh come questo ritornello si addice bene! Egli è del falso maggiordomo che rubò la figlia del suo signore.

Laer. Queste vane parole straziano più d’un discorso assennato.

Of. Ecco il rosmarino che fortifica le rimembranze; pregovi, amore, ricordatemi: eccovi il fiore del pensiero.

Laer. V’è senso anche nel suo delirio! pensieri e rimembranze conformi.

Of. Eccovi erbe per voi, e ne tengo alcune per me. Erba di grazia potremmo chiamarla, e la dovete portar con divozione... Eccovi ancora margherite... vorrei pure darvi le viole, ma si sono tutte avvizzite nel giorno in cui mio padre morì... Dicono facesse un buon fine... «perocchè il caro Robin è tutta la mia gioia...».

Laer. Lividi pensieri, afflizione, ambascia; l’inferno stesso e i suoi orrori mutano in lei di natura, e divengono dolci.

Of. (canta) «Nè più ei tornerà? Mai più, mai più! Ora è morta; va al tuo letto della bara, ei più non tornerà. La sua barba era bianca come la neve, la sua capellatura bionda come il lino: egli è ito, e invano esaliamo gemiti; Dio abbia pietà della sua anima!» E tutte le anime cristiane! Prego il Signore sia con voi!     (esce)

Laer. Vedi ciò, Re del cielo.

Re. Laerte, prenderò parte al vostro dolore, se non vorrete ricusarmi un diritto che m’appartiene. Seguitemi costà; scegliete a piacer vostro i più savi dei vostri amici, che m’udiranno, e giudicheranno fra voi e me. Se essi trovano che noi siamo complici di questa morte, vi abbandoniamo il nostro regno, la nostra corona, la nostra vita, tutto ciò che possiamo dire nostro; se no, acconsentite d’accordarmi la vostra pazienza, e [p. 74 modifica]opereremo di concerto per far ottenere al vostro cuore la soddisfazione che gli è dovuta.

Laer. Ebbene, mi arrendo. Il genere della sua morte, i suoi oscuri funerali, senza trofeo, senza spada sospesa alla sua tomba, senza stemmi sulle sue ceneri, senza cerimonie, senza pompe, mi gridano, come una voce mandata dal cielo alla terra, che debbo chieder conto del suo fine.

Re. Tal conto vi sarà reso; e la scure della legge cada sulla testa che compiè il delitto. — Vi prego, seguitemi.     (escono)

SCENA VI.

Un’altra stanza.

Entrano Orazio e un domestico.

Or. Chi sono coloro che vogliono parlarmi?

Dom. Marinai, signore, e’ dicono che han lettere per voi.

Or. Fate che entrino. — (il Dom. esce) Non so da qual parte del mondo io possa ricevere attestati di ricordanza se non è dal principe Amleto.     (entrano i marinai)

Mar. Iddio vi benedica, signore.

Or. E te ancora.

Mar. Così farà, signore, se gli piace. Ho una lettera per voi, che viene dall’ambasciatore mandato in Inghilterra, se il vostro nome è Orazio, come mi fu detto.

Or. (legge) «Orazio, allorchè avrai ricevuta questa lettera procaccia ai latori qualche mezzo di presentarsi al re, chè hanno carte anche per lui. — Avevamo appena contato due giorni di mare, quando un pirata d’aspetto guerriero ci diè la caccia. Trovandoci troppo deboli di vele, spiegammo un valore disperato, e in breve venimmo all’arrembaggio. In un istante gli aggressori si son sottratti al nostro vascello, han preso il largo, e son rimasto solo loro prigioniero. Bene hanno adoperato con me, e da pirati generosi; quantunque sapessero quel che facevano, e ch’io era atto a pagameli. Riceva il re le lettere che gli mando, e tu parti tosto, e vieni a trovarmi colla stessa celerità con cui fuggiresti la morte. Debbo confidare al tuo orecchio parole che ti renderanno muto di stupore; e che nondimeno non saranno che una debole espressione dell’importante segreto che acchiudono. Gli onesti marinai, che ti recano questa, ti condurranno nel luogo dove io sto. Rosencrantz e [p. 75 modifica]Guildensterno continueranno il viaggio verso l’Inghilterra. Ho molte cose a dirti sul loro conto. Addio.

«Quello che tu conosci per tuo amico, Amleto».

Venite; vi condurrò dove dovete andare, e partiremo poscia insieme.     (escono)

SCENA VII.

Un’altra stanza.

Entrano il Re e Laerte.

Re. Ora la vostra intima convinzione deve suggellare la mia difesa: e mi dovete dare nel vostro cuore un posto d’amico, dacchè avete inteso con sì evidenti prove che quegli che uccise vostro padre intese a togliermi la vita.

Laer. Le prove son manifeste. Ma ditemi perchè non avete messo in vigore le leggi fatte contro attentati di natura sì rea e sì degna di morte, quando la vostra sicurezza, la vostra prudenza, tutti i motivi s’adunavano per eccitarvi alla vendetta?

Re. Oh per due considerazioni particolari, che forse a voi sembreranno deboli, ma che sono ben forti per me. La regina sua madre non vive che pei suoi occhi: e per me, sia ventura o maledizione, ella è sì intimamente legata alla mia vita e alla mia anima, che per quella stessa necessità con cui l’astro si muove nella sua orbita, io non ho azione, nè impulso che non lo riceva da lei. Il secondo motivo che m’ha impedito di chiedergli conto del suo misfatto è l’estremo amore che gli porta il popolo, il quale, lavando tutte le sue macchie nel torrente della sua affezione, come le cadute d’acqua che cambiano la terra in pietre, converte le sue colpe in grazie. I miei dardi son troppo lievi per vincere vento sì impetuoso, e sarebbero tornati contro di me senza che avessero mai raggiunto il loro scopo.

Laer. Così avrò perduto un nobile ed affettuoso padre, e troverò una sorella in istato di disperazione; una sorella che, se la lode può prodigarsi a cosa che più non esiste, levata si era al disopra del suo secolo! Ma il tempo della vendetta arriverà.

Re. Dormite in pace, guardatevi dal pensare che io sia di tempra tanto vile, tanto insensibile, da vedermi oltraggiare, incurevole dell’oltraggio. Fra poco saprete di più. Amai vostro padre; me pure amo; e per farvi intendere... (entra un messaggiero) Ebbene? quali novelle?

Mes. Lettere, signore, d’Amleto. Questa per Vostra Maestà; questa per la regina. [p. 76 modifica]

Re. D’Amleto! Chi le recò?

Mes. Certi marinai, a ciò che dicesi. Io non li vidi. Date mi furono da Claudio che le ricevè.

Re. Laerte, voi pure le udirete. — Lasciateci: (il mes. esce) (legge) «Alto e potente sovrano, saprete che sono approdato ignudo ne’ vostri dominii. Dimani chiederò il favore di presentarmi ai vostri regali occhi, e allora, dopo aver implorato il vostro perdono, vi narrerò la cagione del mio inaspettato e strano ritorno.                                   Amleto». Che vuol dir ciò? Anche gli altri sono essi venuti? Ovvero è qualche errore e nulla di verità?

Laer. Conoscete il carattere?

Re. È di Amleto. Ignudo... e nella poscritta dice solo... me ne chiarireste qualcosa?

Laer. Mi ci perdo, signore, ma lasciatelo venire. Questa novella rianima e rinfranca il mio coraggio abbattuto. Vivrò dunque, e potrò dirgli in volto: fosti tu che lo facesti.

Re. Se ciò è, Laerte... e come non dovrebbe essere? volete lasciarvi guidare da me?

Laer. Sì, purchè non mi parliate di pace.

Re. Solo della tua pace. Se è vero ch’ei sia di ritorno, fastidito del viaggio, e che non si voglia più rimettere in mare, saprò ispirargli il desiderio di tentare un’avventura che mi va per la testa, e in cui soccomberà. La sua morte non ecciterà nè calunnie, nè rumori; sua madre stessa vi si rassegnerà e l’avrà in conto d’accidente sfortunato.

Laer. M’abbandono ai vostri consigli: ma più volentieri ancora, se potete ordinare il vostro disegno in modo ch’io ne divenga l’esecutore.

Re. Mi servirete opportunamente. Dopo i vostri viaggi foste molto encomiato all’orecchio d’Amleto per un talento che, dicesi, possediate in grado superiore. Tutte le altre vostre qualità unite non hanno tanto eccitato la sua gelosia, come quella sola che nullameno nell’opinione mia non occupa che l’ultimo posto.

Laer. E quale è dunque il talento a cui accennate?

Re. Altro non è che una fettuccia sul cappello di un giovine, ma che nullameno è necessaria; perocchè un vestir gaio, frivolo e leggero si addice tanto alla gioventù, quanto alla rigida vecchiezza convengonsi i neri colori e il grave mantello in cui si avviluppa per ragioni di decenza e di salute. — Son già due mesi da che qui stava un gentiluomo francese che, superando gli altri prodi cavalieri della sua nazione, fornito era di un [p. 77 modifica]valore, che parea prodigio, avvegnachè, vedendo le evoluzioni, che faceva descriver al suo cavallo, si sarebbe detto che la natura l’avea con quello unito e che d’entrambi non aveva fatto che un corpo. In breve, ei soverchiava tanto tutte le nostre nozioni, che ogni mia idealità a questo proposito rimaneva soggiogata dal fatto.

Laer. Ed era un Francese?

Re. Un Normanno.

Laer. Sulla mia vita, è Lamort.

Re. Appunto.

Laer. Lo conosco; egli è l’onore della sua patria.

Re. Di voi facea testimonianza pubblica, narrando le più egregie cose, e gridava che bello spettacolo sarebbe stato il vedervi combattere con un avversario del vostro valore. Giurava che gli schermitori del suo paese non avevano nè movimenti, nè destrezza, nè occhio, allorchè voi combattevate contr’essi; e il suo racconto infiammò l’invidia d’Amleto, al segno che ei più non desiderò che il vostro ritorno per misurarsi con voi. Ora da questo...

Laer. Ebbene, da questo, signore?

Re. Laerte, amavate vostro padre? o siete soltanto un simulacro di dolore, apparenza senz’anima?

Laer. Perchè mi fate tale inchiesta?

Re. Non perchè io pensi che non abbiate amato vostro padre; ma perchè so che l’amore e la tenerezza sono, come ogni altra cosa, sottomessi al tempo, e ne veggo la prova negli avvenimenti quotidiani: è il tempo che ne modifica la foga e l’intensità. Evvi nell’amore una specie di deperimento che finisce per ispegnerlo, e nulla dura in uno stato sempre eguale, avvegnachè la bontà a forza di crescere degeneri in pleurisia e muoia soffocata dalla sua troppa gravezza. Quel che noi vogliamo, lo dovremmo far sempre nel momento della volontà; perocchè tale volontà in breve cambia e va soggetta a tanti ostacoli e differimenti quante sono le lingue, le mani e i casi che si frappongono, onde allora il nostro concetto si risolve in un doloroso e profondo sospiro che esala e prodiga invano il soffio della vita. Ma veniamo al vivo della piaga. — Amleto ritorna; che vorreste fare, onde provare più che con parole, che siete veramente il figlio di vostro padre?

Laer. Lo sgozzerò a’ piedi degli altari.

Re. Infatti nessun luogo dovrebbe essere un santuario per l’omicida; alla vendetta non dovrebbero esser limiti; ma, prode [p. 78 modifica]Laerte, volete seguire il mio consiglio? Rimanetevi chiuso nelle vostre stanze. Amleto, tornando, saprà che siete qui. Noi l’attornieremo di persone che vanteranno la vostra superiorità e accresceranno le lodi che il Francese vi diede; noi vi condurremo a schermire insieme e faremo scommesse sul vostro valore. Conosco Amleto, egli è senza precauzioni; generoso, incapace di sospetti e di astuzie, non guarderà alle armi; talchè vi sarà facile con un po’ di destrezza di scegliere una spada non ispuntata, e con un colpo ben diretto restituirgli ciò che diede a vostro padre.

Laer. Farò quel che dite, e con tale intento avvelenerò la mia spada. Comprai da un cerretano droga sì micidiale, che, ove tuffiate in essa soltanto la punta di un pugnale, per breve che sia la scalfittura che appresso infligge, non v’ha più rimedio, per quanto potente e composto fosse ancora con tutti i semplici più efficaci che germogliano al chiaror della luna, che salvar possa da morte l’animale che ne sarà stato tocco. Immergerò la punta della mia spada in quel veleno, e alla prima ferita ei sarà morto.

Re. Pensiamoci ancora. Esaminiamo quali siano il tempo e i mezzi più convenienti per ben accudire al nostro disegno. Se questo non riesce e la nostra intenzione traspira, sarebbe meglio non aver mai nulla tentato; convien dunque afforzarci con un secondo espediente che possa riuscire, quando il primo ci manchi. — Attendete... lasciate ch’io pensi. — Faremo una scommessa solenne sulla valentia di voi entrambi. Allorchè nel calor dell’assalto vi sarete infiammati, allora vibrerete i colpi più disperati. Amleto chiederà da bere, io avrò all’uopo una tazza ammannita; e per poco che ei v’intinga le labbra, se per avventura sfugge al vostro ferro avvelenato, a questo secondo mezzo non isfuggirà. Ma che strepito è questo? (entra la regina) Ebbene, mia cara regina?

Reg. Una sventura non viene mai sola..... vostra sorella è morta, Laerte.

Laer. Morta!

Reg. Nella prateria alle sponde di un ruscello profondo sta un salice che specchia le bianche sue foglie nel cristallino dell’acqua; là ella è ita colla testa coperta di ghirlande bizzarramente intessute d’ortiche, di rose, di margherite e di que’ fiori pallidi che le nostre fanciulle chiamano fiori della morte. Mentre ch’ella si sforzava per salire ed appendere alle branche più umili la sua ghirlanda, un ramo si ruppe e l’infelice cadde nell’onde. Le sue vesti enfiate l’hanno sostenuta per un po’ di tempo come una sirena, e così portata dalle acque cantava frammenti d’antiche [p. 79 modifica]romanze, quasi insensibile al suo pericolo o come creatura nata in quell’elemento; ma tal cosa non poteva durare; i panni, inzuppatisi, la trascinarono in fondo, interrompendo i suoi melodiosi concenti.

Laer. Ohimè! spenta è dunque?

Reg. Spenta, spenta.

Laer. Povera Ofelia, vorrei raffrenare le mie lagrime: ma vani sforzi! la natura fa sentire i suoi diritti, e poco le cale che l’uomo arrossisca della sua debolezza. Allorchè queste lagrime saran versate, nulla più resterà in me di femminile. — Addio, signora! Avrei parole di fuoco da proferire, se questi pianti insensati non le soffocassero.     (esce)

Re. Seguiamolo, Gertrude. Quanta pena ho avuta per calmare il suo furore, che ora temo non si rianimi per tale disavventura! Seguiamolo dappresso.     (escono)





Note

  1. Celati volpe: giuoco dei fanciulli inglesi.