All'erta, sentinella!/IV
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IV.
Tutta la notte il capitano Gigli era stato molto agitato. La moglie, che aveva il sonno lievissimo e che non poteva mai riposare profondamente per quella voce delle sentinelle, che si chiamavano ogni quarto d’ora, aveva inteso subito che il marito si voltava e si rivoltava nel letto, che, talvolta, sospirava profondamente come un uomo oppresso.
— Ti senti male? — gli aveva chiesto due o tre volte, schiudendo gli occhi nell’ombra.
— No, no — aveva detto lui con premura. — Dormi tranquilla, sto bene; non ho sonno.
Ella aveva piegato il capo, ubbidiente, cercando di riaddormentarsi in quel leggero riposo dei suoi nervi scossi: ma così, fra veglia e sonno, ella aveva sempre udito che il marito era agitato. Il capitano Gigli, al mattino, si era alzato prestissimo, appena spuntata l’alba, e alla moglie che lo guardava con gli occhi spalancati, meravigliata, egli aveva detto:
— Dormi, dormi, poverina: io vado a fare una passeggiata, una lunga passeggiata.
All’ora di pranzo era tornato un po’ pallido, silenzioso, nervoso. Andava su e giù, si accostava alla finestra, guardava nella via che saliva a Nisida dalla riva, guardava alla spiaggia dei Bagnoli, se qualche barca si staccasse dalla riva. Poi si mise a pranzare, distratto, taciturno. A un certo punto, domandò:
— Ne abbiamo sei di novembre, è vero?
— Sei di novembre — rispose la moglie.
— Perchè, papà, perchè? — chiese il bimbo, che domandava sempre, ostinatamente, con la insistenza di curiosità dei ragazzi, che è la loro intelligenza.
— Te lo dirò più tardi, piccolo figlio — disse il padre rientrando nel silenzio.
Dopo pranzo, verso le tre pomeridiane, si fece portare tutti i giornali dei giorni scorsi, li rilesse febbrilmente. Ma improvvisamente la sua agitazione si calmò: un fattorino del telegrafo, proveniente da Napoli, era entrato e aveva consegnato a Gigli un telegramma. Le mani di Gigli tremavano, aprendo il dispaccio, tanto che la signora Gigli, tremante di una ignota emozione anch’essa, stentò a firmare la ricevuta.
— Ci è l’espresso e la barca — disse il fattorino.
— Quanto è? — chiese la signora.
— Due lire e settanta.
Ella numerava i denari, sogguardando il marito: il capitano Gigli era pallido come un morto, teneva gli occhi fissi sul telegramma, malgrado che non leggesse più, pareva impietrito.
— Ecco lo due lire e settanta — disse la signora.
— Dagli cinque lire, Cecilia, e dagli da bere un bicchier di vino, a questo giovanotto, disse il capitano Gigli, con voce così tramutata che fece fremere sua moglie. — Egli ha portato una buona notizia, una buonissima notizia.
La signora diede il denaro, poi suonò il campanello per chiamar Grazietta; la serva condusse il fattorino a bere in cucina. Attaccato alle ginocchia del padre, il bimbo diceva:
— Papà, dammi il telegramma, il telegramma.
— Ora, ora — disse il padre dolcissimamente.
E siccome erano soli marito, moglie e figliuolo, il capitano Gigli si avanzò verso Cecilia, gravemente, le prese una mano e le disse, con lentezza:
— Cecilia, questo telegramma porta una grande notizia, una grandissima notizia: stamane Vittorio Emanuele è entrato a Venezia. Venezia è nostra, Venezia è italiana.
Tacque. Era un soldato: ma la pelle bruna che si era oscurata e indurita al sole e alle intemperie, era coperta da un mortale pallore e i fieri occhi che avevano contemplato allegramente i campi di battaglia, erano velati di lagrime. La moglie ammirando quel cuore, quel coraggio, quella nobilissima emozione, non gli diceva nulla, pallida anche essa.
— Venezia è italiana — disse, di nuovo, il capitano Gigli.
— Venezia è italiana — ripetette una vocina sottile di piccolino.
Il padre levò su, nelle braccia, il ragazzo e lo baciò freneticamente.
— Venezia è italiana, Venezia è italiana — strideva il piccolo figlio, ridendo, baciando il padre, dibattendosi come convulso di gioia.
— Benedetto figlio, benedetto figlio — diceva il padre, stringendo nervosamente fra le braccia il ragazzo.
La madre contemplava questa scena, sorridendo. Ella provava un minuto di purissima gioia, sentendo che palpito agitava il cuore di quel soldato, di quell’italiano. Da quel momento il capitano Gigli non ebbe più pace: andava, veniva per la casa, dando ordini a Grazietta, pregava la moglie di far la tal cosa, la tal altra, ripeteva, distrattamente, tre o quattro volte la stessa frase, alzava su nelle braccia il bimbo che ogni volta si metteva a strillare con la sua vocina allegramente:
— Venezia è italiana.
Il capitano Gigli scese in ufficio e per un paio di ore vi fu un viavai, un andirivieni di gente che ricevevano ordini, che partivano correndo, che correndo tornavano indietro. Due barche andarono e vennero, varie volte; da Nisida alla spiaggia dei Bagnoli e viceversa. Nell’isola si propagò un gran movimento.
Dappertutto, nell’isola, i lavori dei galeotti vano abbandonati; la forgia non faceva più udire il suo martellare continuo le fabbriche erano restate deserte e dappertutto si formavano dei capannelli di galeotti e di soldati. In un momento che il capitano Gigli rientrava nella sua stanza di direzione, il suo bimbo comparve sul balcone e gli gridò, ridendo, agitando il fazzoletto:
— Venezia è italiana.
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Alle quattro un rullo di tamburo si era udito per tutta l’isola, e dal quartiere, dalle case, dagli stanzoni di ordinanza, dalla così detta fureria, soldati e ufficiali si erano tutti portati sulla larga piazza, innanzi alla casa del direttore. Soldati e ufficiali erano in tenuta di gala, come nel giorno dello Statuto: e ne arrivavano sempre alla spicciolata, che avevano perduto tempo, i soldati, a lustrare la fibbia del centurino, a rimettere i bottoni alle ghette. Un gran chiacchierio vivace si udiva dappertutto. Poi lentamente, a squadre, due per due, arrivarono i galeotti condotti dai capisquadra e dai carcerieri. Come arrivavano, sulla grande piazza, si andavano disponendo a scaglioni, regolarmente: e man mano, sospinti un po’ innanzi, i soldati formarono un quadrato, innanzi alla casa del direttore, tenendo in mezzo gli ufficiali. Dietro i soldati, si distendevano le lunghe file dei galeotti, dai berretti rossi e dai berretti verdi, dalle facce scialbe, dalle facce colorite da un sangue viziato che neanche della galera e la vita all’aria aperta arrivava a castigare. I galeotti parlavano sottovoce, fra loro, ma animatamente e lo scricchiolìo delle catene si elevava nell’aria, sottile ma acuto, quello scricchiolìo ferreo che è il rumore caratteristico del bagno penale. A un tratto, fra i soldati e i galeotti un grandissimo silenzio si fece e il quadrato dei soldati, spinto dai galeotti impazienti che volevano avvicinarsi per veder meglio, per udir meglio, si restrinse un poco.
Era comparso il capitano Gigli, vestito in uniforme, il che gli dava un’aria più forte, più robusta, più severa. Sul petto portava tre medaglie: una al valor civile, l’altra al valor militare, la terza era la medaglia commemorativa della campagna 1859-60. Il capitano Gigli teneva in mano un telegramma e coll’altra conduceva il suo bimbo, il suo piccolo figlio, vestito di bianco, coi capelli ricciuti che gli uscivano dal berretto di lana bianca. Quando il bimbo aveva visto il padre in uniforme, gli si era attaccato alle ginocchia, strillando, perchè voleva andare a forza con lui, e il buon padre, in quell’ora di contentezza, di tenerezza, non gli aveva detto di no: la madre aveva dovuto vestirlo in fretta e in furia, col suo bel vestito bianco che dava un’aria festevole al volto gentile, col berretto bianco di cui il fanciulletto era tanto fiero. Il fanciulletto si era trionfalmente attaccato alla mano del padre, e ogni tanto lo guardava, con certi occhi lucenti di amore, orgoglioso di essere condotto per mano, così vestito, come se fosse un piccolo uomo. La madre le cui mani tremavano, mentre lo vestivano rapidamente, tanto quell’ora solenne la turbava, prima di vederlo uscire, attaccato alla mano del padre, gli aveva dato un bacio in fronte, fra i ricciolini castani, un bacio che pareva un pensiero dato dalla madre alla mente del figlio. Poi, mentre il marito e il figlio discendevano dalla scala nella piazza, ella schiuse le persiane del balcone e vi si nascose dietro, per vedere lo spettacolo non vista. Ebbe come una scossa, quasi traendosi indietro, per un senso di sgomento.
La vasta piazza, la maggiore di Nisida, era piena, e la gente traboccava sino sugli spalti verso i Bagnoli. Nel mezzo, il quadrato dei soldati si era ristretto sempre più e formava una striscia azzurro—scuriccia, dai cappotti dei soldati; poi, attorno attorno vi era la gran popolazione dei galeotti, la gran folla dai vestiti di grossa tela, in tutte le gradazioni del rosso mattone, più forte, più cupo, più sbiadito; e ancora, tutti gli impiegati dell’isola, tutti i fornitori della galera, tutti quelli che vivevano nel bagno penale e pel bagno penale, e in un cantuccio, cercando d’isolarsi da quella folla bizzarra, un gruppo di donne, le mogli degli ufficiali, dei fornitori. E mentre dalla piazza si elevava l’indistinto brusìo delle grandi folle riunite, si indovinava, si sentiva che il resto dell’isola, tutto quanto, città e campagna, case e carceri, strade e piazzette, era deserto, senza un’anima; si sentiva che la concentrazione della vita di Nisida era in quella piazza e che tutto il resto era un gran paese abbandonato.
Alla comparsa del capitano Gigli fu un silenzio universale: il quadrato si allargò un pochino ed egli vi entrò, sempre tenendo per mano il suo bambino; e vi restò, isolato, guardando in faccia tutta la folla, mentre gli ufficiali, i soldati, i galeotti, tutti quanti, galantuomini e colpevoli, facce oneste e facce criminose, tutte erano volte verso di lui, come improvvisamente sbiancate, nell’attesa di una grande cosa. Egli fece un cenno; il portabandiera uscì dalla fila e si venne a mettere alla sua sinistra; la bandiera italiana fu spiegata e un po’ sollevata. Il capitano Gigli, prima di parlare, si volse ad essa e la salutò, portando la mano al berretto; i galeotti, dai berretti verdi e dai berretti rossi, si scoprirono il capo: e restarono così, a capo scoperto, vecchi e giovani innanzi alla bandiera italiana che una lieve brezza sollevava. E per ultimo, il bimbo, lentamente, guardando negli occhi suo padre, si levò il berretto bianco di lana, restando a capo scoperto in mezzo al quadrato. Un grande soffio di emozione era passato su tutta quella gente e il volto del capitano Gigli divenne pallido, mentre schiudeva le labbra per parlare. Tutti lo guardavano, tutti.
Dal suo balcone, vedendo che suo marito cominciava a parlare, Cecilia si ritrasse un momento. Quella gran folla di gente che guardava con tanta insistenza il capitano, quella profonda siepe di galeotti a capo scoperto che premeva e incalzava il picciolo quadrato dei soldati, e più si stringeva, si stringeva, e il bambinetto in mezzo a essi che metteva una breve macchia candida, tutto questo la fece rabbrividire. Ma più di tutto il grandissimo silenzio, il profondissimo silenzio.
— Ufficiali e soldati, — cominciò a dire con voce forte, ma leggermente velata, il capitano Gigli — oggi, all’isola di Nisida, come in ogni città d’Italia, è arrivata una grande notizia. Il nostro re, il nostro generale, il capo del nostro esercito, Vittorio Emanuele, oggi è entrato in Venezia. Venezia è nostra.
Al tremore della sua voce sonora, alla sua emozione, un grande grido rispose, uscito dalle bocche dei soldati e degli ufficiali; era una sola parola che si ripeteva, distinta, precisa, fra altre confuse, una parola che ritornava sempre:
— Venezia, Venezia!
— Abbiamo ragione di essere commossi, tutti, — riprese il capitano Gigli, come il rumore si fu chetato, poichè il grande sogno della unità italiana, per cui migliaia di uomini dettero il loro cuore e la loro intelligenza, per cui migliaia di uomini misero la vita sul campo di battaglia, per cui tutti noi la daremmo ancora, tutti, tutti, i superstiti e i nuovi, i vecchi e i giovani, poichè questo grande sogno dell’unità, ecco, si va avverando, con una nuova e più forte realtà! Oh, Venezia, Venezia! Eravate il dolore della patria che vi piangeva, non morta, ma rubata, eravate il suo cruccio, voi bella, voi grande, voi gloriosa, voi miracolo dell’arte e della fortezza italiana, nelle mani del nemico! Nessuno vi poteva nominare senza piangere nell’anima, tutti i cuori volavano a voi, e le nostre donne portavano sul petto le collane di perle nere che si chiamano lacrime di Venezia! E oggi nessuno pensa a voi, senza fremere di tenerezza, nessuno dice il vostro nome, Venezia, senza sentirsi profondamente felice di esser soldato, di esser italiano!
Un grandissimo mormorio di approvazioni corse fra gli ufficiali e i soldati. La bandiera si agitò nelle mani del portabandiera. I galeotti guardavano, a capo scoperto, taciturni, pensosi, come se aspettassero.
— Io credo, — riprese a dire il capitano Gigli, più lentamente, — che voi tutti, impiegati civili, funzionarii, voi che lavorate oscuramente, ma degnamente per la nostra patria, voi che non sdegnate, poichè ogni servizio nobilmente inteso è nobile, di stare agli ordini della giustizia punitiva, credo che voi, patriotti, italiani, venuti da tutte le provincie italiane, in questo eremo che è anche un luogo di pena, io credo che voi tutti gioite perchè Venezia è nostra. Il telegramma che mi annunzia la lieta novella, soggiunge: che l’entrata di Vittorio Emanuele è stato uno spettacolo commovente e magnifico, che gli uomini veneziani gridavano e piangevano di emozione, che le donne veneziane tendevano i bambini al Re d’Italia, a Vittorio Emanuele, perchè li benedicesse. Che gran cosa, amici miei, è questa che è accaduta oggi. Voi, certo, non potete udirla, senza che un lieto orgoglio vi mandi le lagrime agli occhi.
Tutti gli echi, dintorno, risuonavano di applausi. Cecilia, dietro le persiane, attaccata al legno per non cadere, teneva il fazzoletto sulla bocca, come per soffocare i sospiri. Vi fu un momento di pausa e come una grande ondulazione fra la folla: i soldati e gli ufficiali pareva si fossero ristretti intorno al capitano Gigli, e pareva che i galeotti si sospingessero innanzi, muti, con gli occhi sbarrati, fissi sul direttore del Bagno penale. Costui li guardava; anzi con una sola occhiata in giro li guardò tutti, come se volesse indovinare il segreto delle loro anime.
— O galeotti, — egli disse con voce sonora, che ebbe una vibrazione in tutte le orecchie, in tutte le anime — galeotti, ho voluto che, innanzi alla bandiera italiana sapeste anche voi che Venezia è nostra. Dovunque, nelle città e nei villaggi, nei paeselli e nelle borgate, nelle capanne dei contadini e nella casetta dei cantonieri, dovunque è un italiano, povero o ricco, vi sarà una gioia, oggi: e nei lontani paesi di Europa, nei lontanissimi paesi di America e di Australia, presso il polo e sotto il tropico, dovunque, dovunque ci è un cuore italiano, perduto sui mari, errante nei deserti, quando giungerà la notizia che Venezia è nostra, vi sarà una gioia. O galeotti, io non ho voluto escludervi dalla comune legge di felicità! Voi siete dei micidiali e dei ladri; avete ucciso, col ferro o col veleno, avete incendiato, avete rubato, avete cambiato il vostro cuor di uomini negli istinti biechi del bruto.
— Saggiamente la legge d’Italia, nel nome del suo re e del popolo, per mezzo dei suoi magistrati, vi punisce, togliendovi dalla società dei galantuomini; vi punisce avvinghiandovi col ferro; vi punisce isolandovi; vi punisce condannandovi al lavoro: saggiamente, cercando con la punizione il pentimento. Ma dove la legge di Stato finisce, comincia la legge umana e cristiana: una legge di indulgenza e di misericordia. Severi noi siamo, non spietati. La penitenza purifica: il pentimento purifica. Ogni giorno di più che voi passate in questa galera, lavorando e soffrendo, cancella una linea del vostro peccato. Molti di voi usciranno di qui, fra tre anni, fra dieci anni, fra quindici, e porteranno, vinto dalla dura penitenza, vinto dalla abitudine del quotidiano pentimento, un cuore umano e pietoso. Io così credo. Io credo che tutti possiate diventare buoni: lo credo anche per quelli che dovranno restar qui tutta la vita. È stato grande il loro peccato: ma la misericordia divina, la misericordia umana sono così grandi! Credo che la potenza del bene sia così forte da trasformarvi: credo a tutti i miracoli del sentimento. Ebbene, oggi, io dimentico il passato, lo dimentica la legge, lo dimentica la dura condanna. Non vi debbono essere cuori scontenti, qui, oggi. È un gran giorno, oggi. Dimenticate il passato e il tetro peccato vostro; dimenticate che siete fuori della legge, fuori della società; dimenticate il vostro rimorso e la vostra penitenza. Pensate che oggi è una festa della patria, una festa del paese vostro, una conquista della terra dove nasceste. Voi anche siete italiani. Ricordatevi solo di questo. Italiani, italiani tutti.
Tacque — e nel profondo silenzio si udì un ansare, di cento petti, si udì il singhiozzare di alcuni che piangevano, col capo abbassato. Dietro le persiane Cecilia piangeva, silenziosamente, a grosse lagrime calde. Con un gesto vago, il capitano aveva finito di parlare, guardando adesso la bandiera, fisamente. Ma sopra l’affanno dei petti commossi, sopra i singhiozzi irresistibili, sopra ogni altro rumore di quella invincibile emozione, una piccola voce fioca, sottile, gridò:
— Viva Venezia!
Era il piccolino che gridava accanto al padre agitando il suo berretto di lana bianca. Col breve volto sbiancato, coi grandi occhioni rilucenti, alzandosi in punta di piedi, per farsi vedere, per farsi sentire, agitando le braccia, il bimbo vestito di bianco aveva detto la parola. E tutti quanti, soldati e ufficiali, impiegati e funzionari, tutti quanti galeotti, condannati a vita o a tempo, giovani o vecchi, micidiali, ladri, incendiarii, tutti i galeotti gridarono insieme al piccolo figlio vestito di bianco, gridarono con l’anima, con un rumore di tuono, che si diffuse per tutta l’isola e parve la scuotesse dalle fondamenta:
— Viva Venezia!
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Come le prime ore della sera discesero sull’isola di Nisida, cominciò l’illuminazione. Erano lampioncini di carta trasparente, piccoli, con un lumicino dentro: alcuni erano di tre colori, bianco, rosso e verde; altri, a gruppi di tre, uno rosso, uno bianco, uno verde, formavano i colori nazionali. Ve ne erano dappertutto a strisce, a festoni, a grappoli: lungo le ringhiere dei balconi, sospesi agli sporti delle finestre, sotto gli archi delle porte, alle cornici dei portoni; ve ne erano attaccati ai rami delle acacie, lungo le strade di Nisida e pendevano finanche dalle sbarre di ferro delle finestre del carcere, dove i galeotti erano mandati in punizione dalla parte dell’isola che guarda i Bagnoli.
Attaccata a un alto palo era stata formata, a tre colori, tutta di lampioncini, la stella d’Italia. Ci erano volute due o tre ore di lavoro, per mettere al posto l’illuminazione e i galeotti coi soldati avevano fraternizzato, salendo sulle scale, comparendo nei vani delle finestre, arrampicandosi come scoiattoli, portando in giro le tavole lunghe coperte di lampioncini già accesi, tirando su, dai secondi piani, le canestre piene di lampioncini. Non si udivano che allegri gridi di richiamo, che risate lunghe, quando un galeotto o un soldato scivolava o cadeva, lungo l’arco di un portone; un frastuono giocondo che finiva in un grande scoppio di applausi, quando tutto un lato di una casa compariva illuminato. Alle otto di sera tutta l’isola scintillava come un gioiello sorgente dal mare: e pareva una immensa galleggiante che se ne andasse placidamente per il golfo, in una serata di festa, tutta luminosa, nei patriottici colori che gittavano le loro chiare tinte vivaci e liete sul biancore degli edifici e sulla nerezza della campagna; una galleggiante luminosa donde uscivano, nel silenzio della notte, canti e suoni.
Difatti la musica era incominciata alle otto: era la musica dei soldati residenti a Nisida: mancavano cinque o sei musicanti, ma li avevano richiamati da Napoli, dal quartiere di Pizzofalcone, appositamente, per quella sera.. La musica si era messa sulla piazza, dove intorno a essa si erano aggruppati soldati e galeotti. Tutti erano in libertà quella sera: il capitano Gigli aveva fatto dispensare doppio rancio ai soldati, doppia razione ai galeotti: la consegna degli ufficiali e dei carcerieri era di sorvegliare, ma di lasciar che si divertissero galeotti e soldati. Appena la musica comparve sulla piazza, cominciarono i gridi allegri:
— Marcia reale, marcia reale!
— Inno, inno!
E per una ventina di volte la marcia reale così vibrante nei suoi primi squilli di tromba, che sembrano un richiamo di guerra, così crescente d’impeto nella ripresa, fu alternata con l’inno di Garibaldi, così inebbriante, così entusiasmante. Ogni volta che scoppiavano dalle trombe e dai tromboni la marcia reale o l’inno di Garibaldi, un immenso urlo usciva da quei petti che si diffondeva fragorosamente per tutta l’isola. Talvolta gridavano:
— Viva Vittorio!
Oppure con un rombo simile al tuono, era l’altro grido:
— Viva Garibaldi!
E il rombare ricominciava, con le centinaia di bocche che gridavano:
— Viva l’Italia!
Solo dopo un’ora di musica, per la stanchezza, la fanfara potè finir di suonare la marcia reale e l’inno di Garibaldi; e cominciò a suonare pezzi concertati sui motivi popolari di canzonette fra guerresche e popolane, allora molto alla moda. E per gruppi, seguendo la musica che intuonava la Bella Gigogin, o Fenesta che lucivi, i soldati e i galeotti si mettevano a cantare, tutti insieme, alcuni cercando finanche di fare sfoggio di voce; e quando si arrivò alla ancora famosa Addio Rosina, addio, vi fu un concerto in piena regola, con le voci in minore e in maggiore, con quelli che cantavano gutturalmente, senza dire le parole, come se facessero l’accompagnamento.
— Ancora, ancora? — gridavano quando volevano sentire di nuovo un pezzo.
Ogni tanto, uno dei musicanti scompariva ed entrava silenziosamente nella casa del direttore Gigli, in cucina, dove Grazietta gli dava un bicchiere di vino: e il musicante ritornava in piazza, a suonare con più forza. Non vi era stato vino, pei soldati e pei galeotti, ma essi erano tutti eccitati dai lumi, dall’aria aperta, dalla musica, dai canti, dalle loro voci stesse: parevano in preda a una grande ebbrezza. A un tratto la musica suonò una polka.
— Prendimi su, prendimi su — disse il bimbo a Sciurillo.
Attaccato alla mano di Rocco Traetta, il bambino aveva seguito tutti i progressi della illuminazione, battendo per la consolazione le piccole mani innanzi alla stella d’Italia, illuminata nei tre colori. Senza stancarsi aveva girato per l’isola, tornando ogni tanto sotto il balcone di mamma sua. Ella appariva e lui gridava, da basso:
— Mamma cara, mamma cara!
— Vieni su?
— No, no, vado via, mi porta Sciurillo.
— Non dubitate, non dubitate — diceva il galeotto.
Ogni tanto, mentre lo portava in giro, Rocco Traetta, gli domandava:
— Signorì, non avete freddo?
— Ho caldo — diceva il ragazzo.
Quando avevano cantato in piazza, anche lui, levando il capo, con la sua sottile vocina, aveva ripetuto il ritornello della Bella Gigogin e L’armata se ne va. Ma quando intese il suono della polka, egli cominciò a dire, con insistenza:
— Sciurillo, Sciurillo, levami su.
Rocco Traetta, credendo che fosse stanco, lo levò su, nelle braccia poderose, posandolo sopra una spalla, in alto, dove il bimbo rideva e gli batteva i piedini sul petto.
— Fammi ballare, Sciurillo.
Allora cercando di farsi largo coi gomiti, tenendo sempre alto il ragazzo, Rocco Traetta cominciò a girare lentamente, lentamente, al suono della polka. Questo fu il segnale. Delle coppie di soldati si formarono subito. Si tenevano stretti stretti, per la vita; alcuni afferravano il cappotto del compagno nel dorso, e lo stringevano nel pugno; ballavano con lentezza sapiente, con le gambe un po’ allargate, coi berretti buttati indietro, sulla fronte, con il mento sulla spalla del compagno. Sul principio i galeotti si astennero guardando: ma come Rocco Traetta portava sempre in trionfo il bimbo che rideva, rideva, qualche coppia di galeotti si formò, strisciando curiosamente la polka. Alcuni erano giovanotti di malavita, napoletani, e sapevano ballar bene; non si curavano della catena che pesava e strideva; niuno udiva il ferreo scricchiolìo. Altri galeotti avevano formato dei circoli e giravano a tondo, ridendo, gridando, ballando, rialzandosi, mentre la musica affrettava sempre più le sue misure. Sulle teste di tutti girava il bimbo, tenuto alto nelle braccia di Sciurillo e il fanciullo biancovestito dava dei colpi leggieri sui capelli rossi di Sciurillo, ridendo, nel clamore, nella luce di quella notte.