Alessandro Manzoni (De Sanctis)/Lezioni/IV. Il «Cinque maggio»

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IV. Il «Cinque maggio»

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Lezione IV

[IL «CINQUE MAGGIO»]

Dunque seguiamo il Manzoni nella formazione faticosa dei suoi ideali. Io vi mostrai negl’inni gli elementi di un nuovo mondo e di un nuovo uomo, che il Manzoni poi ha cercato realizzare nell’Adelchi e nell’Ermengarda. Ha tentato di realizzarli drammaticamente; ma come vedemmo ne è riuscito un Coro, un semplice accento lirico.

In effetti, perché la lirica cristiana non sia una semplice effusione piena di unzione, una vuota generalità, è necessario che il poeta vi aggiunga la lotta ove si sviluppa l’elemento drammatico, la lotta tra il terreno e il divino.

Nel Medio Evo quella lotta concepivasi in modo esteriore e spesso fantastico e grottesco: i romantici, che ricostruivano nel secolo XIX il Medio Evo, han cercato ottenere l’effetto esteriore dal fantastico e dal grottesco, come vedremo quando esamineremo l’Ildegonda di Tommaso Grossi. Basta che voi ricordiate le «missioni» dei vostri paesi, rammentiate come i predicatori rappresentano la morte cristiana: al letto del morente sono l’Angelo buono e l’Angelo cattivo, che si contendono l’anima: uno vuol inspirare nel moribondo la memoria delle sue vicissitudini terrene, l’altro cerca di elevarlo al cielo. Ecco il grottesco, ma questo grottesco è stato pure il fondamento di tutta la poesia del Medio Evo. Che cosa è infatti la Divina Commedia? Ma la lotta tra il terreno e il divino presentata in tre momenti successivi, Inferno, Purgatorio e Paradiso!
[p. 140 modifica]        Saltiamo i secoli, veniamo al romanticismo. Che cosa è il Faust del Goethe? È la lotta tra il terreno e il divino, tra Dio e Mefistofele, prima intorno all’anima di Margherita. Quando Margherita è salva, ella stessa poi diventa lo strumento della salvazione di Faust, non ostante il patto da lui conchiuso col diavolo. La Divina Commedia è epica, perché là la lotta è presentata in momenti successivi; il Faust è dramma, la lotta è presentata come collisione permanente: in tutt’i fatti, in ogni scena v’è il contrasto tra il terreno e il divino. Margherita che tormentata dallo spirito cattivo, quando sta per spirare, ha da presso Mefistofele il quale cerca tirarla a sé, è la donna nella lotta simbolica esteriore tra il demonio e Dio.

Manzoni come poeta del secolo XIX voleva emancipare la lotta da questo elemento simbolico ed esteriore, presentarla direttamente, come in ogni tragedia, tra i personaggi e gli avvenimenti; e volle darci la lotta in Ermengarda tra l’amore di Carlo e la tendenza cristiana. Non occorre ripetere quello che vi dissi, sapete ora perché non è riuscito: sentite la lotta svanire in quel dramma in cui Ermengarda rimane un incidente: il substratum vero della poesia ivi è il Coro.

Da questo fondamento cristiano non esce solamente una lirica più o meno drammatica, ma un nuovo mondo epico, in cui la storia è guardata con l’occhio dell’altra vita, come storia di Dio, del quale l’uomo non è che ombra, apparenza, strumento. Questo nuovo mondo epico si trova anche inviluppato negl’Inni: così nella Pentecoste, nella Risurrezione trovate un nuovo modo di considerare le cose umane. Centro di questo mondo epico è la morte che ci dà il sentimento della vanità delle cose: ci avete il pensiero di Petrarca:

Veramente siam noi polvere ed ombra.

Fondamento di questo mondo è l’elemento provvidenziale, la storia è considerata come opera della Provvidenza, come la storia di Dio: è il mondo come l’ha concepito Bossuet, e prima di lui S. Agostino. E notate: se il mondo rappresentato come [p. 141 modifica]storia di Dio fosse regolato da Dio come intelligenza o ragione accessibile all’uomo, poca differenza sarebbe tra questo concetto e il concetto moderno della storia, poiché Dio, comunque in diversa maniera ognuno se lo figuri, è il complesso delle leggi eterne secondo cui cammina il mondo. Però nel senso cristiano Dio è volontà ragionevole, ma ragione imperscrutabile all’uomo, il quale non ha il diritto di domandare: — Perché? — . Quando vuole spiegarsi i mali della vita, non può domandarne la ragione all’Onnipotente; gli si risponde:— I suoi fini sono imperscrutabili! — . Fondamento di questo mondo è dunque l’arbitrio divino, all’uomo rimane la rassegnazione, il «chinar la fronte», come vedremo oggi.

Ora tutti questi concetti, una volta che il poeta li ha fatti suoi, ed ha pensato prima di manifestarli indirettamente negl’Inni, poi ha cercato concretizzarli drammaticamente in Adelchi ed Ermengarda, non sono oziosi, diventano la forma del suo concepire e del suo sentire. Oramai checché tratti Manzoni, questi concetti vi devono entrare, egli deve concepire così, pensare cosí.

Questo modo di concepire e di sentire di un uomo mette tra la realtà e lui una specie d’involucro, a guisa del velo di Iside. Con questa differenza, che il velo non è intorno ad Iside, ma entro di noi, nel nostro cervello. Quei preconcetti costituiscono qualcosa d’intermedio che non ci fa attingere la realtà direttamente, ma sempre con quel concetto in mezzo tra essa e noi.

Capite ora come Manzoni ha potuto concepire il Cinque Maggio. Non sono più qui avvenimenti cercati nelle cronache, nel Medio Evo, ma avvenimenti contemporanei, che fecero la più grande impressione in tutt’i popoli civili. Egli prende la penna sotto la ripercussione della impressione contemporanea. Ebbene, quando Manzoni concepisce Napoleone, tra lui e la realtà si presenta l’involucro, cioè quel concetto che or ora vi ho spiegato: il mondo provvidenziale, storia di Dio; l’uomo strumento della Provvidenza; e ciò non può non esercitare influenza sul suo spirito. In questo che ho chiamato involucro o cornice, Manzoni inquadra il Cinque Maggio. [p. 142 modifica]Che cosa è Napoleone? Un uomo fatale, uno strumento della Provvidenza, l’orma più vasta dello spirito creatore:

Del creator suo spirito
Più vasta orma stampar.

Che è la gloria?
                         ...Ai posteri
L’ardua sentenza.

Noi dobbiamo riconoscere nella gloria un raggio di Dio, e senza osar dire se è vera o falsa, inchinarci al voler divino:

                                   ... Nui
Chiniam la fronte al Massimo
Fattor...

Quando questa gloria giunge al cospetto del cielo, dell’altra vita, che diviene? Silenzio e tenebre:

Ov’è silenzio e tenebre
La gloria che passò

E quando l’uomo è oppresso dal peso delle sue rimembranze, avviene un miracolo epico secondo il concetto cristiano: una mano scende dal cielo, lo toglie dalla terra, lo trasporta «in più spirabil aere». Tutte le vicissitudini di Napoleone, grandi gioie e grandi dolori, son opera di Dio:

Quel Dio che atterra e suscita,
Che affanna e che consola.

        Ricomparisce innanzi a questa realtà quel mondo lirico-epico di Manzoni, che già vi ho presentato. Ma tutto questo penetra la sostanza della poesia? Questa che l’autore vi presenta è veramente la storia di Dio? Sentite voi che Napoleone è lo strumento di Dio? Avete impressione religiosa qui, il sentimento del soprannaturale? Quel Dio che atterra e suscita è invisibile in [p. 143 modifica]tutta questa storia umana, ed all’ultimo si manifesta in modo cosí commovente:

Sulla deserta coltrice
Accanto a lui posò;

lo sentite voi in tutte le parti di questa poesia? Il sostrato religioso penetra tutto l’insieme?

Io vi domando se dopo letta la poesia sentite quel profondo raccoglimento che si prova leggendo Giobbe o il Bossuet o i grandi scrittori cristiani. No; che sentite? Quali impressioni avete leggendo il Cinque Maggio? Voi sentite quella grande realtà, Napoleone.
È il caso di cui vi ho parlato altre volte. Non sempre quello che il poeta vuol fare lo fa. Egli ha voluto formare un’epopea cristiana, la storia del mondo penetrata dalla storia di Dio, e tutto ciò si riduce ad una semplice macchinetta poetica, e ve ne accorgete solo all’ultimo, quando viene la mano divina a prendere Napoleone e ad avviarlo
Ai campi eterni, al premio
Che i desiderii avanza.

Lì comparisce il Deus ex machina: tutto il resto è la realtà che l’autore ha sentita e rappresentata.
Così sempre avviene all’uomo di genio.
Il pedante, quando si ha formato un involucro nella sua testa, vi rimane; su lui non opera la grande fecondatrice degli ingegni, la realtà. Manzoni si trova sotto l’impressione vera, contemporanea, è ispirato da essa; quindi, mentre vuol fare la storia di Dio, che gli esce? La leggenda di Napoleone; gli esce Napoleone non com’era concepito dalle persone adulte, intelligenti, colte, ma come [era] concepito dalle moltitudini, dal popolo.

        Napoleone è uno dei personaggi piú complessi che ci presenti la storia. Ci è in lui il lato poetico, perché egli amava la [p. 144 modifica]Francia, amava la gloria, avea il sentimento vivo dell’ordine, aveva anche il suo sentimento astratto della giustizia, era uomo moderno, diffuse quelle idee colla spada. Ma ci è un’altra parte, che fa di lui una delle figure piú difficili ad essere attinte, non dirò dal poeta, ma dallo scienziato e dallo storico.

Manzoni ha gittato via tutto questo: non ci è per lui il francese, non l’uomo contemporaneo, l’uomo dalle idee moderne, rivoluzionario, che pose fine alla rivoluzione e instaurò la reazione. Tutto questo contenuto svapora innanzi a Manzoni come Napoleone era svaporato innanzi alle moltitudini. Che era Napoleone pel popolo?
Il popolo non vede nelle cose umane che ciò che può ammirare, ciò che desta il maraviglioso: ci vede il miracolo. Se fosse capace di vedere sotto al miracoloso le leggi severe dello spirito, avrebbe intelligenza adulta, forte, non sarebbe più popolo. Il grand’uomo innanzi al popolo è una forza vuota: nei tempi barbari, forza fisica, ed allora si hanno gli Orlandi e i Rinaldi; ne’ tempi più civili, forza intellettuale, morale. Che c’è dentro questa forza? Qual uso se ne è fatto? Che effetti storici ne sono usciti? Qual missione aveva Napoleone? L’ha egli compiuta? Tutte queste cose escono fuori dal concetto del popolo, il quale ammira la grandezza dell’uomo, la grandezza straordinaria degli avvenimenti, quella morte straordinaria: il vedere quel grande, solo, silenzioso, confinato sullo scoglio di Sant’Elena, ingrandisce il piedistallo su cui l’immaginazione del popolo mette Napoleone. Manzoni, ritraendo il Napoleone delle moltitudini, ne ha tolto fuori tutt’i particolari determinanti che ti dánno il Napoleone di Victor Hugo, o di Lamartine, o di Béranger, e non ti presenta innanzi che gli effetti vuoti della forza, come è naturalmente, come la tempesta e il fulmine. Questo, lo vedete scoppiare e non gli date alcun fine, non gli domandate perché scoppia, perché ha ucciso piuttosto uno che un altro.

        Nel Cinque Maggio quindi vibra una corda sola, v’è una sola corrente: è la rappresentazione del maraviglioso e dello straordinario, sia come forza generale dell’uomo, sia come lo [p. 145 modifica]straordinario delle vicissitudini storiche. C’è la sola corda del maraviglioso.

        In che modo questa ispirazione vera ha fatto suonare quella corda? Come il poeta ne ha saputo cavare gli effetti del maraviglioso? Entriamo ora in particolari di pura forma, per intendere gli effetti estetici del poema.

        La parola, la quale deve produrre gli effetti del maraviglioso, finché riman nella regione delle idee o dei concetti, può riuscire, perché le basta un pensiero che vi rappresenti innanzi qualcosa d’infinito, per attingere il suo scopo. Quando Manzoni ci dice :

Ai lieti campi, al premio
Che i desiderii avanza,
Ov’è silenzio e tenebre
La gloria che passò,

tutto questo è un maraviglioso di concetto, un gran pensiero che vi fa balenare innanzi qualcosa di non definito, che vi dà l’immagine dell’infinito, come quel « premio che avanza il desiderio », come la gloria divenuta « silenzio e tenebre ».

        Avete qui un concetto sublime; ma se il Cinque Maggio fosse così cucito di concetti sublimi, sarebbe una storpiatura. Manzoni non ricorre a questo mezzo facile del sublime che verso l’ultimo, quando sparisce l’uomo e comparisce Dio, Dio che è l’espressione estetica del concetto del sublime. Nel resto dell’ode il poeta non ricorre punto a simili concetti.

        Qui sta la principale differenza tra l’ode italiana e quella di Lamartine, di Béranger, di Victor Hugo. Ivi il poeta a proposito di Napoleone esprime i suoi sentimenti, le sue aspirazioni, corre appresso a’ concetti; qui il poeta sparisce, avete innanzi la realtà storica nei suoi momenti successivi; perciò là domina il carattere lirico, questa del Manzoni è strettamente produzione epica.

        Rinunziando a questo sublime di concetti, e pure volendo innalzare l’immaginazione nella regione dell’infinito, la parola è insufficiente, rimane al disotto rispetto alla pittura, quando [p. 146 modifica]non si ricorre ai concetti ma ai fatti. Perché la parola è obbligata a mettervi successivamente innanzi i fatti maravigliosi, la pittura li raggruppa in un quadro solo e vi produce impressione immediata. Per sentire il maraviglioso in poesia siete obbligati a percorrere successivamente tutta una serie, e poi l’immaginazione deve formarsene un quadro ideale; essa è obbligata ad un lavoro faticoso di ricostruzione. Quando invece avete un quadro innanzi, tutte le idee e i fatti aggruppati nel quadro vi dànno una impressione simultanea. Nell’arte le impressioni «mediate» sono seconde impressioni, après coup, come dicono i Francesi, e ci lasciano freddi, mentre niente è così irresistibile come l’impressione instantanea che vi viene dalla vostra visione.

        Come farà il poeta per rimediare a questo difetto non suo, ma dello strumento che adopera? Ricorre al sistema de’ gruppi, che è un grande ed efficace strumento di poesia. Che cosa sia questo sistema, ve lo spiegherò ora.

        Che cosa è dunque il sistema de’ gruppi? Si tratta di fare colla parola quello che fa il pittore: rompere le distanze, sopprimere i tempi, togliere la successione negli avvenimenti, fonderli, aggrupparli, e di tanti avvenimenti diversi per tempi e per luoghi formarne un solo che produca impressione instantanea.

        Per uscire dalle astrazioni, vi darò qualche esempio; e prima, le battaglie di Napoleone. Se il poeta rappresentasse successivamente le diverse battaglie, Marengo, Austerlitz, Waterloo, per quanto ciascuna sia interessante, sarebbe impossibile per voi avere quell’impressione che viene dal simultaneo e dall’insieme; avreste impressioni successive, lente, mediate. Che fa il poeta? Vi deve dare un quadro come il pittore, deve emulare costui. E in che modo? Trovando un’immagine che faccia da centro, intorno alla quale si aggirino avvenimenti, tempi e luoghi; togliendone ciò che è successivo in realtá e presentando un effetto d’insieme. Quando per esempio egli dice:

Di quel securo il fulmine
Tenea dietro al baleno;
Scoppiò...
[p. 147 modifica]vi presenta una grande immagine: appena ci è il baleno, cade il fulmine e scoppia. Intorno a questa immagine pittorica aggruppa tempi e luoghi diversi: colla stessa rapidità con cui al baleno succede il fulmine, vedete comparirvi innanzi il Manzanarre e il Reno, le Alpi e le Piramidi: si presentano infiniti spazii, che la vostra immaginazione riempirà subito degli avvenimenti che vi si riferiscono. Dopo l’immagine centrale pittorica, il poeta ripiglia subito avvenimenti, tempi e luoghi, compie l’effetto d’insieme, dicendo:
Scoppiò da Scilla al Tanai,
Dall’uno all’altro mar.

        Ecco come il poeta può raggiungere l’effetto del simultaneo, come il pittore nel quadro. Questo nel Cinque Maggio è il sistema generale di Manzoni. Egli non ha presente la storia di Napoleone esposta successivamente, come in un poema epico; ha innanzi tre o quattro situazioni drammatiche di Napoleone, che insieme dànno l’idea di tutta la vita dell’eroe, e ciascuna di esse situazioni ha per centro un’immagine pittorica che si fissa nella fantasia, e intorno alla quale si avvolgono tempi, luoghi, avvenimenti, attirati e mossi da quella.

        Guardate per esempio al principio la prima immagine colossale: la spoglia di Napoleone, e dirimpetto la terra immobile come la spoglia. Andate avanti e trovate l’esempio citato del fulmine che scoppia dietro al baleno, poi quel

Due volte nella polvere,
Due volte sugli altar,

conclusione che vi spaventa per la novità delle parole e la grandezza dell’immagine intorno a cui girano tutti gli avvenimenti di Napoleone. Procedete ancora innanzi: trovate un’altra grande immagine. Napoleone assiso tra due secoli; e poi il Napoleone tradizionale, con gli occhi bassi e le mani conserte sul petto, [p. 148 modifica]come si vede in tutte le statue; e all’ultimo l’immagine di Napoleone sulla coltrice, con Dio che gli è d’accanto. Ecco, in tante immagini, tanti centri di vita e di azione.

        Che ne nasce? La vastitá della prospettiva e dell’orizzonte. Quando si è saputo raggruppare con questo sistema fatti distanti per tempi e per luoghi, e presentarli come simultanei, che avete innanzi a voi? Sentite l’infinito, avete innanzi l’immenso. Permettetemi ch’io vi citi una strofa:

      La procellosa e trepida
Gioia di un gran disegno,
L’ansia d’un cor che indocile
Ferve, pensando al regno;
E il giunge, e tiene un premio
Ch’era follia sperar;
      Tutto ei provò: ecc.

Vi domando: — Quale effetto sentite vedendo tutti questi fatti, tutta la storia di Napoleone, così raggruppata insieme? — . Appunto un immenso orizzonte, che comincia dalla procella e va a finire a quella grande immagine pittorica:
Due volte nella polvere.
Due volte sugli altar.

Ma non basta che i gruppi sieno ben fatti e gli orizzonti vasti. Ci vuole lo sviluppo di questi orizzonti. Se avete innanzi un vasto cielo senza poter fermare lo sguardo in qualche punto, avrete vuota generalità; sublime di concetti come in quell’
Ov’è silenzio e tenebre
La gloria che passò,

non il sublime pittorico. Questi gruppi hanno un proprio sistema di sviluppo, che sarebbe sconveniente quando si trattasse di rappresentare il successivo.

        Presentando una serie di fatti aggruppati, l’effetto che vuoisi indurre nel lettore non è tratto da questo o quel fatto, ma da [p. 149 modifica]tutta la serie che opera con forza concentrica e condensata. Lo sviluppo nasce da’ rapporti, ravvicinamenti o contrasti di que’ fatti, tempi e luoghi diversi, costretti dall’immaginazione a riunirsi intorno ad una sola immagine.

        Prendete il preludio, che comincia con suono di «gran cassa», il quale continua sino alla fine: perché qui, vi ho detto, c’è un sol motivo, una corda unica che vi tira fino all’ultimo, senza lasciarvi un momento di riposo: e già vedete là il sistema de’ ravvicinamenti. Napoleone è morto: «Ei fu»!

        Ma a proposito, tra le altre nostre umiliazioni ricordo questa: un critico nostro volle fare un esame del Cinque Maggio, dimostrando esservi molti errori di grammatica. E diceva — «Ei fu». Chi «ei»? Secondo la grammatica il pronome si riferisce ad un nome detto innanzi: ora innanzi ad «ei» è il Cinque Maggio; dunque, il Cinque Maggio fu! — .

        Questo stesso critico diceva a proposito di quella strofa:

      E ripensò le mobili
Tende, e i percossi valli ecc.

— Ma questa è situazione da caporale, non da generale in capo. Giacché il caporale bada a tutti questi movimenti — .

        Dunque: «Ei fu». Chi «ei»? Non è solo l’«ei» del poeta, ma quello di cui tutti parlavano, per cui tutti erano commossi. Fin dal principio avete un ravvicinamento gigantesco: qui il cadavere, là la terra così stupita, muta ed immobile che rassomiglia al cadavere.

        Questo potrebbe parere qualcosa che oltrepassa il vero. Ma vediamo: ci sono certe statue in scultura, che vedute da vicino sembrano sconciature, e da lontano acquistano proporzioni naturali, come le statue della piazza del Plebiscito e i due cavalli di bronzo. In poesia accade lo stesso. Certe colossali concezioni, esaminate a freddo, dopo l’impressione immediata dei fatti, vedute con seconda impressione, sembrano cose grottesche, innaturali, come sembravano a quel critico che non sentiva piú l’impressione immediata. Ma le concezioni colossali della poesia [p. 150 modifica]vedute da lontano sembrano vere e naturali. La «lontananza» in poesia è la vista in immaginazione, il guardare le cose con l’immaginazione; e quando questa si è saputa concitare, togliendola dal mondo ordinario delle misure e trasportandola in una regione superiore, tutto s’ingrandisce. Supponete qui l’immagine sola e che tutto il resto rimanesse freddo, allora si avrebbe uno sconcio ravvicinamento fatto a freddo, sottilizzando, lavorando più con l’intelligenza che con l’immaginazione. Ma qui il poeta stando sotto una possente impressione immediata, questa poesia è così rapida, calda, corrente con tanta uniformità fino all’ultimo sullo stesso tono, che le proporzioni naturali cambiano, il gigante pare naturale.

        Ricorderò que’ versi:

      Ei sparve, e i dì nell’ozio
Chiuse in sì breve sponda,
Segno d’immensa invidia
E di pietà profonda,
D’inestinguibil odio
E d’indomato amor.

        Qui il ravvicinamento è così intrinseco alla realtà, ha l’aria così naturale, che pochi di voi ci avranno badato. Qui vedete la statua colossale impicciolirsi esternamente innanzi agli occhi. Quell’uomo tanto operoso, eccolo in ozio: quell’uomo a cui l’Europa pareva piccola e [che] abbracciava coll’immaginazione tutto il mondo, eccolo chiuso in sì breve sponda! Vedetelo nella miseria quell’uomo, ecco il grande caduto. Ebbene ei diventa ancora più grande: vedete come il verso subito ripiglia:

Segno d’immensa invidia
E di pietà profonda.

        È di lui che tutti si occupano, egli è ancor grande nell’invidia degli uni e nella pietà degli altri. La grandezza, l’infinito, il maraviglioso, risultano dal ravvicinamento improvviso dello stato di abbiezione al quale quell’uomo sembra ridotto, e [p. 151 modifica]dell’impressione grande che ancor produce sul mondo. Non solo qui il maraviglioso è coordinato al sistema di gruppi, ai larghi orizzonti, ma anche al modo di sviluppo particolare.

        Togliete questo e avrete le antitesi di Victor Hugo. Leggete l’ode del poeta francese e vi troverete non più sistemi di gruppi, ma concetti isolati, subbiettivi, la sua maniera particolare di considerare Napoleone. Allora l’antitesi diviene qualche cosa di cercato, di soprapposto, diviene vizio. Qui l’antitesi non appartiene allo spirito del poeta, Manzoni è il poeta più semplice d’Italia; ma è la natura stessa della cosa, è il naturale sviluppo di ogni sistema di gruppi. Dove sono gruppi, là avete rapporti, somiglianze, raffronti, antitesi, contraddizioni.

        Continuiamo ancora ad analizzare. In un genere tale di poesia fondata sopra una sola corda e sviluppata per via di raffronti, antitesi, ecc., che dev’essere la parola? Qui se la parola descrivesse o narrasse, se rappresentasse qualche idea accessoria, qualche ornamento soprapposto, non inerente alle cose, sarebbe la traditrice di questa concezione, di questa poesia. Avremmo dissonanza compiuta tra la parte elegante o pomposa o descrittiva o narrativa, e una concezione trasportata in regioni sì alte e fondata su di un sistema cosí speciale. Ma qui trovate una virtù che impressionò specialmente i critici francesi. Charles Didier mette quest’ode su tutte le poesie fatte in Francia, e non sapendo o non potendo andare addentro, la parola lo colpisce. Per mostrarvi che è questa parola densa, concentrata come l’immagine, perché tutto è qui lavoro di concentrazione, ricorderò quei versi:

      Oh quante volte, al tacito
Morir d’un giorno inerte,
Chinati i rai fulminei.
Le braccia al sen conserte...

        Qui ogni epiteto, che condensamento di cose presenta, come è pregno di sottintesi! «Al tacito morir d’un giorno inerte»: non è descrizione di un tramonto; quell’uomo che prima finiva il giorno così pieno, in mezzo a tanto frastuomo, a tanti [p. 152 modifica]avvenimenti, tra le grida di gloria, vede lì per la prima volta morire il giorno tacitamente: vede il tramonto taciturno di un giorno inerte, mentre non ci era inerzia per lui. Ecco il suo martirio!


Chinati i rai fulminei...

        Guardate alla scelta degli epiteti: quegli occhi che fulminavano, ora sono chinati; ci è l’antitesi non cercata, ma propria delle cose.

        Non vi parlo di quell’onda di memorie che lo assale, tutta una battaglia rappresentata per via di sostantivi e di aggettivi: tutto è succo in questa poesia.

        Andiamo ancora un po’ innanzi. Quando una poesia è indovinata, tutto è indovinato. Il metro del Cinque Maggio è già italiano, ma ricreato, rifatto dal Manzoni. Che cosa sono queste strofette di sei versi? e in sei versi sempre condensata una serie di avvenimenti che dà l’effetto di un quadro? È il verso alessandrino, il verso francese, il doppio settenario, il verso di quattordici sillabe divenuto italiano e chiamato martelliano. Ma il verso francese si scrive intero e qui è diviso in due. Qual’è la differenza? Il verso alessandrino è stucchevole per la sua uniformità e cantilena e cascaggine; in Italia è riuscito solo nel genere comico, come l’ha usato Goldoni; i Francesi lo adoperano nella poesia seria, anche nell’epopea.

        Manzoni in questo alessandrino getta uno sdrucciolo, ecco la novità: uno sdrucciolo che passa rapidamente sopra il suo complemento per dar la mano all’altro verso sdrucciolo: non potete fermarvi in questo accavallarsi di sdruccioli, dovete andare fino alla fine.

        Vedete:

      E ripensò le mobili
Tende e i percossi valli...

        Appena viene quel «mobili», tutto il resto ve lo mangiate, e correte all’altro verso. Perciò avete nell’ode una corrente continua, la rapidità, il calore, che vi mostrano la rapidità e il calore con cui il poeta ha dovuto concepire quest’ode. [p. 153 modifica]        Ora, ripigliando il cammino e ritornando là donde ci eravamo mossi, che cosa è il Cinque Maggio? C’è un contenuto religioso? C’è il sentimento del soprannaturale? Tutto ciò che di religioso vi ha messo Manzoni, è la sostanza della poesia? No, un semplice involucro, la cornice del quadro. Sapete che i santi sono rappresentati con intorno un’aureola; ebbene, che cosa è questo Cinque Maggio? È la statua di Napoleone con quell’aureola postavi dal poeta: quell’aureola è la cornice, il quadro è Napoleone. E che cosa è questa immagine di Napoleone? È Napoleone come è concepito dal popolo, una forza vuota che vi imprime l’effetto del maraviglioso.

        Capite ora perché il Cinque Maggio sia riuscito la poesia più popolare in Italia, non solo rispetto alla lirica arcadica ed accademica, ma anche rispetto alla lirica di Foscolo e di Parini, la quale s’indirizzava ad un circolo ristretto di lettori, non penetrava negli strati inferiori della società. Questa è la prima poesia popolare in Italia, ed è stata tale anche fuori: in Germania se ne fecero cinque traduzioni. Goethe ne fece la prima. Alfieri, Parini, Foscolo, vi rappresentano un mondo non intimamente collegato colle tradizioni e coi sentimenti popolari, che richiede un sentimento sviluppato, abitudine di pensare molto svolta per essere gustato. Ecco perché in Italia non avevamo ancora letteratura popolare né in prosa né in poesia. Pregio di Manzoni è l’aver trovato il modo di rendere popolare la poesia lirica.

        Cosi egli è il vero creatore della poesia popolare, come sarà il creatore della prosa popolare.

        Continueremo nelle seguenti lezioni a studiare come allontanandosi l’ideale del Manzoni a poco a poco dalla astrazione, giunga in fine ai Promessi Sposi, il suo capolavoro.


        [Ne La Libertà, 21-22 febbraio 1872].