L'isola misteriosa/Parte seconda/Capitolo XIII

Parte seconda - Capitolo XIII

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Jules Verne - L'isola misteriosa (1874-1875)
Traduzione dal francese di Anonimo (1890)
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CAPITOLO XIII.


Partenza decisa — Ipotesi — Preparativi — I tre passeggieri — Prima notte — Seconda notte — L’isola Tabor — Ricerca sul greto — Ricerche nei boschi — Nessun animale — Piante — Una abitazione deserta.

— Un naufrago! esclamò Pencroff, abbandonato a poche centinaja di miglia da noi, in quell’isola Tabor! Ah! signor Cyrus, ora non vi opporrete più al mio viaggio?

— No, Pencroff, rispose Cyrus Smith, anzi partirete il più presto possibile.

— Domani?

— Domani. [p. 32 modifica]

L’ingegnere teneva in mano la carta estratta dalla bottiglia, la meditò per alcuni istanti, poi, ripigliando la parola, disse:

— Da questo documento, amici miei, dalla forma medesima con cui è concepito, si deve prima di tutto argomentare, che il naufrago dell’isola Tabor è un uomo fornito di cognizioni abbastanza vaste di marina, posto che egli dà la longitudine e la latitudine dell’isola conformi a quelle che noi abbiamo trovato, coll’approssimazione perfino dei minuti; secondariamente, ch’egli è inglese od americano, poichè il documento è scritto in inglese.

— Ciò è perfettamente logico, rispose Gedeone Spilett, e la presenza di questo naufrago spiega l’arrivo della cassa sulla costa dell’isola. Ci fu un naufragio, dal momento che v’è un naufrago. Quanto a quest’ultimo, chiunque egli sia, è una fortuna per lui che Pencroff abbia avuta l’idea di costruire il battello e farne oggi l’esperimento, perchè ancora un giorno di ritardo e la bottiglia poteva spezzarsi sugli scogli.

— È vero, disse Harbert, è vero, è una fortuna che il Bonaventura sia passato là, precisamente quando la bottiglia galleggiava ancora.

— E la cosa non vi sembra bizzarra? domandò Cyrus Smith a Pencroff.

— Mi sembra fortunata, ecco tutto! rispose il marinajo; forse che ci vedete qualche cosa di straordinario? Questa bottiglia bisognava pur che andasse in qualche parte, e perchè non qui come altrove?

— Avete forse ragione, Pencroff, rispose l’ingegnere, eppure....

— Ma, fece osservare Harbert, nulla prova che questa bottiglia galleggi da un pezzo sul mare?

— Nulla, rispose Gedeone Spilett; anzi il documento sembra essere stato scritto da poco tempo; che ne pensate, Cyrus? [p. 33 modifica]

— Ciò è difficile da accertare, e, d’altra parte, lo sapremo, rispose l’ingegnere.

Durante questa conversazione, Pencroff non era rimasto inoperoso. Egli aveva virato di bordo, ed il Bonaventura con tutte le vele spiegate filava rapidamente verso il capo Artiglio. Ciascuno pensava a quel naufrago dell’isola Tabor. Si era ancora in tempo di salvarlo? Grande avvenimento nella vita dei coloni! Essi medesimi non erano che naufraghi, ma era da temersi che un altro non fosse stato favorito al par di loro, e si sentivano in dovere di soccorrere quello sventurato.

Fu doppiato il capo Artiglio, ed il Bonaventura andò ad ancorarsi, verso le quattro, alla foce della Grazia.

La sera medesima i particolari relativi alla nuova spedizione erano regolati; parve conveniente che Pencroff ed Harbert, i quali conoscevano la manovra del battello, fossero soli ad intraprendere quel viaggio. Partendo il domani 11 ottobre, essi potevano arrivare il 13 nella giornata, poichè col vento che soffiava non ci volevano più di 48 ore per far quella traversata di 150 miglia. Un giorno nell’isola, tre o quattro giorni per tornare si poteva dunque far conto d’essere di ritorno il 17. Il tempo era bello, il barometro risaliva senza balzi, il vento pareva fermo; tutte le probabilità stavano dunque in favore di quelle brave persone che un dovere d’umanità doveva spingere lungi dalla loro isola.

Era stato convenuto che Cyrus Smith, Nab e Gedeone Spilett rimanessero al Palazzo di Granito; ma ci fu un reclamo: avendo Gedeone Spilett, il quale non dimenticava il proprio mestiere di reporter del New York Herald, dichiarato che andrebbe a nuoto piuttosto che perdere simile occasione, fu ammesso a prender parte al viaggio.

La serata fu spesa nel trasportare a bordo del Bonaventura alcune coperte, degli utensili, delle armi, [p. 34 modifica]delle munizioni, una bussola, viveri per otto giorni; ed essendo stato compiuto il carico rapidamente, i coloni tornarono al Palazzo di Granito.

Il domani, alle cinque del mattino, furono fatti gli addii, non senza una certa commozione dalle due parti, e Pencroff, dando vento alle vele, si diresse verso il capo Artiglio, che doveva doppiare per prender poi direttamente la via del sud-ovest.

Il Bonaventura era già ad un quarto di miglio dalla costa, quando i suoi passeggieri videro sulle alture del Palazzo di Granito due uomini che facevano loro un cenno d’addio. Erano Cyrus Smith e Nab.

— Buoni amici, esclamò Gedeone Spilett, è la prima volta che ci separiamo in 15 mesi!

Pencroff, il reporter ed Harbert, risposero per l’ultima volta a quell’addio, ed il Palazzo di Granito sparve in breve dietro le alte roccie del capo.

Nelle prime ore del giorno, il Bonaventura stette costantemente in vista della costa meridionale dell’isola Lincoln, che presto non apparve più che sotto la forma d’un castello verde, da cui emergeva il monte Franklin. Le alture, scemate dalla lontananza, le davano un aspetto poco acconcio ad attirare le navi sulle sue coste.

Il promontorio del Rettile fu sorpassato verso la una, ma a dieci miglia al largo. Da questa distanza non era più possibile discernere nulla dalla costa occidentale, che si estendeva fino alle balze del monte Franklin, e tre ore dopo l’isola Lincoln era scomparsa interamente sotto l’orizzonte.

Il Bonaventura si comportava benissimo, si elevava facilmente sulle onde e camminava spedito. Pencroff aveva attrezzato la vela di freccia e camminava in direzione rettilinea, regolandosi colla bussola.

Ogni tanto Harbert gli dava il cambio al timone, e la mano del giovinetto era così sicura, che il marinajo non aveva da rimproverargli una straorzata. [p. 35 modifica]

Gedeone Spilett cianciava coll’uno, coll’altro, ed all’occorrenza, dava mano alla manovra. Il capitano Pencroff era pienamente soddisfatto del suo equipaggio e prometteva nientemeno che una gratificazione d’un “quartuccio di vino ad ogni bordata!” Alla sera la falciuola della luna, che doveva entrare nel primo quarto il 16, si disegnò nel crepuscolo solare e subito si spense. La notte buja, ma molto stellata, prometteva una bella giornata anche pel domani. Pencroff, per prudenza, ammainò la vela di freccia, non volendo esporsi ad essere sorpreso da qualche impeto di vento con una vela spiegata in cima all’albero. Era forse un eccesso di precauzione in una notte così placida, ma Pencroff era marinajo prudente, e non si sarebbe potuto biasimarlo.

Il reporter dormì parte della notte. Pencroff ed Harbert si diedero il cambio ogni due ore al timone.

Il marinajo fidava in Harbert come in sè medesimo e la sua fiducia era giustificata dalla sua freddezza d’animo e dal senno del giovinetto. Pencroff gli indicava la rotta come fa un comandante al suo timoniere, ed Harbert non lasciava deviare il Bonaventura nemmanco d’una linea. La notte fu passata bene e la giornata del 12 ottobre trascorse nelle medesime condizioni. La direzione al sud-ovest fu sempre mantenuta rigorosamente, e se il Bonaventura non era spinto da qualche incognita corrente, doveva approdare precisamente nell’isola Tabor.

Quanto a quel mare percorso allora dal battello, era assolutamente deserto. A volte qualche grosso uccello, albatro o fregata, passava a tiro di fucile, e Gedeone Spilett si domandava se non era ad uno di quei poderosi volatili ch’egli aveva affidato l’ultima cronaca indirizzata al New York Herald. Codesti uccelli erano i soli esseri che sembravano abitare quella parte di oceano compresa fra l’isola Tabor e l’isola Lincoln. [p. 36 modifica]

— Eppure, fece osservare Harbert, siamo nella stagione in cui i balenieri si dirigono di solito verso la parte meridionale del Pacifico. In verità, non credo vi sia un mare più abbandonato di questo.

— Non è già così deserto come dite! rispose Pencroff.

— Che cosa volete dire? domandò il reporter.

— Dal momento che ci siamo noi! Pigliate forse il nostro battello per un rottame e le nostre persone per focene?

E Pencroff rideva del suo scherzo.

Alla sera, a calcoli fatti, si poteva immaginare che il Bonaventura avesse percorso una distanza di centoventi miglia dopo la partenza dall’isola Lincoln, vale a dire in 36 ore, il che dava una velocità di tre miglia ed un terzo all’ora. La brezza era debole e tendeva a calmarsi. Per altro si poteva sperare che il domani all’alba, se il calcolo era giusto e se la direzione era stata buona, si sarebbe in vista dell’isola Tabor; laonde nè Gedeone Spilett, nè Harbert, nè Pencroff chiusero occhio in quella notte dal 12 al 13 ottobre.

Aspettando il domani, essi non potevano vincere una viva commozione. Vi erano tante incertezze nell’impresa che avevano tentato! Erano essi vicini all’isola Tabor? E l’isola era dessa abitata ancora da quel naufrago che andavano a soccorrere? E quale era quest’uomo? La sua presenza non apporterebbe forse qualche turbamento nella piccola colonia finora così concorde? Ed acconsentirebbe egli, d’altra parte, a cambiare il suo carcere con un altro? Tutte codeste domande, che dovevano senza dubbio essere risolute il domani, li tenevano desti; alle prime luci del giorno fissarono successivamente i loro sguardi su tutti i punti dell’orizzonte dell’ovest.

— Terra! gridò Pencroff verso le sei del mattino.

E siccome era inammissibile che Pencroff si fosse sbagliato, certo la terra era là. [p. 37 modifica]

Si giudichi della gioja del piccolo equipaggio del Bonaventura! Fra qualche ora egli doveva essere sul litorale dell’isola.

L’isola Tabor, specie di costa bassa a malapena emersa dai flutti, non era lontana più di 15 miglia. La prua del Bonaventura, che era un po’ nel sud dell’isola, vi fu diretta proprio incontro, e mano mano che il sole saliva nell’est alcune vette si staccavano qua e colà.

— Non è che un isolotto molto meno importante dell’isola Lincoln, fece osservare Harbert, e probabilmente dovuto, al par di essa, a qualche solleva mento sottomarino.

Alle undici del mattino il Bonaventura non era più che a due miglia dalla costa, e Pencroff, cercando un passo per approdare, camminava con estrema prudenza su quelle acque incognite. Si abbracciava allora coll’occhio tutto l’isolotto, su cui si staccavano gruppi d’alberi di gomma verdeggianti, e qualche altro grand’albero del genere di quelli che crescevano nell’isola Lincoln. Ma, cosa che faceva stupore, non si vedeva alcun fumo sollevarsi ad indicare che l’isolotto fosse abitato, non appariva alcun segnale sopra un punto qualsiasi della spiaggia.

Eppure il documento era chiaro: vi era un naufrago, e codesto naufrago avrebbe dovuto essere alle vedette!

Frattanto il Bonaventura s’avventurava fra i passi capricciosi che le scogliere lasciavano fra di loro e di cui Pencroff osservava ogni minima sinuosità colla massima attenzione. Egli aveva messo Harbert al timone, e, stando a prua, esaminava le acque, pronto ad ammainare la vela di cui teneva in mano la drizza. Gedeone Spilett guardava col cannocchiale tutta la spiaggia, senza veder nulla.

Finalmente, al mezzodì circa, il Bonaventura venne ad urtare colla ruota di prua in un greto di sabbia. [p. 38 modifica]Fu gettata l’áncora, furono ammainate le vele, e l’equipaggio pose piede a terra. Non era da dubitare che fosse quella l’isola Tabor, poichè, stando alle carte più recenti, non esisteva altra isola in quella parte del Pacifico fra la Nuova Zelanda e la costa americana. Il battello fu ormeggiato saldamente, affinchè il riflusso non potesse portarselo via: poi Pencroff ed i suoi due compagni, dopo di essersi bene armati, risalirono la spiaggia per andare sopra una specie di cono alto da dugentocinquanta a trecento piedi, che si ergeva lungi un mezzo miglio.

— Dalla vetta di questa collina, disse Gedeone Spilett, potremo senza dubbio farci un’idea dell’isolotto, e ciò renderà facili le nostre ricerche.

— Si tratta di fare, rispose Harbert, quello che il signor Cyrus ha fatto a bella prima nell’isola Lincoln, arrampicandosi sul monte Franklin.

— Per l’appunto, disse il reporter; è questa la miglior maniera di procedere.

Così discorrendo, gli esploratori s’avanzavano seguendo il lembo d’una prateria che terminava proprio ai piedi del cono. Si levavano intorno ad essi stormi di colombi e di rondini marine simili a quelle dell’isola Lincoln. Sotto il bosco che rasentava la prateria a mancina, intesero fremiti di cespugli ed intravidero un muovere d’erbe che segnalava la presenza d’animali selvatici, ma nulla indicava che l’isolotto fosse abitato.

Giunti al piede del cono, Pencroff, Harbert e Gedeone Spilett vi si arrampicarono in fretta, ed i loro sguardi scorsero tutto l’orizzonte. Erano proprio sopra un isolotto che non aveva più di sei miglia di circuito, ed il cui perimetro, poco frastagliato di capi e promontori, di baje o di seni, presentava la forma d’un ovale allungato. Tutt’intorno il mare, assolutamente deserto, si stendeva fino ai confini del cielo. Non una terra, non una vela in vista! [p. 39 modifica]

Quell’isolotto, boscoso in tutta la sua superficie, non aveva la varietà d’aspetti dell’isola Lincoln, arida e selvaggia da una parte, ma fertile e ricca in un’altra. Qui era una massa uniforme di verdure, su cui si ergevano due o tre colline poco elevate. Obliquamente all’ovale dell’isolotto scorreva, attraverso una larga prateria, un rigagnolo che andava a gettarsi in mare, sulla costa orientale, per una stretta foce.

— Il dominio è ristretto, disse Harbert.

— Sì, rispose Pencroff, per noi sarebbe stato an po’ piccino.

— E per giunta, rispose il reporter, sembra disabitato.

— Infatti, noto Harbert, non v’è nulla che sveli la presenza dell’uomo.

— Scendiamo, disse Pencroff, e cerchiamo.

Il marinajo ed i suoi due compagni tornarono alla spiaggia, nel luogo in cui avevano lasciato il Bonaventura. Avevano deciso di fare a piedi il giro dell’isolotto prima di avventurarsi all’interno, in guisa che nulla sfuggisse alle loro investigazioni.

Il greto era facile da seguire, e solo in qualche capo lo rompevano grossi macigni di cui si poteva facilmente fare il giro. Gli esploratori scesero verso il sud, facendo fuggire numerose frotte d’uccelli acquatici e di foche, che si gettavano in mare appena li vedevano da lontano.

— Codesti animali, fece osservare il reporter, non vedono l’uomo per la prima volta; lo temono, dunque lo conoscono. Un’ora dopo la partenza erano giunti alla punta sud dell’isolotto, terminata da un punto aguzzo, e risalirono verso il nord, rasentando la costa occidentale egualmente formata di sabbia e di roccie ed orlata di fitti boschi.

Non si vedeva traccia d’abitazione, nè impronta di piede umano in tutto quel perimetro dell’isolotto, che dopo quattro ore di cammino fu percorso intieramente. [p. 40 modifica]

Era davvero una cosa straordinaria, e si doveva credere che l’isola Tabor non fosse abitata, o non lo fosse più. Forse anche il documento aveva molti mesi o molti anni di data, ed era possibile, in questo caso, o che il naufrago fosse tornato in patria o che fosse morto di miseria.

Pencroff, Gedeone Spilett ed Harbert, formando ipotesi più o meno plausibili, desinarono alla lesta a bordo del Bonaventura, per modo da continuare la loro escursione fino a notte; gli è ciò che fu fatto alle cinque pomeridiane: ora in cui s’avventurarono sotto i boschi.

Molti animali fuggirono al loro appressarsi, e principalmente, si potrebbe anzi dire unicamente, capre e porci, che, era facile vederlo, appartenevano alle razze europee. Senza dubbio, qualche baleniere li aveva sbarcati sull’isola, ove s’erano rapidamente moltiplicati. Harbert promise a sè stesso di prenderne una o due coppie vive per portarle all’isola Lincoln.

Non era dunque più dubbio che degli uomini, non importa in qual tempo, avevano visitato l’isolotto. E ciò apparve anche più evidente quando a traverso la foresta si videro sentieri tracciati, tronchi d’alberi atterrati a colpi d’accetta e da per tutto i segni del lavoro umano; ma codesti alberi che imputridivano erano stati atterrati già da molti anni, chè le tacche dell’accetta si vedevano coperte di muschio e le erbe crescevano lunghe e fitte attraverso i sentieri irriconoscibili.

— Ma, fece osservare Gedeone Spilett, ciò prova che non solamente sbarcarono degli uomini in quest’isolotto, ma che lo abitarono per un certo tempo. E chi erano costoro? E quanti erano? E quanti ne rimangono?

— Il documento, disse Harbert, non parla che d’un solo naufrago. [p. 41 modifica]

— Ebbene, s’esso è ancora nell’isola, rispose Pencroff, è impossibile che non lo troviamo.

Continuò adunque l’esplorazione. Il marinajo ed i suoi compagni seguirono la strada che tagliava diagonalmente l’isolotto, e giunsero così a costeggiar il rigagnolo che si dirigeva verso al mare.

Se gli animali d’origine europea, se alcuni lavori dovuti a mano d’uomo dimostravano incontrastabilmente che già creature umane erano venute in quest’isola, non lo provarono meno alcuni campioni del regno vegetale. In certi luoghi, in mezzo a radure, era visibile che già erano state coltivate piante mangereccie in un tempo probabilmente molto lontano, e pensate la gioja di Harbert quand’egli riconobbe patate, cicoria, acetosa, carote, cavoli, navoni, di cui bastava raccogliere i semi per arricchire il suolo dell’isola Lincoln.

— Bene, bene! disse Pencroff, codesto farà piacere a Nab e a noi. Ed almeno, se non ritroveremo il naufrago, il viaggio non sarà stato inutile e Dio ci avrà ricompensati.

— Senza dubbio, rispose Gedeone Spilett, ma vedendo in che stato si trovano queste piantagioni si può temere che l’isolotto non sia abitato da un pezzo.

— Infatti, aggiunse Harbert, un abitante, qualunque si fosse, non avrebbe negletto una coltura di tanta importanza.

— Sì, disse Pencroff, il naufrago è partito!... così bisogna immaginare....

— Convien dunque ammettere che il documento abbia già una data antica.

— Evidentemente.

— E che la bottiglia non sia arrivata all’isola Lincoln se non dopo aver lungamente viaggiato in mare!

— E perchè no? rispose Pencroff; ma viene la notte, aggiunse, e credo sia meglio interrompere le ricerche. [p. 42 modifica]

— Torniamo a bordo, e domani ricominceremo, disse il reporter.

Era la cosa più savia, ed il consiglio stava per essere posto in atto, quando Harbert, mostrando una massa confusa fra gli alberi, esclamò:

— Un’abitazione!

Subito tutti e tre si diressero verso l’abitazione indicata. Alla luce del crepuscolo fu possibile vedere che era stata costrutta con tavole coperte d’una grossa tela incatramata.

Pencroff spinse la porta socchiusa, ed entro con passo rapido....

L’abitazione era vuota!