L'isola misteriosa/Parte seconda/Capitolo XII

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Jules Verne - L'isola misteriosa (1874-1875)
Traduzione dal francese di Anonimo (1890)
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CAPITOLO XII.

Attrezzi del battello — Un assalto di volpi — Jup ferito — Jup curato — Jup guarito — Termine del battello — Trionfo di Pencroff — Il Bonaventura — Prima prova al sud dell’isola — Un documento inaspettato.

La sera medesima i cacciatori tornarono, dopo aver fatto buona caccia e letteralmente carichi di selvaggina; portavano tutto quanto quattro uomini potevano portare. Top aveva una corona di anitrelle intorno al collo, e Jup una cintura di beccaccini intorno al corpo.

— Ecco, padrone, esclamò Nab, ecco di che occupare il nostro tempo! Conserve, pasticci, avremo una [p. 18 modifica]provvista gradevole! Ma conviene che qualcuno mi ajuti. Conto sopra di te, Pencroff.

— No, Nab, rispose il marinajo; l’attrezzatura del battello mi reclama: dovrai far di meno dell’opera mia.

— E voi, signor Harbert?

— Io, Nab, convien che vada domani al ricinto.

— Mi ajuterete dunque voi, signor Spilett?

— Per farti piacere, sì, rispose il reporter, ma ti avverto che se tu mi sveli le tue ricette, io le pubblicherò.

— Farete come vi aggrada, signor Spilett, rispose Nab.

Ed ecco come, il domani, Gedeone Spilett, divenuto l’ajutante di Nab, fu introdotto nel suo laboratorio culinario. Ma prima l’ingegnere gli aveva fatto conoscere il risultato dell’esplorazione fatta la vigilia, ed a questo riguardo il reporter fu dell’opinione di Cyrus Smith, cioè che, sebbene non si fosse trovato nulla, rimaneva sempre un segreto da scoprire.

Il freddo durò una settimana ancora, ed i coloni non lasciarono il Palazzo di Granito se non per le cure da dare al cortile rustico. L’abitazione era profumata dai buoni odori che esalavano dalle dotte manipolazioni di Nab e del reporter; ma tutto il prodotto della caccia al marese non fu trasformato in conserve, e siccome la selvaggina con quel freddo intenso si conservava benissimo, le anitre selvatiche furono mangiate fresche e dichiarate superiori ad ogni altro animale acquatico del mondo conosciuto.

Durante questa settimana, Pencroff, ajutato da Harbert, il quale sapeva adoperare assai bene l’ago del treviere, lavorò con tanto ardore che le vele del battello furono terminate.

Non mancavano le corde di canape, grazia all’attrezzatura che era stata trovata coll’invoglio del pallone. Le gomene, i cordami della rete, tutto ciò era fatto d’una corda eccellente, di cui il marinajo seppe [p. 19 modifica]trarre gran partito. Le vele furono orlate di forti ralinghe, e rimaneva ancora da fare le drizze, le sartie, le scotte, ecc. Quanto alle carrucole, per consiglio di Pencroff e per mezzo del tornio, Cyrus Smith ne fabbricò il numero necessario. Accadde adunque che l’attrezzatura era interamente pronta assai prima che il battello fosse finito. Pencroff innalzò anzi una bandiera azzurra, rossa e bianca, i cui colori erano stati forniti da certe piante tintorie abbondantissime nell’isola.

Solamente alle trentasette stelle rappresentanti i trentasette Stati dell’Unione, che splendono nelle bandiere delle navi americane, il marinajo ne aveva aggiunto una trentottesima, la stella dello Stato di Lincoln, perocchè egli considerava la sua isola come già annessa alla gran Repubblica, e diceva:

— Lo è già di cuore, se non è in fatto.

Frattanto, codesta bandiera fu inalberata alla finestra centrale del Palazzo di Granito, ed i coloni la salutarono con tre evviva. Si toccava al termine della stagione fredda e pareva che questo secondo inverno dovesse scorrere senza gravi incidenti, quando l’11 agosto l’altipiano di Lunga Vista fu minacciato da una devastazione completa.

Dopo una giornata spesa bene, i coloni dormivano profondamente, quando, verso le cinque del mattino, furono svegliati dai latrati di Top.

Il cane questa volta non abbajava all’orifizio del pozzo, ma alla soglia della porta contro cui s’avventava, come se avesse voluto sprofondarla. Jup, dal canto suo, mandava acute grida.

— Ebbene, Top? domandò Nab, che fu sveglio per il primo.

Ma il cane continuò a latrare con maggior furore.

— Che è stato? domandò Cyrus Smith.

E tutti, vestitisi in fretta, si precipitarono verso le finestre della camera, e le aprirono. Sotto i loro [p. 20 modifica]occhi si svolgeva uno strato di neve biancheggiante appena nella notte buja. I coloni non videro nulla, ma intesero singolari latrati nell’ombra. Il greto evidentemente era stato invaso da un certo numero d’animali che non si poteva discernere.

— Che cosa c’è? domandò Pencroff.

— Lupi, jaguari o scimmie, rispose Nab.

— Diamine! possono salire sull’altipiano! disse il reporter.

— E il nostro cortile? e le nostre piantagioni?

— E da dove sono passati?

— Avranno, rispose l’ingegnere, passato il ponticello del greto che uno di noi avrà dimenticato di chiudere.

— Infatti, mi ricordo d’averlo lasciato aperto, disse il reporter.

— L’avete fatta bella! osservò il marinajo.

— Quello che è fatto è fatto, disse Cyrus Smith, pensiamo ora a rimediarvi.

Tali furono le parole che vennero scambiate tra Cyrus Smith ed i suoi compagni. Certo il ponticello era stato valicato, il greto era invaso dagli animali, e questi, di qualunque natura fossero, potevano, risalendo la riva destra della Grazia, giungere all’altipiano di Lunga Vista. Bisognava dunque vincerli nella velocità e combatterli al bisogno.

— Ma che animali son essi? fu domandato una seconda volta al momento che i latrati echeggiarono più forte.

Quei latrati fecero sussultare Harbert, il quale si ricordo di averli già uditi nella sua prima visita al rivo Rosso.

— Sono volpi, diss’egli.

— Avanti! esclamò il marinajo; e tutti armandosi di accette, di carabine e di rivoltelle, entrarono nella cestella e posero piede sul greto.

Sono davvero pericolosi animali codeste volpi, quando [p. 21 modifica]sono in gran numero e la fame le punge. Nondimeno, i coloni non esitarono a gettarsi in mezzo alla frotta, ed i loro primi colpi di rivoltella, lanciando baleni nell’oscurità, fecero dare indietro i primi assalitori.

Ciò che importava innanzi tutto era d’impedire ai predoni d’elevarsi fino all’altipiano di Lunga Vista, perchè le piantagioni ed il cortile sarebbero stati a loro mercè e sarebbero avvenuti danni immensi, fors’anco irreparabili, specialmente nel campo di biade. Ma siccome l’invasione dell’altipiano non poteva avvenire che dalla riva manca della Grazia, bastava opporre alle volpi una barriera insuperabile in quella stretta porzione dell’argine compresa fra il rivo e la muraglia di Granito.

Ciò fu compreso da ciascuno, e ad un ordine di Cyrus Smith tutti andarono al luogo designato, in tanto che la frotta delle volpi saltellava nell’ombra.

Cyrus Smith, Gedeone Spilett, Harbert, Pencroff e Nab, si disposero adunque in guisa da formare una linea insuperabile. Top, colle sue formidabili mascelle aperte, precedeva i coloni ed era seguito da Jup, il quale brandiva, come una mazzuola, un nodoso bastone.

La notte era oscurissima; solo alla luce degli spari, ciascuno dei quali doveva colpire, si vedevano gli assalitori, che dovevano essere un centinajo almeno, ed i cui occhi brillavano come carboni accesi.

— Non bisogna che passino! esclamò Pencroff.

— Non passeranno, rispose l’ingegnere.

Ma se non passarono, non fu già per non averlo tentato.

Le ultime schiere spingevano le prime, e fu una lotta incessante a colpi di rivoltella e d’accetta. Molti cadaveri di animali dovevano già coprire il suolo, pur la frotta non sembrava scemare. Pareva che si rinnovasse di continuo dal ponticello del greto.

Non andò molto che i coloni dovettero lottare corpo [p. 22 modifica]a corpo, e ricevettero anche qualche ferita fortunatamente leggerissima. Harbert aveva con un colpo di rivoltella liberato Nab dalle strette d’una volpe che gli si era arrampicata sulle spalle come un gattopardo. Top si batteva con vero furore, balzando alla gola degli avversari e strangolandoli. Jup, armato del suo bastone, picchiava all’impazzata, ed invano lo si voleva far rimanere indietro. Dotato, senza dubbio, d’una vista che gli permetteva di vedere nel bujo, egli era sempre nel più forte della mischia, e mandava ogni tanto un fischio acuto che era in lui il segno di una vera gioja.

Ad un certo momento esso si spinse tant’oltre, che, alla luce d’un colpo di rivoltella, si potè vederlo circondato da cinque o sei grosse volpi, a cui faceva fronte con rara pacatezza. La lotta doveva finire col trionfo dei coloni, ma dopo ch’essi ebbero resistito due lunghe ore. Le prime luci dell’alba, senza dubbio, determinarono la ritirata degli assalitori, i quali se la svignarono verso il nord in guisa da ripassare il ponticello, che Nab corse a rilevare immediatamente.

Quando il giorno ebbe rischiarato sufficientemente il campo di battaglia, i coloni poterono contare una cinquantina di cadaveri sparsi sul greto.

— E Jup? esclamò Pencroff, dov’è Jup?

Jup era scomparso. L’amico Nab lo chiamò, e per la prima volta Jup non rispose all’amico.

Ciascuno andò in cerca di Jup, temendo di doverlo contare fra i morti. Fu sgomberato lo spazzo dei cadaveri che macchiavano la neve col loro sangue, e Jup fu ritrovato in mezzo ad un vero monticello di volpi, le cui mascelle spezzate e le reni rotte testimoniavano come esse avessero avuto a fare col terribile bastone dell’intrepido animale.

Il povero Jup teneva sempre in mano il tronco del bastone rotto; ma privo della sua arma, esso era [p. 23 modifica]stato oppresso dal numero ed aveva sul petto profonde ferite.

— È vivo! esclamò Nab curvandosi sopra di lui.

— E lo salveremo, rispose il marinajo, lo cureremo come uno di noi.

Pareva che Jup comprendesse, perchè inclinò la testa sulla spalla di Pencroff quasi per ringraziarlo. Il marinajo anch’esso era ferito, ma lievemente, al par de’ suoi compagni, perchè, grazie alle armi da fuoco, avevano quasi sempre potuto tenere in distanza gli assalitori.

Solo adunque lo stato della scimmia era grave.

Jup, portato da Nab e Pencroff, fu condotto fino all’ascensore, ed è molto se gli uscì dalle labbra un debole gemito. Fu tirato su dolcemente nel Palazzo di Granito.

Colà fu accomodato sopra un materasso tolto ad un lettuccio, e le sue ferite furono lavate colla massima cura. Non pareva che fosse offeso nessun organo essenziale, ma Jup era stato molto indebolito dalla perdita del sangue, e la febbre si dichiarò fortissima.

Fu messo a letto dopo averlo bendato, e gli fu imposta una dieta severa “propriamente come ad una persona naturale” secondo disse Nab; gli furono fatti bere alcuni bicchieri di una tisana vegetale, di cui la farmacia del Palazzo di Granito fornì gli ingredienti.

Jup s’addormento d’un sonno agitato da principio, ma a poco a poco la sua respirazione divenne più regolare; lo si lasciò riposare nella massima calma.

Ogni tanto Top, camminando, per così dire, sulla punta dei piedi, veniva a visitare l’amico suo, e sembrava approvare tutte le cure che s’avevano di lui. [p. 327 modifica]Top veniva a visitare l’amico suo.

Vol. IV, pag. 23.

Una delle mani di Jup pendeva fuor del lettuccio, e Top la lambiva in aria contrita.

In quella mattina medesima si procedette alla sepoltura dei morti, che furono trascinati fino alle foreste del Far-West e sepolti profondamente. [p. 24 modifica]

Codesto assalto, che avrebbe potuto avere conseguenze tanto gravi, fu una lezione pei coloni, i quali quind’innanzi non andarono a letto senza che uno di essi si fosse assicurato che tutti i ponti erano rilevati, e che non era possibile alcuna invasione. Quanto a Jup, dopo avere per alcuni giorni inspirato serî timori, la sua costituzione trionfò. Gedeone Spilett, che era un po’ medico, lo diè presto fuor di pericolo.

Il 16 agosto, Jup cominciò a mangiare.

Nab gli faceva dei manicaretti inzuccherati, che l’ammalato assaporava con sensualità, poichè se esso aveva un difettuzzo, era quello di essere un tantino ghiotto, e Nab non aveva mai fatto nulla per correggerlo di tale menda.

— Che volete? diceva egli a Gedeone Spilett, il quale talvolta gliene faceva rimprovero, non ha altro piacere fuor quello della bocca, questo povero Jup, ed io sono felice di poter ricompensare così i suoi servigi.

Dieci giorni dopo essersi messo a letto, il 21 agosto, mastro Jup si levò, le sue ferite erano cicatrizzate, e si vide bene che non doveva tardare a ricuperare la sveltezza e la vigoria consueta. Al pari di tutti i convalescenti, esso provò allora una fame insaziabile, ed il reporter lo lasciò mangiare a suo talento, fidando in quell’istinto che manca troppo spesso agli esseri ragionevoli e che doveva preservare la scimmia da una indigestione. Nab era felice di veder tornare l’appetito al suo allievo.

— Mangia, gli diceva egli, mio Jup, non privarti di nulla! Tu hai versato il tuo sangue per noi, ed è il meno che possiamo fare l’ajutarti a rifarlo.

Finalmente, il 25 agosto, s’intese la voce di Nab che chiamava i compagni.

— Signor Cyrus, signor Gedeone, signor Harbert, Pencroff, venite! venite!

I coloni, che erano adunati nella gran sala, si le[p. 25 modifica]varono alla chiamata di Nab, il quale stava allora nella camera riserbata a Jup.

— Che cosa è stato? domandò il reporter.

— Osservate, rispose Nab, mandando una risata sonora.

Che videro essi?..

Mastro Jup, il quale fumava tranquillamente e seriamente, accoccolato, come un turco, sulla porta del Palazzo di Granito.

— La mia pipa! esclamò Pencroff. Ha preso la mia pipa! Ah! mio caro Jup, te ne faccio un regalo. Fuma, amico mio, fuma.

E Jup gettava gravemente densi nugoli di fumo che sembravano dargli un godimento senza uguale. Cyrus Smith non si mostrò molto maravigliato dell’incidente, e citò parecchi esempi di scimmie addomesticate, alle quali l’uso del tabacco era divenuto famigliare. Ma da quel giorno, mastro Jup ebbe la sua pipa, l’ex-pipa del marinajo, che fu sospesa nella sua camera, accanto ad una provvista di tabacco. La caricava esso medesimo; l’accendeva ad una bragia e sembrava veramente il più felice dei quadrumani. Naturalmente, questa comunanza di gusti stringe meglio fra Jup e Pencroff i vincoli d’amicizia che già univano la degna scimmia e l’onesto marinajo.

— È forse un uomo, diceva talvolta Pencroff a Nab; ti farebbe stupore se un giorno si mettesse a parlarci?

— In fede mia no, rispondeva Nab; ciò che mi maraviglia è piuttosto ch’esso non parli, perchè infine non gli manca che la parola.

— Mi piacerebbe, soggiungeva il marinajo, che un bel giorno mi dicesse: “Se cambiassimo pipa, Pencroff?”

— Sì, rispondeva Nab, che disgrazia che sia muto per nascita!

Col mese di settembre, l’inverno fu del tutto ter[p. 26 modifica]minato, ed i lavori ricominciarono con ardore; la costruzione del battello procedette rapidamente; era già interamente fasciato e fu assicurato all’interno in modo da congiungere tutte le parti dello scafo con ossature fatte pieghevoli col vapore acqueo e che si prestavano a tutte le esigenze del sesto.

Siccome non mancava di legname, Pencroff propose all’ingegnere di circuire internamente lo scafo con un fasciame impermeabile che assicurasse del tutto la solidità del battello.

Cyrus Smith, non sapendo che cosa serbava l’avvenire, approvò l’idea del marinajo di rendere la barca solida il più possibile. Il fasciame ed il ponte del battello furono interamente finiti verso il 15 settembre. Per calatafare gl’intervalli, si fece della stoppa con zostero secco, e la si cacciò a colpi di maglio fra i commessi dello scafo, del fasciame e del ponte; poi le saldature furono coperte di catrame bollente, fornito in abbondanza dai pini della foresta.

L’adattamento del battello fu dei più semplici. Era stato dapprima zavorrato con macigni di granito, di cui se ne stivarono 12 mila libbre circa. Una tolda fu posta sopra questa zavorra, l’interno fu diviso in due camere, lungo le quali si stendevano due panche che servivano di forzieri. Il piede dell’albero doveva puntellare il tramezzo che separava due camere, alle quali si aveva ingresso per due boccaporti aperti sul ponte e forniti di coperture.

Pencroff non durò alcuna fatica a trovare un albero adatto per l’alberatura. Scelse un giovane abete dritto, senza nodi, che dovette solo squadrare nell’impiantatura ed arrotondare in cima. Le ferramenta dell’albero, quelle del timone e quelle dello scafo erano state grossolanamente, ma saldamente fabbricate nella fucina dei Camini. Infine pennoni, albero di freccia, ghisso, pertiche, remi, ecc., ogni cosa fu terminata [p. 27 modifica]nella prima settimana d’ottobre, e fu stabilito di far la prova del battello nelle vicinanze dell’isola per riconoscere come si comportava in mare e fino a qual grado si poteva fidarsene.

In tutto questo tempo non erano stati negletti i lavori necessarî. Il ricinto era stato riordinato, poichè il gregge di mufloni e capre contava un gran numero di piccini che bisognava alloggiare. Le visite dei coloni non erano mancate nè al parco dell’ostriche, ne alla conigliera, nè agli strati di carbon fossile e di ferro, nè in qualche parte del Far-West rimasta inesplorata. Furono scoperte altre piante indigene, le quali, se non avevano utilità immediata, contribui rono a variare le provviste vegetali del Palazzo di Granito.

Erano ficoidi, alcune simili a quelle del Capo, con foglie carnose commestibili; le altre producenti dei grani che contenevano una specie di farina.

Il 10 ottobre fu varato il battello. Pencroff era raggiante: l’operazione riuscì a maraviglia. La barca attrezzata, essendo stata spinta su cilindri al lembo della spiaggia, fu presa dalla marea alta e galleggiò fra gli applausi dei coloni e specialmente di Pencroff, il quale non diè prova di alcuna modestia in quest’occasione. D’altra parte la sua vanità doveva sopravvivere al compimento del battello, giacchè, dopo averlo costrutto, egli stava per essere chiamato a comandarlo. Il grado di capitano gli fu accordato ad unanimità. Per soddisfare il capitano Pencroff bisogno dapprima dare un nome al battello, e dopo molte discussioni fu scelto quello di Bonaventura, che era il nome di battesimo del bravo marinajo.

Appena il Bonaventura fu sollevato dalla marea crescente, si potè scorgere che stava perfettamente nelle sue linee d’acqua e che dovrebbe navigare benissimo in tutti i modi.

Del resto, l’esperimento doveva esser fatto in quel [p. 28 modifica]giorno medesimo in una escursione al largo; il tempo era bello, ed il mare facile, sopratutto nel litorale del sud, perchè il vento soffiava da nord-ovest da un’ora.

— A bordo, a bordo! gridava il capitano Pencroff.

Ma bisognava far colazione prima di partire, e parve anzi ben fatto portar provviste a bordo, per il caso che l’escursione durasse fino a sera.

Cyrus Smith anch’esso aveva fretta di esperimentare quel battello di cui aveva dato il disegno, sebbene, per consiglio del marinajo, ne avesse spesso modificato alcune parti. Ma egli non aveva in esso la fiducia di Pencroff, e siccome costui non parlava più del viaggio all’isola Tabor, Cyrus Smith sperava perfino che il marinajo v’avesse rinunciato. Gli sarebbe ripugnato infatto vedere due o tre de’ suoi compagni avventurarsi lontanamente su quella barca piccina che non stazzava più di 15 tonnellate. Alle dieci e mezzo tutti erano a bordo, anche Jup, anche Top. Nab ed Harbert levarono l’ancora, che mordeva la sabbia presso alla foce della Grazia; fu issata la vela di brigantino, la bandiera Lincolniana sventolò in cima all’albero, ed il Bonaventura, diretto da Pencroff, prese il largo. Per uscire dalla baja dell’Unione bisogno dapprima avere il vento in poppa, e si potè accertare che a questo modo la velocità del battello era soddisfacente.

Dopo aver doppiato la punta del Rottame ed il capo Artiglio, Pencroff dovette tenersi al più presso per rasentare la costa meridionale dell’isola, e, fatte alcune bordate, egli osservò che il Bonaventura poteva camminare a cinque quarti del vento circa e che resisteva abbastanza contro la deriva. Virava benissimo, col vento in faccia, ed anzi guadagnava nel viramento.

I passeggieri del Bonaventura erano in verità felici; avevano una buona barca, che all’occorrenza doveva [p. 29 modifica]render loro dei gran servigi, e con quel bel tempo, con quella brezza favorevole la passeggiata fu deliziosa. Pencroff si spinse al largo a tre o quattro miglia dalla costa, in faccia al porto Pallone. L’isola apparve allora in tutto il suo contorno e sotto un nuovo aspetto, col panorama variato del suo litorale, dal capo Artiglio al promontorio del Rettile, co’ suoi primi piani di foreste in cui le conifere spiccavano dal fogliame giovane degli altri alberi appena in germoglio, col monte Franklin che si ergeva su tutto e la cui vetta era imbiancata da un po’ di neve.

— Come è bello! esclamò Harbert.

— Sì, la nostra isola è bella e buona, rispose Pencroff, io le voglio bene, come voleva bene a mia madre. Essa ci ha ricevuti poveri e privi d’ogni cosa; ed ora che manca ai cinque figliuoli che le sono caduti dal cielo?

— Nulla! rispose Nab, nulla, capitano!

Ed entrambi mandarono tre formidabili evviva in onore dell’isola. Frattanto Gedeone Spilett, appoggiato ai piedi dell’albero, disegnava il panorama che si svolgeva sotto gli occhi suoi. Cyrus Smith guardava in silenzio.

— Ebbene, signor Cyrus, disse Gedeone Spilett, che ne dite del nostro battello!

— Pare si porti bene, rispose l’ingegnere.

— Buono! E credete ora che potrebbe intraprendere un viaggio un po’ lungo?

— Qual viaggio, Pencroff?

— Quello dell’isola Tabor, per esempio.

— Amico mio, rispose Cyrus Smith, credo che in un caso urgente non dovremmo esitare ad affidarci al Bonaventura anche per una traversata più lunga; ma, lo sapete, vi vedrò partire con dispiacere per l’isola Tabor, poichè nulla vi obbliga ad andarvi.

— Si ama conoscere i vicini, rispose Pencroff, il quale si ostinava nella propria idea. L’isola Tabor è [p. 30 modifica]la nostra vicina ed è la sola! La cortesia richiede che si vada almeno a farle una visita.

— Diancine! disse Gedeone Spilett, il nostro amico Pencroff sta a cavallo sulle convenienze!

— Io non sto a cavallo su niente del tutto! ribattè il marinajo, il quale si sentiva un po’ contrariato dall’opposizione dell’ingegnere, ma non avrebbe voluto fargli dispiacere.

— Pensate, Pencroff, rispose Cyrus Smith, che non potete andar solo all’isola Tabor.

— Un compagno mi basterà.

— Così allora di cinque coloni volete arrischiare di torne due all’isola Lincoln?

— Di sei! rispose Pencroff; dimenticate Jup!

— Di sette! aggiunse Nab. Top val quanto un altro.

— Non v’è alcun rischio, signor Cyrus, soggiunse Pencroff.

— È possibile; ma ve lo ripeto, questo è un esporsi senza necessità.

L’ostinato marinajo non rispose e lasciò cadere la conversazione, determinato a ripigliarla. Non immaginava egli che un incidente doveva venire in ajuto e trasformare in un’opera d’umanità quello che in fin dei conti era solo un capriccio discutibile. Infatti, dopo essersi tenuto al largo, il Bonaventura s’avvicinava alla costa dirigendosi verso il porto Pallone. Era importante verificare i passi esistenti fra i banchi di sabbia e le scogliere, per segnalarli al bisogno, essendo che quel picciolo seno doveva essere il porto del battello.

Non si era a più di mezzo miglio della costa ed era stato necessario bordeggiare per spingersi contro vento.

La velocità del Bonaventura era allora moderatissima, perchè la brezza, impedita in parte dalla terra alta, a malapena gonfiava le vele, ed il mare, terso [p. 31 modifica]come uno specchio, non si corrugava se non al soffio dei refoli che passavano capricciosamente.

Harbert stava a prua per indicare la strada da se guire in mezzo ai passi, quando d’improvviso esclamò:

— Orza! Pencroff, orza!

— Che cosa c’è? rispose il marinajo rizzandosi, uno scoglio?

— No... aspetta, disse Harbert: non vedo bene... orza ancora... bene... poggia un poco.

Così dicendo Harbert, il quale s’era coricato lungo il bordo, cacciò rapidamente il braccio nell’acqua, e si risollevò dicendo:

— Una bottiglia!

Teneva in mano una bottiglia turata che aveva afferrato a qualche gomena dalla costa.

Cyrus Smith prese la bottiglia. Senza dir parola ne fece saltare il collo e ne estrasse una carta umida sulla quale si leggeva:

“Naufragato.....” isola Tabor; 153° O. long. — 37° 11 lat. S.»