Il secolo che muore/Capitolo XXIV

Capitolo XXIV

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Capitolo XXIII

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Capitolo XXIV.

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Taciti e mesti, Curio, Filippo e il degno ospite loro, seduti al rezzo delle magnolie, stavano contemplando il sole occidente. Ognuno di essi, compreso da tanta magnificenza, andava a seconda della propria indole fantasticando immagini e pensieri. Filippo, come colui che ritraeva assai della educazione antica, rammemorando i versi del Tasso,

Ma nell’ora che il sol dal carro adorno
Scioglie i corsieri e in grembo al mar si annida

con quello che seguita, vedeva nel sole il grande auriga della natura, che, affranto dalla fatica, in ogni membro riarso, anelava rinfrescarsi in grembo a Teti, la quale gliene faceva invito con assidui sorrisi smaglianti azzurro ed oro; prima però, siccome è cura di ogni amatore di cavalli, sciolti i suoi [p. 334 modifica] dal plaustro, li mandava ai prati ampi del cielo, dove essi si rincorrevano, scapestrando a mo’ di fanciulli irrompenti fuori della scuola; e le ore, seguendo il vecchio costume dei cortigiani, disertato il carro del sole declinato, rifacevano i passi nel firmamento per andare incontro alle cerve del carro di Diana; però che le ore nacquero per servire sempre.

Diverse le immagini del colono tessiano; a lui parve raffigurare nel sole occidente un guerriero che cada sul campo della gloria: e la sua mente pensò a Giuliano l’Apostata alla battaglia di Frigia;1 considerando bene, non mancava niente a pareggiare il confronto, non lo scudo e l’elmo corruschi, non le armi fulgide e lo splendore della clamide imperatoria; le stesse nuvole chiazzate di vermiglio, che brizzolavano il cielo, porgevano ricordo delle goccio di sangue, le quali, è fama, l’Apostata in sua mano raccogliesse e contro l’empireo avventasse esclamando: ah! Galileo, vincesti.2 [p. 335 modifica]

E tu pure, oceano, pigliando il colore di porpora,3 ti piaci sovente rassomigliare il campo di battaglia tinto dalla strage; sublime letto di gloria pel guerriero che muore! Vi cinga, immortale camicia di Nesso, la fama, o carnefici incoronati, dacchè il vostro nome sia grande in proporzione del male che avete fatto all’umanità!

Con altre fantasie si contristava Curio contemplando cotesta agonia della luce, e la tenebra spegnere codardamente, come un veleno letale, il bel raggio di amore. La sua mente, versandosi su le storie dei tempi passati, si fermava nel re longobardo Rachis, figlio di Pammone, il quale, nello splendido mezzogiorno della sua potenza, punto nel cuore dall’aspide della parola sacerdotale, casca sotto il proprio peso, sbadiglia, e di re diventa frate. Eccolo ginocchioni dinanzi a papa Zaccaria, che ad una ad una gli spoglia le insegne regali; da un lato mira gettata la dalmatica tessuta di bisso e di oro; dall’altro lo scettro; la corona percotendo in terra ci ha seminato le gemme, nella medesima guisa che il sole nella sua partita sparge in cielo le stelle: ora sotto la cappa si spenge il re; in breve sotto il cappuccio del frate si spegnerà anche l’uomo; nè [p. 336 modifica] da cotesto infelicissimo occaso si scompagnano le rugiade, impercioccliè le lacrime sieno le rugiade del dolore, siccome la rugiada è il pianto della natura. Silenzio e tenebre: la notte ormai accecò il sole, il monastero si è inghiottito il re. E perchè il paragone comparisse più conforme al vero, — siccome fra noi, tramontato il sole, spunta dal lato opposto la luna, così l’immaginativa riportava a Curio la sembianza di Tasia vedova del re frate, che si faceva, pallida pallida, a visitare il marito, e sempre invano, — perchè: se Rachis fosse sceso cadavare nel sepolcro dei morti, la desolata avrebbe potuto liberamente piangervi sopra e implorare pace all’anima diletta; ma l’avara crudeltà del frate vigilava con occhi senza palpebre il sepolcro dell’uomo vivo e ne respingeva ogni affetto.4 L’inferno e il monastero si mostrano del pari gelosi di conservare la loro rapina.

Dileguatesi siffatte immaginazioni, subentra nella mente dei nostri personaggi un altro pensiero del pari in tutti uguale; e lo sentivano, imperciocchè paia cosa certa che gli spiriti degli uomini corrispondano fra loro con altre facoltà che la parola, i cenni e lo sguardo non sieno: invero i pensieri di tutti loro adesso si appuntano nel giorno dell’addio. Invero, come potessero durare più oltre a [p. 337 modifica] convivere insieme non si vedeva; gli affetti nostri, quantunque legati con vincoli che si giudicano sacri, di leggieri si sciolgono, pensa se gli altri che ci sorgono nell’anima a modo di riverbero di luce, come eco di voce.

Il vecchio colono, quasi dando l’ultima mano ad un disegno condotto a conchiusione da tempo remoto, ad un tratto incominciò così:

— A voi tarda, amici miei, ripigliare la vita avventurosa in cerca di fortuna, onde vi sia dato rivedere la terra del vostro nascimento e vivere in pace con le creature che tanto vi sono a ragione dilette. Senza loro i giorni vi sanno di amaro, che poco più è morte, e vi lodo e va bene; però vi prego a considerare che, se pel tempo che corre, impossibile non si può dire, difficilissimo proviamo far fortuna, e farla presto; quindi io vi propongo addirittura di mettere giù la voglia dei pellegrinaggi e rimanervi meco a vivere all’ombra della nostra vite e del nostro fico, per dirla con le parole dei patriarchi del Testamento Vecchio... Non mi interrompete di grazia; statemi a udire fino in fondo; risponderete dopo. — Voi per avventura vedrete due impedimenti a questo mio concetto; uno da parte mia, l’altro dalla vostra. Da parte mia vi daranno scrupolo i congiunti, gli eredi necessari, le speranze deluse ed altri simili intrugli; ponetevi l’animo in pace; io ne vado immune: ora in [p. 338 modifica] due tratti tirati giù con la brace vi darò contezza dell’essere mio. Nacqui a Novara; il mio nome è Maurizio Goguini; credo essere stato conte o marchese, qualche cosa così: giovanetto, perchè se aveva compito il diciassettesimo anno a diciotto non arrivava, mi sentii acceso per la libertà o piuttosto per la sua larva; tolto quanto più potei danaro sopra i miei beni, accorsi là dove mi chiamava la voce del conte Santorre Santarosa, amico vecchio di casa mia; breve, ingloriosa impresa fu quella, e per parecchi lati anco infame; caddi ferito, ed a gran pena mi salvai nella Svizzera; colà giacendo lungo tempo sul letto del dolore, diedi spesa al mio cervello; tritato e vagliato, il preteso liberatore mi resultò uno erede ustulante il retaggio dell’uomo vivo; in lui vidi libidine di regno, non amore di libertà; onde costui quinci a breve, per non cascare giù dalla speranza del regno, sopporta in pace che un soldato tedesco, il generale Bubna, gli brancichi per dispregio la ganascia e gli dica irridendolo: «Ecco il re d’Italia». Costui più tardi, per emendare il breve fallo di amore di patria, e per accattarsi il perdono dei re, di preteso soldato della libertà in Italia si converte in soldato della tirannide nella Spagna; — sputai monarchi e monarchie: — nè meno severo meditai sul Santarosa, su Moffa di Lisio ed altri cotali, e mi comparvero avversi alla monarchia non mica per ischiantarla, bensì per [p. 339 modifica] ripararsi sotto l’ombra delle sue fronde; non impazienti di patire tirannide, bensì di esercitarla: della vera libertà amici falsi o tepidi. La monarchia non li volle, la democrazia li rifiutò. Il Santarosa per fastidio di vita si fece ammazzare a Sfatteria. La libertà non pose cura a rilevare cotesta morte, nè raccolse le ossa del caduto, nè gli pose il monumento, o gli cantò l’epicedio: solo il dottrinario Cousin gli sbraciava quattro palmi di marmo con una iscrizione stecchitaci su. Giusta dispensiera di fama quasi sempre la morte e provvida: a moderata cenere, tomba moderata, posta da mano moderata; — e sputai patrizi pelatori della monarchia per mettersene le penne al berrettone; poi vidi il popolo, e lo conobbi terra dove Dio non soffia più, sibbene qualche volta lo scirocco che ne leva la polvere da un luogo per balestrarla iln un altro; popolo che invoca sempre, e vuole altissimi fatti, come se avessero a venire da altri fuori che da lui; e intanto si appaga di maledire e servire; popolo nato forse alla vendetta, non alla libertà...

— Eppure, interruppe Filippo, il popolo italiano ha saputo rivendicarsi in libertà...

— Non libertà; dalla oppressione straniera; per ciò bastava odio e mani; l’acquisto della libertà desidera intelletto di amore. — Anzi nè anche dagli stranieri seppe liberarsi il popolo, perchè commise [p. 340 modifica] la sua causa al re, e questi ad uno imperatore, donde uscì fuori una indipendenza scrofolosa; figlio di Anteo, il popolo italiano, a cui per guadagnare qualche cosa fu mestieri battere la patta in terra; il mendicante seduto su gli scalini del palazzo che implora la elemosina per lo amore di Dio vi par’egli che possa presumere di entrarci dentro a farla da padrone? Taci, importuno, tu hai avuto abbastanza; rodi modesto e in silenzio il catello5 che ti buttarono davanti. Che hai che ti tasti d’intorno? Ti mancano alcune costole come Nizza e Savoia? Gua’! Dai bagni di Barberia non si usciva senza riscatto. — Sciagurato! Libertà è quella che si ricupera rompendo di uno strettone delle proprie braccia le catene e sbatacchiandone i tronchi sul cranio all’ oppressore; libertà che conta è quella che si strappa a mano stretta, non l’altra che si accatta a mano aperta; — ed io sputai fuori della mia bocca una volta i monarchi, due volte i patrizi e dieci volte il popolo.

— Dunque tutti all’inferno, dove non ci è redenzione? disse Filippo.

— Io parlo della vecchia Europa, massime dei popoli così detti di razza latina, e più specialmente degl’italiani; e così presagendo fino dal 1822 parmi essere stato profeta. Qui mi rifugiai raggiungendo [p. 341 modifica] i trecento primi venuti coll’Austin; danari non portava molti, pure quelli ch’io aveva erano troppi più del bisogno; comprai taluni negri, che in altro modo non si poteva possederli allora, e mi posi proprio a rinnovare le fatiche di Ercole; vincemmo l’aere infesto, purgammo i paduli dai serpenti, dissodammo terreni, schiantammo foreste, non ad uno ma a parecchi Acheloi fiaccammo le corna, domammo fiere, e selvaggi più feroci assai delle fiere; — ed ora vivo non senza orgoglio ed in pace in mia contrada, che Dio creò, ma che io disposi a ricevere le sue benedizioni: certo gli uomini che mi circondano non mi amano come vorrei, però quanto la natura loro glielo concede, ed io in mancanza di meglio me ne contento...

— Contento! Ma voi non consolano figli, non congiunti.

— Io -adottai figliuola la umanità.

— Però non sembra che qui la umanità proceda diversa da quella del nostro paese, e l’amore che a lei è dato mostrarvi non si prova troppo diverso dall’odio.

— Chi ve lo ha detto?

— Eh! mi pare averlo veduto; a meno che in queste parti coltellate e archibugiate non corrano per carezze e per baci.

— Pregovi avvertire che i nostri assalitori furono messicani, alunni di preti e di predoni [p. 342 modifica] spagnuoli. Questi avvelenarono il nuovo mondo con le infamie della religione cattolica e con esempi di tetra rapina, e il nuovo mondo si vendicò del vecchio barattandogli i suoi veleni col veleno della sifilide; atroce vendetta! La morte intorbidò la stessa sorgente della vita.

— Di grazia, signor Maurizio, il lynch è trovato spagnuolo?

— Potrei rispondervi che gli spagnuoli ne hanno di peggio, ma delitto altrui non giustifica il proprio; è trovato americano: però, badate, non fa prova di giudizio, e nè anche di onestà colui che imprende a sentenziare le azioni di un luogo o di un secolo con le nozioni di altri luoghi e di altri secoli: i santi si hanno a guardare dentro la propria nicchia, pena a chi manca di buttar fuori strafalcioni grandi come la cupola di San Pietro in Roma; ciò posto in sodo, io vi affermo che in paese dove la nozione della legge civile a pochi è manifesta e da meno osservata, dove la forza per prevenire e per reprimere male si può raccogliere, e più difficilmente ordinare, dove sovente l’amen della sentenza è una pistolettata che il condannato spara contro il giudice che lo condanna, dove razze moltiplici e tutte o in parte selvagge non repugnano da qualunque frode o violenza per sottrarre alla pena l’uomo della propria tribù, dove indiani e pantere prorompono fuori [p. 343 modifica] delle selve per ritornarci con la carne in bocca, non importa se di bestia o di uomo, io vi affermo, dico, che il lynch apparisce la forma più sicura e più giusta per tutelare il consorzio civile che si sta componendo. E poichè la coscienza pubblica giudica quasi sempre il reo preso sul fatto, non ci è pericolo di sbaglio.

— Brown dunque a ragione fu impiccato? Lui condannò la giustizia del lynch.

— Brown fu un giusto, e tuttavia gli accusati come il Brown non si salvano mai, e sapete perchè? perchè la colpa che si punisce non istà in loro, bensì nei giudici che la condannano; l’opera sua comparve più enorme del crimenlese, perchè pregiudicava l’avarizia dei borgliesi; e l’avarizia dei borghesi vince in crudeltà il dispotismo dei re. Tra voi civili chi salvò Cristo? Ditemi sinceri, chi vi mette più ribrezzo addosso, la barbarie americana col lynch, o la civiltà europea, che sacramenta l’assassinio col crisma della legalità, converte il giudice in Lucifero del boia, e calca nei moschetti le palle con articoli del codice criminale? Di qui ogni giorno più scomparisce il lynch, e spunta riparatrice la potestà dalla legge; per voi non ci ha redenzione; stornare non potete; e nè anche peggiorare, perchè non si supera il pessimo. Credete a me, che ne feci esperimento: sono gli americani pari ai sassi scoppiati dalla rupe per virtù di mina, adesso rudi, ma, [p. 344 modifica] se scarpellati a dovere, capaci a fornirti materia per costruire mirabile edifìzio della civiltà umana. Ricordatevi che voi italiani foste salutati una volta da un poeta francese polvere di uomini. Certo un giorno la polvere affaticata si commosse, turbinò in vortici e scorse baldanzosa un tratto di via per ricascare più in là sopra altra polvere. Travaglia gli americani la pletora della violenza, gl’italiani strugge la dissenteria della corruzione; sboglientiti i primi, voi li vedrete sani e prestanti; sopra i secondi ha già scritto la morte: posto preso. Ammirate gli americani, però che essi hanno avuto cuore di servirsi dell’oro come Dio della parola; questi per creare e quelli per ricreare il mondo. Gli spagnuoli che fecero dell’oro a palate raccolto? Nelle terre deserte dall’ozio l’oro si seminò inavvertito e generò mirabile copia di corruzione. Crederono che l’oro recherebbe perpetua prosperità fra loro, ed invece si tirò dietro per mano la desolazione; però che ricchezza e miseria sleno le due cime del cerchio che si ricongiungono insieme. Andate in California ed ammirate che miracoli partorisca l’oro tenuto come servo, non come padrone; ormai non mette più conto cercarlo, i prodotti della terra che egli ha fecondato rendono più di lui; con l’oro gli americani hanno spaccato monti da cima in fondo, onde vi passasse la vaporiera di mezzo, costruito aerei e sterminati viadotti, scavato canali [p. 345 modifica] da sbalordire per la lunghezza e per la difficoltà di condurli; si proposero erigere edifizi, che facessero prova non essere state novelle i monumenti babilonici; mancavano di sassi e di scalpelliai, che importa? For ever ago, essi vanno a cavare i massi di granito dalla China, e incettano operai a sedici dollari di salario per giorno, ovvero a 84 e 80 delle vostre lire. Che più? non bastandogli la terra, l’americano un bel dì si volta in San Francisco al mare, e gli dice: ritirati! E il mare, che udendo un giorno simile comando da un re, si arricciò incollerito, e ricoperse di schiuma lui e il suo trono,6 davanti al popolo si ritrasse come leone ammansito, perchè l’oceano è amico del popolo; e percotendo assiduo l’estremo lembo della terra che abita, gli va mormorando questo insegnamento: «mirami; dacchè sono nato, verun tiranno ha potuto stampare su me l’orma aborrita.» Qui l’americano con l’oro fecondò la natura, noi con l’oro l’abbiamo resa sterile; qui la natura diventata alma parens, Cibele, che nudrisce con le sue cento mammelle i suoi figliuoli di vita e di virtù, mentre voi spesso vi trovate costretti a stendere le mani traverso l’oceano per [p. 346 modifica] implorare dall’America tanto da non morire di fame: non si fa pane coll’oro.

— Ma la patria! la patria!... gridò con voce straziante così il giovane Curio, die parve uno stianto del cuore.

— Dovunque, rispose Maurizio, levando gli occhi in alto tu vedrai il cielo popolato di soli e di pianeti, e su su nel fondo il cuore ti dirà esserci Dio, quivi è la tua patria, anche il padre Dante lo ha detto;7 e ciò perchè essendo la patria cosa divina. Dio non volle commettere alla empia virtù degli uomini il darla o il torla.

— Ma le ossa dei padri non formano parte della patria? La patria si porta essa sotto le suola delle scarpe?

— Cotesto è culto di gente barbara. Da per tutto troverai calce resultata da ossa umane; che se quella calce tu veneri per santa, fa’ come gli antichi sciti, i quali costretti ad esulare se la portavano seco. Danton, attesta la fama, pronunziò il motto della patria che non si porta sotto le scarpe, e parve sublime, mentr’era materiale: poichè teco verranno le care memorie e i dolci affetti, il culto degli esempi virtuosi e gl’insegnamenti paterni; l’altro che preme? Monumenti e tombe non valgono il [p. 347 modifica] pregio di essere rimpiante: vanità di vivi, non refrigerio di morti: l’avello dell’uomo di cui il nome cascò intero nell’oblio non merita ingombrare la terra nutrice. Viviamo tra i vivi o tra i morti? E se non ti basta per patria il luogo dove in fondo ai soli ed ai pianeti contempli Dio, la patria è quella dove la donna amata ti consola e il bacio dei figliuoli ti aspetta; dove la mano dell’amico ti serra la mano con tale stretta, che risponde ad un palpito del cuore; — colà dove puoi veracemente, pienamente affermare il tuo diritto, il tuo Dio, quivi è la tua patria.

— Eppure, soggiunge Curio, come uomo che non è vinto ancora e sente fuggirgli sotto una credenza antica, eppure i nostri grandi ci hanno insegnato essere la nazionalità e la unità della patria eccelsi scopi, e noi abbiamo versato per conseguirli il nostro sangue...

Omnia tempus habent. Le cose di che avete detto sono spade a due tagli; ottime secondo i tempi e i luoghi; — continuerai ad adoperare nel Bengala la veste che indossavi in Siberia? Voi bene meritaste della patria e della umanità quando vi travagliaste per questi due fini: per iscuotere il giogo della servitù straniera era necessità diventar forti, e perciò uniti, perchè appunto nella unione sta la forza: nò io v’incolpo se da questo vostro disegno non ve n’è venuto tutto il vantaggio da voi [p. 348 modifica] presagito; imperciocchè forti non foste mai; voi avete chiesto la vostra unità come il mendico agitando il bussolo, e il passeggero ve l’ha gettata dentro per elemosina; se urtati dalla Francia, dall’Austria o dalla Prussia, voi non la potreste sostenere; ma questo mettiamo da parte. Quando la fratellanza universale e la umanità prevarranno, davvero allora dovranno sparire le nazionalità e le unità dei popoli. Di fatti, che significano esse? Significano Stato a parte, esclusivo, retto da interessi sempre distinti, sovente ostili al consorzio umano; significano concentramento di forze in un luogo, in un ordine di cittadini, in una persona, causa perpetua di tirannide schietta o ritinta di biacca costituzionale dentro, di prepotenza fuori. Voi avete a figurarvi la unità come il latifundio che isterilisce il paese e suppone il feudatario o la mano morta; la federazione di piccoli Stati, la prosperità e la pace. Credetelo a me, alla stregua che spariranno dal mondo le nazionalità, fie che cresca la libertà e ne vada lieta la umanità. Allora interrogato l’uomo: — A qual paese appartieni? Lo udrai rispondere: — Uomo sono e appartengo alla famiglia della umanità: allora sarà possibile la soppressione degli eserciti permanenti, di rado difesa contro i nemici esterni, sempre arnese di tirannide dentro, almeno nella intenzione di chi l’ordina e li tiene ai suoi servizi. [p. 349 modifica]

— Dunque noi altri soldati volontari fummo soldati della tirannide?

— In parte senza saperlo lo foste; ma siccome serbaste una coscienza, una volontà, un pensiero, vi ebbero in uggia sempre, anche quando procuravate vantaggio o diminuivate vergogna, ed appena poterono farlo senza paura vi dispersero. O come volete che tutelino la libertà uomini a cui s’insegna a prova di fame e di prigione a tutto dimenticare, niente apprendere, eccetto il comando del superiore, e questo eseguire con obbedienza cieca e passiva? Ma non ci sono le leggi umane da osservare? Che leggi e che non leggi, sopra ogni cosa sta l’ordine del superiore. Ma o i comandamenti di Dio non contano più nulla? Nulla; se non in quanto si accordano con gli ordini dei superiori; però ti si farà delitto se repugnerai a uccidere l’uomo inerme, a empire di strage le città pel fine d’indurle a salutare terrore; delitto gravissimo commetterai se, avendo ribrezzo a far da boia al tuo compagno, tu scaraventerai lontano da te lo schioppo, griderai: io qui venni soldato, non carnefice. Sbagli, risponderanno, tu hai ad essere ad un punto e soldato e carnefice.

— Ma non sempre i soldati gettano la coscienza nel pozzo...

— Peggio il rimedio che il male; alle milizie stanziali per vizio del proprio ordinamento non è [p. 350 modifica] concesso altro che fare il danno della patria, perchè se abiettate con la dottrina della obbedienza cieca e passiva, tu le proverai belve ammansite, contaminate di spiriti ribelli ti diventeranno pretoriani arbitri delle vite degl’imperatori e dei destini della patria...

E qui tacquero per assai lungo spazio di tempo: ad un tratto Maurizio riprese:

— Dunque nulla vi alletta a tornare, tutto vi respinge dall’Italia. Il governo di cotesto paese vi costrinse ad esulare, ebbene, voi confinatecelo come costumò Diogene con quei di Sinope; e poi non vi pende sul capo la sentenza di morte? Per voi non ci è grazia, non ci può essere: se foste parricidi potreste sperare, ma avendo voi fatto oltraggio all’arca santa della milizia, ogni scampo vi è tolto; il vostro è sacrilegio regale, perchè la forza si vuole venerata, adorata, ad ogni modo temuta come quella che unica oggi tiene ritti i troni. Anche qui tra noi giunse l’esecrata novella della strage del giovanetto Barsanti, e gli uomini del lynch ebbero lacrime per l’infelice. Quando il medico Lanza scenderà le mal salite scale del ministero, potrà lasciarsi dietro ogni cosa; una sola non potrà, il rimorso di cotesta morte. La storia ricorderà che fu principalmente per lui che questi tempi ebbero nome di borgiani; tra Claudio, imbecille sanguinoso, il Valentino, tiranno da fiera, e Ferdinando di Napoli, [p. 351 modifica] Mastrilli da teatro diurno, piglierà posto anche il dottor da Vignale. Cristo, che patisti lo schiaffo dalla mano di un giudeo, tu solo puoi comprendere l’amarezza sofferta dall’Italia per la umiliazione di avere a capo dei suo governo un Giovanni Lanza, medico da Vignale!

— Pur troppo! disse Filippo, eravamo destinati a considerare ridotte in atto dal governo italiano le grottesche fantasie delle tentazioni di sant’Antonio del Callotta.

— Fantasie del Callotta, interruppe Curio a sua volta; oh! di’ piuttosto immaginazioni di Nerone ubriaco, di mangiatori di oppio; fantasime incise dal Piranesi, quando la tetra ipocondria gli rodeva il fegato.

— Sì, questo e peggio, soggiunse Maurizio; dunque siamo intesi: voi tornerete in Italia a pigliarvi la mamma e la figliuola vostra e riverrete qui, tu, Curio, a tenermi luogo di figlio; e sì dicendo gli pose la mano sopra la spalla con tenerezza di cui non aveva dato segno fino a quel punto, e nella sua voce si sentiva la pietà della preghiera e la paura della ripulsa; e voi, Filippo, mi farete da fratello: intanto gli porgeva la mano libera. Che volete? Nella solitudine non s’incespica mai, ma all’ultimo la proviamo la più pesa di tutte le croci: mi sento stanco di camminare per una via dove non incontro sasso che mi laceri i piedi, ma nè [p. 352 modifica] anco trovo albero che mi ripari coll’ombra. E caso mai vi avvisaste redarguirmi di contradizione, io vi risponderò che l’uomo è una contradizione perpetua, che mangia, beve, dorme e veste panni, e ben venute quelle contradizioni che fanno scomparire il nostro intelletto e onore al nostro cuore.

— Scusate, Maurisio, ebbe a notare Curio, come di faccia alla coscienza vi potete sdebitare di chiamarvi dintorno i vostri congiunti? Non vi par’ella giustizia preferire a persone da voi conosciute per accidente, e forse non abbastanza conosciute per chiamarle con prudenza a parte della vostra famiglia, coloro che vi stanno uniti con vincoli di sangue?

— Oh! rispose Maurizio scotendo il capo, quanto all’amico Filippo egli è un libro da coro; si legge a dieci passi di lontananza senza bisogno di occhiali; un poco più difficile a capirsi sei stato tu, pure adesso presumo conoscerti meglio che tu non conosca te stesso; rispetto a’ parenti, ti dirò che questi bisogna prendere quali essi sono, gli amici poi si pigliano fra quelli che garbano: i primi t’impone la necessità, i secondi ti procaccia la elezione: se tu mi fossi figlio di natura tu dovresti la vita a me, mentre adesso io la devo a te e all’amico Filippo. I parenti di me non cercarono mai; quindi qual maraviglia se io non cerchi di loro? Nè penso abbiano voglia di cercarmi; da cinquanta anni e più di me non ebbero novella, e tu puoi credere [p. 353 modifica] che non avranno atteso venti anni per farsi immettere nel possesso dei miei beni; dunque giudico che da molto tempo dev’essere trascorso a favor loro il termine dei trenta anni per succedermi a tenore di legge: ora, se di un tratto io mi facessi vivo, sta’ certo che mi avrebbero caro come un morto maligno scappato dalla sepoltura per divorarli. Lasciamo che godano in pace il bene di Dio, il quale essi credono possedere legittimamente; capisco che all’ultimo essi vedrebbero che, se fossi resuscitato, lo farei per dare, non per riprendere; ma prima troppo più li turberebbe la paura di perdere, che la speranza di acquistare. Ed ora voi potete comprendere che io posso bene ingannarmi nei miei ragionamenti, ma che però opero sempre a caso pensato. Per istasera satis: domani ci ritornerò su per venire ad una conchiusione; intanto pensateci, e buona notte.

Di vero la notte portò consiglio, e Curio e Filippo si trovarono d’accordo ad accettare la proposta di Maurizio; il primo per tutte le ragioni esposte da questo, alle quali, esarcebato com’era, altre ne aggiunse del medesimo conio; Filippo taluna di quelle ragioni trangugiava come pillole confettato in aloe; da altre poi torceva incollerito il pensiero; ma sopra tutte prevalse lo immenso amore che sentiva per la figliuola e la brama di vederla accasata prima di morire. [p. 354 modifica]

Maurizio non potè tenersi dal manifestare la sua inestimabile contentezza; ci furono ritrovi, feste, conviti, dove intervennero i conoscenti di Maurizio da cento miglia lontano; questi adottava co’ modi più solenni Curio, e a tutti lo presentò come suo figliuolo ed erede. Cessate le feste, si diede, con la consueta alacrità, ad ammannire le cose necessarie pel viaggio; gli tardava vedere la famiglia di Cario raccolta sotto il suo tetto; andò, tornò, scrisse a New-York, a Baltimora, a Boston; finalmente, la vigilia della partenza così parlò ai suoi amici:

— Andate e tornate presto, che non ci è tempo da perdere; voi capite, che se io non sono di partenza, tengo però un piede nella staffa. Voi, adesso, siete cittadini americani, non dimenticatelo mai; ecco l’atto della vostra naturalizzazione; questo è il passaporto e queste lettere di raccomandazione pei ministri e pei consoli americani delle città e porti dove passerete. — Questa lettera contiene un credito illimitato sopra la Casa Baringh di Londra; potete usarne secondo il vostro giudizio, perchè io ho pensato: chi sa quanta povera gente si trova avvilita in Italia pel delitto di avere combattuto per la patria! Non senza orrore ho ietto di alcuni soldati delle patrie battaglie morti di fame... Orsù, non ci pensiamo; quanti ne troverete che vogliano fuggire crudeles terras et litus avarum, tanti menatene con voi; due condizioni pongo a questa leva: amore del [p. 355 modifica] lavoro e buon costume. Qui poi faremo i patti e converremo dello statuto della colonia; non mi manca terra ne facoltà per lavorarla, e adesso mi casca in acconcio per confidarvi che il Texas è paese fecondo di argento, come la California di oro; io, dissodando, ne rinvenni una miniera, ne cavai quanto potei senza argomento alcuno d’ingegneria, come senza dirlo a persona; poi ricopersi lo scavo che occorre su la mia terra ed io solo conosco; lo riapriremo alla occasione e ci attingeremo come ad un salvadanaio per sussidiare la colonia e imprendere lavori di bonificamento; questo poi ho voluto dirvi, fidando nella vostra discrezione, perchè andiate persuasi che ai vostri compagni non può venir meno il vivere, finchè non sieno in grado di procurarselo col proprio lavoro.

Si abbracciarono e si divisero.

La costanza non è mica corazza che ripari le ferite del dolore, solo dà balìa all’uomo di sopportarne delle nuove; sicchè, nel sottosopra, non sai dire s’ella sia benedizione o maledizione di Dio; ad ogni modo la signora Isabella, sfinita di forza e di costanza, si sentiva prossima al termine dei suoi giorni. Lei meritamente salutammo madre dei sette dolori; lei Niobe cristiana, che si recava l’urna [p. 356 modifica] in mano contenente la cenere di tutta la sua stirpe. Certo le avanzava un figlio, ma ciò la fortuna maligna aveva fatto non già per consolarla, bensì perchè ella non si addormentasse sopra il suo cuore per cangrena tranquillo, ma sì per accompagnarla con le strappate dello spasimo fino all’ultimo passo verso il sepolcro. Adesso la santa donna con la morte nel petto, e nel sembiante larva di quello che fu, dissimulava il suo stato fino a darsi attorno per le faccende di casa; a tanto strazio ella si conduceva per non contristare la cara Eufrosina, dandole ad intendere che sana si sentiva e baliosa. La pietà profonda, il desiderio immenso che sentiva di conservarsi rigoglioso il bel giglio di amore, la persuadeva a custodirlo con l’aspra diligenza dell’avaro; anzi, ella giunse al punto di percuotere con frequenza il cucchiaio e la forchetta nella scodella e nel piatto che aveva davanti, onde far credere alla cieca ch’ella cibasse largamente le vivande che a stento aveva provveduto alla povera figliuola.

Chi ignora le gioie, i dolori e le cure della famiglia, non comprende le ragioni di tanto smisurati sagrifìzi; affermano siffatte ragioni interessose, ed è vero; ma vi hanno interessi degni di essere assunti tra le stelle in cielo più della chioma di Berenice, ed altri che il diavolo non si attenta toccare per paura di scottarsi le dita; le sue ragioni erano queste: per Eufrosina sperava che le furie della mente [p. 357 modifica] di Curio sariensi placate e il suo sangue addolcito; per Eufrosina Isabella si riattaccava alla vita, giunta all’occaso; nel presagio dei nepoti, ella riviveva in loro, esultava nella speranza che la sua stirpe avrebbe conservato e cresciuto la traccia luminosa della gloria di Orazio, la memoria della bontà di Marcellino, ed anche riscattato gli errori degli altri suoi sventurati figliuoli... Ah! alla povera madre non bastava l’animo di confessarli colpevoli nè manco a sè stessa.

La buona donna, moglie di Foldo, quante volte le sue faccende gliene porgevano comodità, scappava dalle sue amiche: entrata in casa lei, le altre potevano riposare a tutto agio, imperciocchè ella sola facesse per quattro. Siccome la non si poteva dare pace di vedere la Isabella levata, e più volte gliene aveva mosso rimprovero, questa, la prima volta, le aveva susurrato negli orecchi: — Deh! non me lo dite più mai per quanto amore portate alla gran madre di Dio; la Eufrosina se ne affliggerebbe; e dal vedermi questa figliuola attorno contenta, mi fate la carità di dirmi quale altro conforto mi resta?

E veramente se la Eufrosina si fosse addata della miseria che la circondava, sarebbe morta per ischianto di cuore. Quanto a Foldo, ogni giorno che Dio mandava in terra faceva portare il pane a casa di Isabella: ma non solo pane vivit homo; rammentatevelo, lo ha detto anche Cristo; rammentatevelo [p. 358 modifica] perchè oggi vive una gente che predica neanche il pane necessario al sostentamento dell’uomo... Dio mi perdoni, ma ecco, io nego addirittura ch’egli presagisse la venuta dei moderati nel mondo; diversamente non avrebbe spedito in terra Cristo a redimere il genere umano; tanto, co’ moderati tramezzo, fu tutto sangue sciupato!

Torniamo al racconto. Isabella si sarebbe lasciata morire d’inedia innanzi di chiedere soccorso a Foldo e alla sua degna consorte, sapendo quanto cotesti cuori popolani davvero si spropriassero a sovvenire le miserie altrui.

Prima però di ridursi a simile penuria, certo di ch’ella non sapeva a qual santo votarsi per far quattrini, rovistando per le cantere di un vecchio scrittoio, le venne fatto rinvenire non so che cimeli vergati di mano di Orazio e con questi sperò procurarseli; al quale effetto trasse a fatica da un libraio in fama di liberalone e glieli offerse hi vendita. Il libraio, appena ci ebbe gettato gli occhi su, ne rifiutò recisamente l’acquisto aggiungendo:

— Che cosa volete che io mi faccia di coteste carabattole?

— Credeva, rispose Isabella, che gl’italiani avessero a reputarsi onorati... ad ogni modo essere curiosi di possedere l’autografo di un loro grande scrittore.

Sì, giusto! Gl’italiani hanno a badare a ben altro; [p. 359 modifica] essi, donna mia, non sanno che vendere; e se non vendono più, egli e perchè hanno venduto tutto.

— Non tutto, signore, non tutto.

— O sentiamo un po’ che cosa non hanno venduto.

— L’onore.

Il libraio stette alquanto su di sè; poi soggiunse:

— Può darsi, ma s’è rimasto in bottega vuol dire che veruno si è presentato ad acquistarlo.

Isabella, comecchè donna, venne in pensiero di saldargli la turpe ingiuria con uno schiaffo sul grugno, e lo faceva se glielo acconsentiva la spossatezza, ora accresciuta pel nuovo strazio; aveva già volte le spalle per andarsene, quando il libraio, così incapace di sentire vergogna per sè come il pudore della dignità altrui, solo per istinto di curiosità interrogava:

— Scusate, donnina, si potrebbe sapere come vi sono capitate nelle mani coteste quisquilie?

— Io sono figliuola adottiva e nuora, insomma erede unica rimasta di Orazio Onesti.

— Come così è, perdoni sa, se non la conoscendo... se non avendo l’onore di conoscerla (e qui si cavò la berretta) si accomodi, prego (e le offeriva lo sgabello stesso sul quale egli poc’anzi sedeva), non può credere come mi si stringa il cuore a lasciarla andar via così sconsolata... Faccia una cosa, la mi lasci coteste preziose reliquie del celebre suo signor [p. 360 modifica] socero, ed io mi metterò in quattro per esitargliele — ma’ mai mi capitasse nel negozio — perchè, veda, con quei benedetti inglesi non ci è più da fare un pasto buono; le penne costoro le hanno rimesse, ma si ricordano essere stati pelati; i russi poi si mantengono tuttavia barbari abbastanza da tenere in pregio le memorie degli uomini grandi e da lasciarsi pelare; ma dia retta, signora, io posso proporle meglio a pronti contanti: mi dica, avrebbe ella, o taluno di casa sua, alienato in perpetuo o temporariamente il diritto di proprietà delle opere del suo signor socero e padre?

— No signore, nè io nè la buona memoria del mio signor marito. Il mio signor socero sì, ma a tempo allo editore che primo le stampò, la quale da parecchi anni è scaduta.

— Perfettamente; pertanto se la signoria vostra mi cedesse per tre anni, a decorrere dal dì della pubblicazione di ogni singola opera, la facoltà di stamparla, le pagherei subito lire mille italiane in oro, e più mi obbligherei a darle gratis una copia rilegata in brochure, s’intende, della mia edizione.

— Caro lei, io non me ne intendo, ma veramente... disse Isabella, peritandosi a compire la frase per la paura le sfuggisse di mano quella cima di fune, che giudicò porgerle la Provvidenza nella sua misericordia; e il liberale stampatore, aggrondato, con voce alquanto risentita: [p. 361 modifica]

— Mille lire! Le paiono poche mille lire... in oro... subito... prima che ella esca di bottega?

— Via, non s’impermalisca, voglia scusarlo alla inesperienza... mi getto nelle sue braccia... e che devo fare per istringere il negozio?

Il libraio liberale fra sè esclamò: Accidenti! questa ha fame; si poteva portare via la compra per metà prezzo; il cuore mi strascina sempre dove vuole! Poi a voce alta: Ecco, io stenderò un bocconcino di lettera, nella quale la signoria vostra mi dichiarerà avermi ceduto la proprietà degli scritti di Orazio Onesti per quattro anni, ed ella la segnerà.

— Sì signore, come comanda.

— L’editore liberale ecco si assetta al banco, si pone gli occhiali a cavallo al naso, e tutto tremante per la contentezza del magnifico affare conchiuso buttò giù la lettera, avvertendo di portare a cinque i tre anni primamente convenuti.

La Isabella si accorse pur troppo della pidocchieria, ma non si attentando rilevarla per la solita paura, si tacque: riscosse le mille lire e si affrettò a ridursi più che potè difilato a casa, senza pur volgersi addietro, nel sospetto che costui non gliele ripigliasse.

Quel medesimo giorno, Dio (avrebbe detto un prete) per ricompensare il libraio liberale e dabbene della sua azione da galantuomo, gli mise [p. 362 modifica] dinanzi un americano da Baltimora, svisceratissimo della letteratura italiana, di cui giusto in quel punto imparava la grammatica, a cui parve toccare il cielo col dito acquistando gli autografi di Orazio Onesti per sole cento lire sterline; e ne dimostrò al libraio la riconoscenza scotendogli il braccio fino a levarglielo dal posto e invitandolo a bere il the a casa sua in Baltimora.

Il libraio, partito l’americano, ripose i biglietti di banca nello scrittoio, deliberato consegnarli tutti... non aveva ancora compito la frase, che ecco un cavallone di cupidigia scaraventare quella modesta onda di onestà a frangersi su gli scogli e gorgogliando susurrare: — Eccetto, bene intesi, una discreta provvigione per me. — In siffatto proponimento si mantenne fino a desinare, allora lo appetito dello stomaco gli destò quello dello spirito, e almanaccando su la faccenda conchiuse: — A dargliene mezzi basterebbe, ed anche mi paiono troppi. — A cena (ahimè! l’ora dei pasti era funesta alla generosità del libraio liberale) rugumandoci su venne nella determinazione di darne alla Isabella un terzo, ed anche quelli giudicò troppi... e ciò a modo di addentellato, nel caso che gli piacesse fabbricare accanto; perchè il nostro libraio fu della razza di cotesti uomini, di cui il primo pensiero li condurrebbe talora al Campidoglio, se l’ultimo non li menasse sempre alla forca. La notte standosi in letto [p. 363 modifica] gli tornarono a gola i biglietti di banca dello americano, e gl’impedivano il sonno; infastidito di giacersi sopra un fianco, si volge su l’altro, e in mezzo alla giravolta gli scende dall’alto la idea luminosa di pigliarseli tutti per sè; linea recta brevissima, come fece incidere sopra la sua argenteria il Guizot, ch’era andato sempre storto.

La mattina seguente, essendosi raccolta nella sua bottega la solita conversazione: un prete, un borsaiolo ebreo e un moderato cristiano, di un tratto gli si posò nel cervello importuno come una mosca sul naso il pensiero: e se in questa si presentasse colei per saper l’esito delle sue carabattole, che pesci piglieresti? Gua’! la risposta viene da se: i’ non le ho ancora vendute. Adagio, Biagio, prevedi il caso ch’ella ti avesse a dire: non vo’ più venderle, rendetemi la roba mia. Allora — e qui alzò tre dita della mano sinistra, e coll’indice della destra toccando il primo dito susurrò: per uscirne con onore mi pare che mi sovverrebbero tre vie: prima la fantesca nello spazzare la bottega, supponendoli fogliacci, li ha buttati via; il commesso del negozio per le medesime ragioni ed apparenze ci ha acceso la pipa, via seconda; terza via, il ragazzo di stamperia, preso a soqquadro da non so quale cinquantina di fichi, e intimato a riporli in libertà per urgenza, era scappato portandosi seco i fogli, sicchè la sua dignità [p. 364 modifica] di cittadino e di libraio lo aveva dissuaso andarli a cercare colà dove si trovavano.

L’abate, aocchiando la distrazione dello stampatore e cotesto suo almanaccare su le tre dita ritte, gli disse:

— O compare! A caso non vi sarebbe saltato il ticchio di proseguire il trattato della santissima Trinità, che lasciava in asso il dottore di santa Madre Chiesa, santo Agostino?

— Noe, rispose stizzito il libraio, come colui ch’era stato importunamente interrotto sul più bello delle sue meditazioni; io faceva il conto a chi di voi altri tre sarebbe toccato di andare primo allo inferno...

Proprio è così, e non fa nè anche una grinza, gli artisti di canto e i trovatori di armonie; quantunque celeberrimi, cascano negli ugnoli degl’impresari come le lodole in quelli degli sparvieri; gli scrittori del pari capitano in mano ai librai, a mo’ che san Lorenzo (di cui oggi ricorre j)er lo appunto la festa) s’imbattè in quelle dei suoi arrostitori.

Poco rincalzo le mille lire portarono alla Isabella, imperciocchè, levatisi prima i chiodi che si trovava avere, e’ fu bazza se le avanzò un quattrocento lire. Gli autografi del socero non le vennero più in mente, e lascio figurare a voi se il libraio andasse a ricordarglieli. Con quella po’ di moneta rimastale si [p. 365 modifica] tirava innanzi, procurando che nulla mancasse alla Eufrosina, quanto a sè governandosi tanto sottilmente, ch’era una pietà.

E questo non era mica il peggio, che l’angoscia da non potersi dire gliela dava la impazienza febbrile sua e della Eufrosina, di aspettare ogni giorno nuova dei cari diletti, e giungere a sera con la speranza sempre delusa. Cotesto davvero era spasimo, che trapassava il cuore delle due donne come una spada, ma più lacerante quello della Isabella, però che a lei toccasse dissimulare il proprio affanno per lenire quello di Eufrosina; alla quale non rifiniva mai dichiarare non essere poi tanto il tempo decorso dalle ultime notizie.

— Come non tanto! interrompeva l’appassionata Eufrosina, — oggi compiono per lo appunto tre mesi.

— No davvero, rimbeccava Isabella, o la notizia ultimissima non la conti?

— Io? Io conto quello che ci portò la posta.

— No, figlia, tu hai a contare da quella che ci portò il cuore. L’amore, a gara di prestezza, si lascia indietro anche la luce, e in un baleno trasporta uno dall’Indo al Polo.

— Sì, è vero, questo mi ricordo aver letto prima ch’io diventassi cieca nelle lettere di Abelardo e di Eloisa; ma adesso a tutte queste belle cose preferisco la posta del Barbavara. [p. 366 modifica]

L’altra taceva. E poichè Eufrosina capiva che l’anima della madre in cotesta incertezza si doveva struggere quanto la sua di amante, cessati i lagni l’abbracciava, e con le mani per la faccia e pel collo la blandiva.

Ma ormai il fascio delle tribolazioni per la signora Isabella si era fatto più grave di quello che le suo forze potessero sopportare; non le riusciva più levarsi da letto, dove trovandosi giacente la sera della decollazione di san Giovanni Battista, finse prima accendere il lume e poi lo lasciò spento; tanto a che pro? Gli occhi della Eufrosina non si allietavano al dolce lume, e i suoi provavano quasi un’amara voluttà ad assuefarsi allo imminente buio perpetuo. In mezzo a cotesto silenzio lo zufolio sottile della zanzara si udiva come lo strido della tromba dell’angiolo che chiamerà al giudizio finale i morti, se la vorranno udire.

Eufrosina non si attentava domandare alla signora Isabella come si sentisse, ed Isabella si mordeva le labbra per trattenersi da guaire; sotto lo imperversare della sventura stavano cheti cheti, pari a duo uccelli i quali sotto la medesima fronda si riparano al furore della tempesta.

— Mamma!

— Dio! Dio! che voce è questa? [p. 367 modifica]

— Eufrosina! Dove sei?

— Babbo!

— Curio!

— Non alzate la voce; — siamo noi... proprio noi...

A tastoni, brancolando, trovarono il letto, — incontrarono i pegni della loro tenerezza, si strinsero, abbracciaronsi, bocca a bocca incollarono, l’uno alitava, anzi viveva la vita dell’altro; — non parlarono, non piansero; tanto sprofondarono in cotesto abisso di passione, che rimase sospeso in essi ogni senso di dolore; — così gli occhi affissando la soverchia luce smarriscono la facoltà visiva.

Dopo parecchio tempo Filippo si accorse ch’erano tutti al buio, onde si mise a dire.

— Lume! lume! ch’io vo’ vedere la cara faccia della figlia mia.

— Lume! lume! ripeterono in coro Isabella e Curio.

— Lu... gridò a sua volta impetuosa Eufrosina, senonchè a mezzo le strozzò nella gola la parola l’acerbo ricordo della sua cecità; smaniando ricinse con ambo le braccia il capo di Curio, e forte se lo accostò al suo; che adesso alla virtù di amore si aggiungeva la paura. Filippo, per far presto, frega una mezza dozzina di fiammiferi al muro, e, come succede sempre, fece più tardi e si scottò le dita. Alfine accende quanti lumi gli occorrono nella stanza; [p. 368 modifica] ma per questo non potè vedere la faccia della sua Eufrosina, imperciocchè ella si trovasse per così dire compenetrata in quella del suo diletto, come se presumesse gittare la propria forma nella forma di lui, onde Filippo, montato in istizza, mise le mani in mezzo a guisa di cuneo, e tirando forte di qua e di là giunse a separare le fronti dei giovani. Eufrosina fino a cotesto punto non si era attentata ad aprire gli occhi; adesso le viene fatto sollevare una palpebra, e:

— Madre di Dio! ella grida, lo vedo, lo vedo, l’ho visto, l’ho visto, l’ho visto!

— Chi hai visto, anima? Chi hai visto?

— Cario ho visto... Curio...

E aveva richiuso gli occhi.

— Riapri gli occhi, cara, le andava ripetendo Filippo fuori di sè, sincerati una seconda volta.

— No, no, mi basta; e se tornassi a non vederlo più? Sa fosse stata una visione passeggera!... Capisci, babbo, mi si spezzerebbe il cuore.

— Ma come mi hai visto? subentrava a dire Curio... su, dimmelo, diletta mia.

— Ecco, io ti ho visto, e giudica s’è vero, tu ti sei fatto color di rame; sopra il ciglio destro hai un taglio... è vero o non è vero?

— Sì, è vero: dunque su via, coraggio, riprovati una seconda volta.

E così dicendo Curio tentava removere le mani [p. 369 modifica] dagli occhi di Eufrosina, ch’ella ci teneva sopra ostinata.

— Oh! non m’invidiare, cattivo, la misera gioia che nasce dalla incertezza di un bene. — Fermati, dico. Tanto per forza non verrai a capo di nulla.

— Ebbene, fallo di tua Volontà... Ah! non ti basta l'animo? Ti manca il coraggio? Va’, ti faceva meno codarda.

— Codarda io! Gruarda se io sono vile!

E tale parlando, allontana le mani dagli occhi e la intera anima trasfonde nello sguardo.

— Vedo! vedo! Curio... babbo... mamma stesa sul letto... Ahimè! Curio... mi sento morire...

E la povera tosa casca nelle braccia dello amante... Piangevano tutti, e veruna esultanza avrebbe avuto virtù di porgere refrigerio ai dolorosi quanto cotesto lacrime, se la paura di male per la cara fanciulla non li avesse amareggiati. I nostri personaggi, disposti in diversi atti, non si arrisicavano di pure alitare, come quelli che temevano ogni sottil fiato potesse spegnere la fiammella, la quale, se non era morta, nè anche appariva viva. Allo improvviso Eufrosina ritorna a spalancare gli occhi smaglianti nella potenza dei moltiplici affetti...

Nel modo che la scienza ammaestra la luce del sole emanare dalla combustione simultanea di molti metalli, tra cui principalissimo l’oro, così nello sguardo di Eufrosina sfolgorava la gratitudine verso quello [p. 370 modifica] che, dopo averla tribolata tanto, adesso la consolava, oltre la speranza e la tenerezza verso il padre, la carità per la Isabella e soprattutto l’amore ardentissimo per Curio.

Chi mai gliene avrebbe mosso rimprovero? Vince ogni cosa Amore; così ordinò la natura.

Sebbene, qual più, qual meno, i miei personaggi credessero in Dio, e forse taluno di loro senza accorgersene, pure a veruno cadde in mente che ciò fosse avvenuto in grazia di un miracolo; i presagi del medico Taberni si erano avverati,8 — e non [p. 371 modifica] dimeno andavano ripetendo senza fine: miracolo! miracolo! dimostrando a questo modo quanto sia la potenza della contradizione nell’uomo e la forza quasi invincibile della consuetudine.

A scoterli dalla estasi in cui stavano assorti ecco di un tratto sonare una voce; era amica la voce, che diceva:

— Scapati! Senza un quattrino di giudizio! Voi l’avete fatta bella! La questura, avvertita della vostra presenza qui, manda a questa volta questurini, carabinieri; tiene ammanniti i bersaglieri; ha consegnato in quartiere i soldati di linea... tanti non ne [p. 372 modifica] farebbe bisogno a prendere Buda... via... spulezzate subito, se non volete che vi agguantino.

Così parlava Foldo con lena affannosa; e le sue parole ebbero la maligna virtù di far cadere in sincope la signora Isabella e impietrire Eufrosina. Foldo mirando com’essi gingillavano, replicò di forza:

— Via, presto, se vi è cara la vita.

Filippo, più presente a se stesso, agguanta il portafogli e risponde: eccomi! ~ All’opposto Curio con orribile pacatezza: io sto; quando pende incerta la vita di costoro, — e qui additava le donne — io non devo curarmi della mia.

Non correva adesso stagione di starsene a tu per tu; quindi Filippo e Foldo si allontanarono in fretta, nè camminarono troppo per via che s’imbatterono in una squadra di guardie, le quali giudicarono avviate ad arrestare i proscritti, e pur troppo si apponevano.

Seguitiamo i due amici per vedere dove vadano e che cosa almanacchino, imperciocchè io comprendo quanto strazio sarebbe pei miei lettori lasciarli lungo tempo incerti su quanto sta per succedere; questo tenerli un pezzo su la corda può benissimo essere arte di romanziere, ma la è arte crudele. Filippo si fece condurre difilato dal signor A., rappresentante degli Stati Uniti di America; italiano, esule per molti anni a Boston, uomo di virtù antica, e delle vecchie e delle nuove dolcezze dei governi italici peritissimo. [p. 373 modifica]

La necessità suggeriva a Filippo parole succinte ed efficaci; gli pose in mano lettere e documenti; gli si raccomandò in visceribus non mettesse un minuto di tempo fra mezzo; dallo indugio ne uscirebbe il danno certo e irreparabile; forse non difficile impedire che la pietra cascasse nel pozzo; cascataci dentro ci vorrebbe il diavolo a cavamela.

Il signor A., che poteva dire di se quello che Virgilio mette in bocca a Didone: non ignara mali mìseris succurrere disco,9 insaccati i fogli e calcatosi il cappello in capo, si mise la via fra le gambe e in meno che non si dice un credo cascò come bomba briccolata in fortezza nemica nella camera del prefetto, il quale allora stava per lo appunto in consulta col generale di divisione, il procuratore del re, il colonnello di giandarmeria, il questore, insomma con tutti i denti del coccodrillo civile e militare preposto alla custodia della città.

La orazione del signor A. stringata in modo da far morire d’invidia Tacito e Bernardo Davanzati, la quale orazione insomma si sostanziò in questo:

«Le persone ch’essi si disponevano arrestare essere cittadini liberi della Unione americana; diventati tali in grazia di debita naturalizzazione; di più riputati dal governo cittadini benemeriti per opere e per dovizie largamente spese in pro della Unione; — [p. 374 modifica] per queste cause il presidente della repubblica raccomandarglieli con particolare sollecitudine; onde a lui correre debito non patire che fosse loro torto un capello, e qualora al prefetto bastasse l’animo di provarcisi, egli abbasserebbe l’arme e romperebbe ogni corrispondenza officiale col governo italiano; pensasse due volte il prefetto a quanto stava per fare, perchè con lo embargo generale ed istantaneo sul naviglio mercantile italiano si sarebbe nabissata la fortuna pubblica e privata del regno. Ponesse mente quanto discredito avrebbe partorito al suo governo cotesta bestiale persecuzione; il danno dello scandalo mille volte più grave della utilità che sperava ricavare dall’esempio: per ora la università dei cittadini ignorare la presenza dei proscritti; poterla senza scapito di reputazione dissimulare il governo; egli obbligarsi ricondurli in quel medesimo giorno nella Svizzera.»

— Ma perchè vennero cotesti sciagurati? interroga stizzito il prefetto.

— Oh! ecco, rispose il signor A., innanzi tutto vennero a rivedere la respettiva loro madre e figliuola.

— O non potevano mandare a pigliarle da Lugano?

— Quanto alla figliuola sì; quanto alla madre no, la quale, a quanto sembra, giace dal mal di morte travagliata.

— Voi avete detto, signore, che innanzi tutto [p. 375 modifica] furono mossi dal desiderio di vedere le loro donne; dunque ci hanno altre ragioni dietro? Quali sono esse?

— Certo l’altra causa consiste nel levare di qui cinquanta o sessanta garibaldini, e menarli seco a fondare una colonia su i terreni che possiedono nel Texas.

— Questo è buono a sapersi; può facilitare la clemenza del governo; dunque sapete di certo che ci libererebbero da una sessantina di rompicolli pari loro?

— Senza cotesti rompicolli sareste voi, signore, prefetto di Milano?

— Che rileva ciò? Quando la casa è infestata dai topi pregiansi i gatti; dopo dispersi i topi, fareste i gatti consiglieri di Stato?

— No, ma io non mi so capacitare come i vostri rompicolli d’Italia riescano in America cittadini commendevoli per costumi come utili per industria solerte ed ingegnosa.

— Sarà l’aria!

— E intanto queste emigrazioni, che indeboliscono l’Italia più che il continuo sudore il tisico, ingagliardiscono l’America; ma ciò non mi tocca; sta a voi pensarci.

— Mi sorprende, soggiunse il prefetto, come questi malanni abbiano potuto in così breve spazio di tempo mettere insieme tanta roba! Ma voi li [p. 376 modifica] dete ricchi davvero? Barnum a sorte non sarebbe passato per là?10

— Ve li assicuro io possessori di più milioni che la vostra fantasia non saprebbe immaginare; e se volete conoscere chi li ha fatti ricchi, io ve lo dirò, a patto che non ve lo abbiate a male, perchè io non intendo arrecarvi oifesa; li hanno resi opulenti e rispettati cittadini in America quelle medesime qualità che stettero a un pelo di condurli a morte in Italia.

Allora il prefetto sottosopra fra le minacce del rappresentante degli Stati Uniti, gli ordini del governo centrale, i milioni dei proscritti, la paura dello scandalo, il pensiero che quando le cose non approdano a bene i cenci vanno al macero, trepidante per la pentola, seguitando lo istinto di conservazione che sortono da natura tutti coloro che rodono il pubblico bilancio, s’industriò buttare la broda della risoluzione addosso agli altri ufficiali, sicchè ingenuo disse loro:

— Dunque, che cosa deliberano fare? Io li ho chiamati a posta.

E gli ufficiali risposero tutti a un modo; quasi gloria patris in fondo ad un salmo: che a lui stava ordinare, ad essi eseguire; sua, affatto sua, la responsahilità del comando; a loro la responsabilità [p. 377 modifica]CAPITOLO XXIV. 377

della esecuzione; le responsabilità non doversi confondere; e così giù un diluvio di responsabilità, di responsabilità, responsabilità, e via. Il povero prefetto, lasciato su le secche, pareva l’asino di Buridano messo in mezzo a due stacci di biada; di un tratto gli venne una ispirazione dall’alto: sospendere ogni arresto e intanto avvertire il ministro a rotta di collo; in cotesta maniera gli parve gratificarsi il ministro per la prova di deferenza che gli dava e scansare il pericolo: — due colombi a una fava!

E’ fu un gran correre e ricorrere di scintille elettriche lungo i fili metallici del telegrafo, un tremolare affannato di lancetta, un picchiamento irrequieto sopra la tastiera, una grandine di responsi, che parevano piovuti dal cielo. Il prefetto se ne stava mogio mogio, come una gallina bagnata messa sotto il corbello perchè le passi la voglia di covare, fino all’ultimo dispaccio ministeriale in cui si approvava il suo operato; si abbuiasse il caso; si facessero partire i contumaci sotto la malleveria del rappresentante della Unione; viaggiassero, bene inteso, a proprie spese; non li vedesse il sol novello in Argo; intanto sottilmente e segretamente si vigilassero; con anima viva non conferissero.

Poichè di tanto fu certificato il prefetto, sentì come un pane di piombo cascargli giù dallo stomaco, per l’allegrezza spiccò un salto, diede un trillo, [p. 378 modifica] se avesse potuto si sarebbe baciato; la gioia gli punse la vena della liberalità; si sentì inondato da un’aura di sciupone; tanto vero, che essendogli entrato lì per lì nello studio il primo consigliere di prefettura, egli gli regalò un sigaro da sette centesimi...

Per cotesto groppo di casi tanto vari e veementi avevano sentito terribili scosse gli spiriti ed i corpi dei più gagliardi dei nostri personaggi, ma la signora Isabella ne rimase infranta; veruno ci aveva fatto avvertenza, perchè la cura particolare teneva compresa in sè l’attenzione di ogni individuo; se l’avessero badata chi sa di quanti pianti e sospiri sarebbe a quest’ora andata ingombra la casa! Più volte la meschina di pallida diventò colore di cenere, le labbra le si fecero pavonazze, e le sue pupille dondolavano per quel vago errore, che non è anche morte e non si può più dir vita. La goccia, onde si versa l’anima, parve formarsi più volte nel cavo dei suoi occhi, ma non traboccò; gli spiriti vitali in procinto di partenza poteron soffermarsi sopra la soglia; — e ciò avvenne per virtù di Amore; il quale, comecchè per pochi istanti, può trattenere la morte; egli solo lo può; veruna altra forza supera inferna è da tanto.

— E tu, madre, verrai con noi. Noi non presumiamo farti dimenticare le sofferte sciagure; c’ingegneremo consolarle; sopra le tue ginocchia [p. 379 modifica] porremo i pargoli che la fortuna placata ci vorrà concedere, e questi sapranno suscitarti nel cuore qualche vestigio della fiamma antica. Tutti i santi, quando sul partire della vita levano gli occhi al cielo, vedono o credono vedere una gloria seminata di stelle e di capi di cherubini, — caparra di paradiso, e tu, madre, sei santa ed hai diritto che il più gentile del tuo sangue ti schiuda le porte del secolo immortale: — su via, fa’ cuore, sei giunta al termine del tuo lungo patire; levati; apparecchiati al viaggio; di poche vesti fa bisogno; a Lugano ne provvederemo quante basta; stasera partiamo.

Così alternatamente Curio ed Eufrosina favellavano ad Isabella; e il volto della madre, quantunque a coteste parole si rischiarasse, pure sembrava un fiore il quale, tronco nello stelo, per benedizione di sole non sappia più raddrizzarsi. Ella volle stendere a un tratto le mani ai suoi cari figli, e non ci riuscì; le mancarono le forze; allora prese ad allungare adagio adagio le dita, e rinnovando a più riprese il moto, giunse a toccare la cima delle mani di Curio e di Eufrosina; in quel punto si provò a favellare, o con un filo di voce disse:

— Figli miei, io sento pur troppo che il termine delle mie tribolazioni è arrivato; in breve imprenderò il viaggio al quale da molto tempo mi trovo allestita; mi ci apparecchiai col viatico del lungo [p. 380 modifica] spasimo e della pazienza inalterata; confido che basti; in ogni caso la misericordia di Dio non sarà per mancarmi... a rivederci... più tardi che potrete... a rivederci...

— O mamma, ch’è questo? Tu vieni meno! Mamma guardami! Mamma, mi senti?

— Mamma, mamma, è la tua Eufrosina che ti chiama!

La morente fissò l’una e l’altro con soavissimo sguardo di addio e susurrò parole non bene distinte, come persona che già si sia allontanata... Isabella passava pari alla lampa del sole, che lascia un mondo con mesto addio di luce per portare ad un altro mondo il saluto lieto di luce.

— Ma, caro e reverito signore, ella mi mette in un impiccio, in un impiccio di cui non posso neanche farle capire la serietà; non ci è casi; essi devon partire stasera, risolutamente stasera.

— Gli è morta la madre; — e il dolore della madre morta non dovrebbe essere difficile a capirsi neanche da un prefetto. Diavolo! Come può pretendere che un figliuolo si stacchi dal corpo della madre tuttavia caldo? Che un figlio non renda gli uffici estremi alla madre, ch’egli amò tanto? Diavolo! Queste mostruosità non costumano neanche fra i [p. 381 modifica] comanchi... fra i modocs; — e ci è da farne diventare rosso per la vergogna un negro di Caffreria...

— Lasci stare, caro signore, caffri e comanchi: a me tutto questo non preme un fico; sa ella che cosa m’importa? Il mio impiego; se io lo avessi a perdere, chi- mi fornirà alloggio, vitto, vestito, carrozza, teatro gratis, eccetera?

— Vada franco, signore, lo garantisco io.

— Garantisce lei! Ma che sia benedetto, su che cosa mi garantisce?

Il signore A. si asciugava il sudore per la pena; sentendosi in procinto a dare di fuori, con voce alterata conchiuse:

— Orsù! domani sera soltanto potrà darsi sepoltura alla defunta... veruno in tutto il giorno uscirà di casa, nè veruno ci entrerà; ella, se non si fida, faccia sorvegliare; i miei concittadini trasporteranno il corpo al camposanto, lo seppelliranno; dopo sepolto entreranno in carrozza... dalla fossa allo esilio perpetuo.... è contento? E si che le potrebbe bastare.

Il prefetto storse la bocca, si strinse nelle spalle e gemè:

— Vedete un po’ in che bertovello mi trovo! Dio faccia che male non me ne incolga... ma... sono troppo buono!

Proprio come il libraio liberale.

Nel colmo della notte, a lume spento, la salma [p. 382 modifica] d’Isabella fu trasportata al camposanto; la cassa avevano messo dentro una carrozza col capo in alto e il piede in giù; nè anche Cristo posò su la deserta coltrice; lo aveva proibito il prefetto. Seguivano due altre carrozze; dentro la prima Curio ed il rappresentante degli Stati Uniti, nella seconda Filippo ed Eufrosina: però in ambedue le carrozze su i posti davanti sedevano due guardie di pubblica sicurezza travestite da galantuomo; lo aveva ordinato il prefetto. Trovarono ammannita la fossa, e due vangatori con la pala in mano in procinto di gettare la terra sopra la cassa; il prefetto per far presto aveva rinforzato i becchini. Avevano trasportato le reliquie della povera creatura a mo’ che i contrabbandieri trafugano il frodo; le depositarono in grembo della terra come il ladro ci rimpiatta il tesoro rubato: appena fu concesso inginocchiarsi e recitare un requie. D’altronde, chi avrebbe potuto piangere ovvero pregare? Coteste anime, a cagione della immanità delle bestie che a muso duro hanno il coraggio di affermarsi uomini, si sentivano rapprese dentro una crosta di ghiaccio. — Lo vedo bene che, se inferno non ci è, per certa gente bisognerà inventarlo... Fu forza partire innanzi che avessero colma la fossa; la lasciarono in buona compagnia, che le dormivano allato figli, marito, parenti; certo alcuni l’avevano fatta arrossire, altri gonfiare di orgoglio; questi l’esaltarono, quelli l’atterrarono, [p. 383 modifica] ma ella li amò tutti di perpetuo amore: la lasciarono dando uno sguardo al cielo, riportando la promessa che le stelle sarebbero state benigne di luce alla ignorata sepoltura; e, posta la mano su l’erba, si accertarono che la notte non avrebbe cessato di piangere le sue rugiade sopra le ossa infelici; non una parola e neppure un sospiro avrebbe potuto aprirsi una via traverso la loro gola attenuata; le piante folte ammortivano il rumore dei passi dei nostri personaggi, sicchè parevano ombre che tornassero da associare un’ombra alla sua eterna dimora...

Accostandosi alla porta del cimiterio, ecco rompere il funebre silenzio uno strepito confuso di maledizioni e di minacce, un rumore di chi fugge e di cui insegue, un dimenio di chi agguanta e di cui tenta guizzare di mano: di corto si conobbe la causa del trambusto; Foldo e la sua degna consorte, avendo voluto entrare di riffa nel camposanto, n’erano stati duramente respinti: allora si piantarono su la porta per attendervi gli amici e ricambiare con essi l’ultimo addio; e siccome anche questo si era loro voluto impedire, resistevano, sbatacchiavano gli sbirri, facevano il diavolo a quattro: quando poi li sentirono vicini, non ci fu verso tenerli, sgusciano dalle mani dei cagnotti e nelle braccia loro si abbandonano. Smaniosi furono gli abbracciamenti, ebbre di dolore le parole, i baci [p. 384 modifica] furenti; ed allorchè li separarono, tale sorse dintorno un pianto irrefrenato, che ebbero a maravigliarsene gli stessi sbirri.

E pure non ci cascava maraviglia, perchè, a dire il vero, il distaccamento da Foldo e dalla sua degna consorte non era stato mica la causa sola, nè la principale di cotesto lutto, bensì l’anima dei meschini, rimasta lungamente in bilico per le sofferte tribolazioni, per quel po’ di giunta aveva traboccato.

Foldo ricevè dopo pochi giorni dal signor A. trentamila lire, le quali, giusta il desiderio di Curio e di Filippo, distribuì fra i superstiti delle patrie battaglie ridotti in miseria, ai quali o il peso della famiglia, o la ripugnanza di avventurarsi a fortune incerte e difficili dissuadevano emigrare in terre lontane.

Curio, Filippo ed Eufrosina sono tornati al Texas, conducendo seco cinquanta e più giovani prestanti.

Il signor Maurizio avendo mosso ad incontrarli, don Patricio e don Giacinto chiesero in grazia accompagnarli, e di leggieri venne loro concesso. Le accoglienze furono profondamente benevole, non chiassose; conformi alla indole dei nostri personaggi e al lutto che contristava l’anima loro. Trascorso tempo convenevole, si fecero le nozze fra Curio ed Eufrosina, [p. 385 modifica] la quale trovava curioso doversi ella obbligare davanti al magistrato a volere sempre bene al suo Curio; ci volle del buono e del bello a capacitarla come questo ordinasse la legge per accertare lo stato della prole nascitura. Maurizio benedisse le nozze, dicendo con molta gravità:

— Se presbiter significa vecchio, veruno negherà che io sia prete davvero. Vi benedico pertanto, però che io creda fermamente che la benedizione di un vecchio benevolo e onesto non abbia mai fatto male ad alcuno. Vi benedico in nome del Dio della natura, e vi auguro tutte quelle felicità che alle creature umane è dato godere, finchè sentono e ragionano.

Agli esuli furono assegnati terre, semi, arnesi e bestiame in buon dato; essi senza le diavolerie del comunismo si chiamano paghi della mezzana come si pratica in Toscana, ampliata e corretta secondo che la esperienza venne e viene di anno in anno persuadendo.

Don Patricio e don Giacinto, pregati, si trattennero ancora per alquanti mesi, ma alfine, avendo più volte insistito per ottenere licenza, fu mestieri concederla: essi lodavano, anzi levavano a cielo quello che vedevano; ma l’indole loro, e forse più dell’indole, il costume, faceva sì che si sentissero in cotesta vita ordinata a loro agio come se sedessero sopra un pettine da lino: non adducevano, [p. 386 modifica] perchè l’ignoravano, se l’avessero saputa si sarebbero schermiti con la elegante terzina che si legge nella satira dell’Ariosto sul servire in Corte:

Mal può durare un usignolo in gabbia,
Più vi sta il cardellino e più il fanello,
La rondine in un dì vi muor di rabbia.

Per loro la vita randagia e le scorrerie; ora con le tasche piene di dobloni, ed ora senza nè manco un quattrino da far dire la diesilla al cieco; destinati a morire con le scarpe in piedi o per arme o per sauna di belve. E qui bisogna notare che il cervello loro gli aveva indicato una terza uscita, ed era il capestro, ma questo avevano per buoni riguardi sottinteso, che anch’essi avevano frequentato la scuola di grammatica, e di sintassi figurata se ne intendevano.

Il vecchio Maurizio esultava; i nuovi affetti gli avevano rinfrescato l’anima e il sangue, ond’ei sovente accarezzando la gioconda Eufrosina diceva:

— Ecco la mia Medea, che ha ringiovanito il suocero e non sembra che truciderà mai i figli!11 A proposito di questi figli, ma di dove hanno a venire? Eufrosina, ricorda che ho il vetturino all’uscio...

— Quanta furia! rispondeva la gioiosa; quando vorranno venire verranno. [p. 387 modifica]

Non così Cario e Filippo, nei quali, dopo ch’ebbero dato sesto alle opere e agli operai, e le cose presero un regolare andamento, scese una nube che allargandosi minacciò coprire intera l’anima loro; e la patria lontana per tormentarli meglio assumeva le forme più caramente dilette, appunto com’è fama le Furie ad agitare lo spirito dei mortali con maggiore spasimo tolsero sembianze miti e nome di Eumenidi.12

Però la infermità della nostalgia procedeva sopra questi due uomini con ragione diversa. Filippo, da quel valoroso ch’egli era, si dibatteva per sottrarsi dalle male branche della malinconia; e, dandosi da fare senza requie nella caccia e nella pesca, si esercitava; ma certo di essendosi accorto che il piede gli diventava più tardo e l’occhio men certo, pensò che avrebbe fatto bene a smettere, se pur non voleva, invece di cacciare, essere cacciato; tuttavia prima di cessare le pantere non ardirono più comparire nei dintorni della fattoria, e conghi e serpenti a sonagli ed altri siffatti rettili formidabili erano sterminati; il povero uomo, per fuggire la mattana, si sarebbe attaccato alle funi del cielo; fumava sempre, sicchè la sua faccia pareva la cima del Sinai quando il Dio d’Isdraele consegnò fra mezzo la caligine in proprie mani a Mosè i [p. 388 modifica] comandamenti della legge, incisi, come si dice, sopra tavole di marmo di Carrara. A levarlo di pena lo sovvenne la lettura del libro terzo della Eneide, dove trovò che Eleno ed Andromaca, profughi dalla patria sovversa, rifuggiti in Caonia, l’acerbità dello esilio ingannavano rinnovando in terra straniera Ilio, Simoenta e Pergamo; onde Enea ed i compagni, che a posta loro sbattuti dai fati, colà furono accolti ospiti graditi, poterono raccontare più tardi alla regina Didone:

Molto con me, mentre anrlavamo. anch'egli
Ragionando e piangendo, entrammo alfine
Nella piccola Troia, e con diletto
Un arido ruscello, un cerchio angusto
Sentii con finti e rinnovati nomi
Chiamar Pergamo e Xanto, e de la Scea
Porta entrando, abbracciar l'amata soglia.
Così fecero i miei, meco godendo
L'amica terra come propria, e vera
Patria...

A questo modo Filippo dava nome di Po ad un fiume che metteva foce nel Colorado, e battezzò Santo Ambrogio un fabbricato immenso, dove raccoglieva le vacche particolarmente addette alla fattoria, imperciocchè sopra la colonia pascessero oltre quindicimila capi di bestiame. Filippo, nel mostrare con molta compiacenza la stalla popolosa, soleva dire:

— Non ci ha dubbio; in paradiso è bene averci per protettori i santi Ambrogio, Carlo, Protato e [p. 389 modifica] Damiano, ma in terra, bisogna convenirne, approdano meglio le vacche. A certo ricinto vastissimo, dove la notte riduceva i bovi, impartì il titolo di Foro Bonaparte, e ad altre fabbriche l’Arco del Sempione, la Scala e via discorrendo. La contrada intera con rito solenne appellò Italia.

— Italia; e vedano, signori miei, aggiungeva con ghigno mordace, questa traslazione non mi costa proprio nulla, dacchè le signorie vostre sapranno, e se nol sanno lo imparino, la patria nostra ab antiquo andò distinta con diversi nomi, i quali furono Gianicula, Enotria, Camesena, Saturnia, Esperia, Ausonia, e per ultimo Italia; di tutti questi le rimase Italia, perchè gl’italiani chiamarono i bovi itali, e per converso i bovi barattarono il nome con gli italiani. 13 Per le quali ragioni e cagioni, a noi altri meritamente dura, ed ogni giorno meglio si conferma, il nome d’italiani; ne fa caso che gl’italiani parlino ed i bovi no, dacchè a squattrinarla da vicino, tra il favellare dei primi e il muggire dei secondi non ci corre un tiro di cannone: e poi, o chi ha detto che i bovi non parlano? Parlano benissimo, e ce lo afferma Tito Livio, ch’è quel solenne storico padovano che tutti sanno: tra [p. 390 modifica] i prodigi che apparvero nella seconda guerra punica: «un bove, egli scrive, in Sicilia parlò».14 Insomma Filippo a questo modo fantasticando si sbizzarriva. Per lo contrario Curio si compiaceva inciprignire la piaga onde portava ferito il cuore; gli veniva in fastidio ogni cosa; le più volte odiose gli tornavano le umane sembianze; le fuggiva sempre; stava ore ed ore seduto sur un tronco o un sasso con gli occhi tesi e fissi nelle immagini che gli raffigurava il suo cervello ammalato; e nella ansiosa contemplazione si andava struggendo come i mangiatori di oppio per colpa della maligna sostanza che cibano. Gli passavano balenando davanti agli occhi i campi di battaglia, i gesti arditi, le incredibili imprese; le cime nevose dei colli, gli orribili dirupi, precipitare torrenti, nemici fuggire, tornare alle offese, stramazzare feriti, boccheggiar moribondi, morti rotolare per greppi o andare travolti fra le acque grosse dei fìumi; distinti i luoghi e i volti, talchè li avrebbe potuti ritrarre a puntino con la matita ovvero col pennello; la memoria tormentatrice gli riportava con disperante precisione ogni scheggia, ogni sterpo, ogni arboscello. E niente gli fuggiva delle notti vegliate e dei baldanzosi colloqui; infine dinanzi agli occhi, per troppa tensione compunti, mirava traversare un’aquila che invece di [p. 391 modifica] penne scoteva raggi di luce, e dovunque passava incuteva spavento; l’aquila di un tratto diventava uomo, presentando le forme del generale Garibaldi; all’improvviso la visione mutava sembianza, e gli si presentavano dinanzi agli occhi effigiate a mo’ della statua della Architettura scolpita davanti il sepolcro di Michelangelo da Valerio Cioli, con la mano sotto il mento, le larve dei suoi fratelli attendere meste la parola di consolazione, che il parente non può negare mai al parente, perchè il sangue nelle famiglie sia sempre sacro, e quando la universalità dei cittadini abbia il triste diritto di maledire un uomo, non lo ha mai il fratello. Da un altro sepolcro scoperchiato dalla cintola in su gli appariva la buona e cara immagine materna, la quale, protendendo ambo le braccia, sembrava che cercasse il capo di qualche nipote per benedirlo.

Fantasia di poeta non saprebbe immaginare nè manco i molti e vari trovati co’ quali Eufrosina s’ingegnava divertire cotesta tetra malinconia, che moveva tanta guerra all’uomo del suo cuore; motti, scherzi, detti arguti, colpi lieti, capestrerie leggiadre, tutto essa poneva in opera, e spesso, Curio invano nolente, traeva a correre per la foresta provocandolo come la Galatea di Virgilio...15

. . . . . . . . . . . . . di un pomo
Il coglie, e fugge, e ai salici si asconde,
Ma prima di celarsi ama esser vista,

[p. 392 modifica]

senonchè Eufrosina, invece di un pomo, gli tirava un fiore, e poi si rimpiattava nel boschetto delle magnolie. La povera tosa ormai si trovava al verde delle sue invenzioni, quando la Provvidenza, sentendo misericordia per lei, non l’avesse sovvenuta col massimo dei benefizi che può compartire ad una donna. Suffusa di rossore si chinò verso l’orecchio di Curio, ci susurrò una parola, mercè la quale il giovane schizzò su come il diavolo di saltaleone scatta fuori dalle scatole di finto tabacco, battendo palma a palma, e il segreto che gli aveva confidato la pudica, egli, inverecondo, bandì con voce magna alla intera brigata, come se volesse metterlo allo incanto. Filippo abbracciò Maurizio, Maurizio Curio, e poi abbracciaronsi tutti e quattro in lungo ed insaziabile amplesso.

Durante i mesi della gravidanza un solo pensiero come una sola cura dominarono la mente di Curio; vegliare l’amata donna, blandirla con soavi carezze, condurla a diporto all’aria aperta, riportarla su le proprie braccia a casa, adagiarla sul letto, temperare l’arsura dell’ambiente, spiarne l’alito, le parole, i sospiri. E quando alfine gli posero un pargolo su le ginocchia dicendogli: ecco, ti è nato un figlio! e’ fu miracolo espresso s’ei non dette nei gerundi: piuttosto che esultanza, il- delirio si cacciò addosso a lui ed a tutta la casa: fecero cose sgangherate: tanti colpi spararonsi, tanti fuochi si accesero, che [p. 393 modifica] per mesi interi non un uccello si attentò accostarsi a quella zona di cielo.

Ma poichè tutto viene a fine, così il palpito come il cuore che palpita, si attutì anche cotesto ardente affetto, e la larva irrevocabile della patria si riaffacciò all’anima di Curio più straziante che mai; di nuovo lo travagliano le consuete allucinazioni, della quale cosa se senta fastidio insopportabile la donna innamorata, Dio solo lo sa: però il rimedio per un tempo ella ebbe pronto, ed oltre ogni estimativa efficace: questo consisteva nel cavare dalla culla lo infante e farsi pian piano a depositarlo sopra le braccia del padre. Allora uno sgorgo di luce inondava l’anima di Curio, nè per quel giorno, nè per l’altro appresso le nebbie della malinconia potevano addensarsi più sopra di lei.

Però non passava gran tratto l’umor nero a ripigliare il sopravvento, onde Eufrosina ne rimase smarrita: venutole meno ogni consiglio, la misera si disfà in pianto; pure un giorno, pensosa più del suo pargolo che di se stessa, si presenta risoluta al marito, al quale, con tremula voce, così favella:

— Curio, parte migliore dell’anima mia, dammi retta: se si trattasse di me, vedi, io avrei saputo soffrire e morire in silenzio, sorte ordinaria della donna amante, ma ce ne va di mezzo la vita del tuo figliuolo e mio. La tua misantropia si attacca a me, [p. 394 modifica] l’anima mia si contrista entro un mare di amarezza, la salute mi si altera, e da momento in momento mi abbandonano le forze... in breve mi mancherà il latte... non potrò allevare più la mia, la tua creatura... E non potè più dire, che il singulto le strinse la gola; copertosi il volto, pianse.

Curio, in balìa di profondissima agitazione, preso a scorrere con moti incomposti per la stanza, inciampando ora in questo ora in quell’altro mobile, che la passione gli toglieva la vista degli oggetti circostanti; per ultimo, quietatosi alquanto, si accosta ad Eufrosina, e gettatole le braccia al collo le dice:

— Sorella, consolati, io procurerò guarirmi, anzi mi guarirò di certo; però io sento non poterlo fare se non a un patto.

— Dillo, amor mio.

— Mi perito, Eufrosina, perchè temo affliggerti.

— Che importa! Pensa che verun dolore uguaglia quello di vederti ogni giorno consumare dall’umor nero.

— Ebbene, Curio prosegue attenuando la voce, sicchè appena si sentiva: tu mi hai a promettere che quando io sarò morto... ma vedi! già ti scolori in volto...

— Continua, per carità... continua.

— Signore! bisogna pur farci una ragione... io nacqui prima di te, e la natura vuole che prima di [p. 395 modifica] te muoia... dunque mi hai da promettere che quando sarò morto tu mi riporterai in Italia,

. . . . . . . . . . nella mia,
Nella diletta tua terra natia,16

e lì mi darai sepoltura a canto la madre; così pensando... che se vivo ebbi a starmi lontano dalla terra natia, morto potrò riposarci in pace, l’anima mia si consolerà.

Allora Eufrosina, ponendo a sua posta la destra sopra la spalla di lui, tutta accesa nel volto, gli tenne il seguente discorso:

— Curio, ascoltami: io mi confesso femmina di poca levatura, quel poco che so l’ho imparato da voi; pure, meditando sopra le sentenze vostre e dei grandi patriotti italiani che ebbi in sorte udire, credo poter pronunziare un giudizio poco lontano dal vero intorno la qualità dei nostri tempi. La Italia nostra, tra bene e male, nè intera ha potuto unirsi, in onta agli sforzi di tenerla disunita di quei dessi che ora si vantano fattori della sua unità: unirono l’Italia la necessità delle cose e la virtù del popolo affidata nelle mani di Garibaldi; adesso ella è cascata in potestà di paltonieri come il retaggio improvviso dello zio morto in America; costoro, quanto più patirono miseria per lo addietro, tanto maggiormente si sono voluti rifare a tirar [p. 396 modifica] via negli scialacqui; dai vizi anticlii accoppiati alle viltà nuove pullularono banchieri, borsaioli, giocatori, ruffiani, baratti e simili lordure; ciurmaglia d’insetti non più visti prima, roditori come tarli, sozzi come cimici; ribollirono le fogne spingendo a galla ogni maniera di lordezza; gli scrivani diventarono scrittori; allagò dovunque la mediocrità invida e trista; perchè lo scritto riuscisse di un bel nero morato, tuffarono la penna nella propria coscienza; le sacre lettere mescolarono con l’acquavite e la viltà, e poi le propinarono alla cittadinanza, che ne rimase avvelenata; gli ebrei considerando allora che il mestiere fruttava, chiusero tante botteghe di rigattiere e ne apersero altrettante di giornali, ma così nelle une come nelle altre essi, con anima e mani sudicie, continuano a vendere cenci sudici. Tasse a diluvio; fortuna pubblica nabissata, la privata distrutta; esercito infermo; senza combattere dentro ci divora, combattendo fuori non è creduto capace a difenderci; all’opposto presumono educarlo can mastino della monarchia per addentare repubblicani. Con gl’impieghi crearono un nugolo di consumatori a fine di legarli col vincolo dell’interesse alla monarchia; la monarchia è un interesse; chi la rode la difende, finchè ci è da rodere; dei produttori ogni dì se ne strema il numero per molte cause, massime delle emigrazioni di cui esultano col giudizio del matto, che vedendo [p. 397 modifica] bruciarsi la casa batte le mani. I preti crescono come l’ombra cresce quando tramonta il sole, tra poco sarà l’un’ora di notte. I nostri uomini di Stato sapevano che preti e ortiche si propagano stupendamente spontanee, tuttavolta li hanno fecondati col guano; speravano disfare i preti come un cavo vecchio e filare la loro autorità dentro la corda nuova, mettere in combutta sacramenti e manette; mitra di vescovo e lucerna di giandarme; stolti! il prete pesca per sè, tutto per sẻ, sempre per sẻ: l’arme del prete è la rete. La materia viene dalla terra ed alla terra ritorna, lo spirito si parte da Dio e a Dio si ricongiunge; chi più nobile dei due, lo spirito o la materia? Certo lo spirito; dunque il prete non intende fare a mezzo col potere laico, molto meno stargli sottoposto; egli rappresenta Dio; prostratevi pertanto ed obbedite. Sul campo di battaglia i destini degli eserciti pendono nella mano della fortuna, nel confessionale il destino del prete sta sicuro nella mano del prete. La favola di Prometeo, in grazia del bel giudizio dei ministri italiani, si è convertita in realtà; ecco lo Stato, con le mani e co’ piedi legati, messo sotto al becco dello avvoltoio prete perchè lo divori. Del popolo un dìi levati a cielo il cuore e lo intelletto; egli sorgente di tutto diritto, egli solo capace di provvedere alla felicità del paese, dandosi per via di plebiscito un padrone; il popolo, buttato via un basto, si chinò giù carponi [p. 398 modifica] a sottoporsi ad un altro, come se non avesse provato mai di che cosa sappiano i basti; difatti, eletto appena il padrone, la scena muta; stupido, è bandito, e a tutto incapace, eccettochè a portare rena e calcina alla fabbrica della monarchia costituzionale. Se taluno più astuto non avesse avvertito: badate! potreste avere bisogno del suo sangue, lo avrebbero scaraventato in mare col sasso al collo come un cane tignoso; invero, quando ebbero bisogno di sangue, ecco, fecero scodella delle mani per raccogliervelo dentro, e il popolo strappato dai solchi e dalle officine ce lo versò a bocca di barile. E quale n’ebbe mercede il popolo? Una manata di briciole, che andatagli negli occhi lo acciecò, ma se gli fosse caduta in bocca non lo avrebbe sfamato; però il popolo si è fatto del cuore un salvadanaio di odio dove ogni giorno depone un soldo, e dello intelletto una spelonca dove accumula errori e istinti selvaggi. I vermi, che nella corruzione universale si fanno grassi come canonici in concistoro, levando la voce garriscono:

— O che irrequietudine è questa? non avete voluto la patria unita? O non l’abbiamo fatta tutti un po’, e Dio sa con quanta pena? — Dunque, perchè non posate una volta? Noi, vedete, siamo contenti; certo poteva toccarci di più, ma bisogna adoperare discrezione, e ci confessiamo soddisfatti; o perchè non lo siete anche voi? — Noi non lo siamo, [p. 399 modifica] perchè voi divoratori, noi i divorati; noi le api produttrici del miele e voi i fuchi che ce lo rubate; voi, come le lampade dei bastimenti, vi mantenete sempre in bilico sia che soffi vento di servitù straniera o vento di servitù domestica; voi condite di abiezione il vostro cibo e lo tenete più accetto al vostro palato; voi serbate la indegnissima anima vostra con la gira in bianco per indossarla a principi, a repubbliche, a tutti, a patto però che vi facciano abilità d’imbestiarvi nei godimenti materiali della vita. Ora ci vuol poco a capire che così non può tirare innanzi, e quando qualche urto straniero non ci desse la stretta, l’ordine sociale tracollerà per disfacimento interno, di tutti i mali il peggiore, perchè con la mota non si fabbrica, e se la stringi ti sfugge dalle mani dopo avertele insozzate. Quelli che se ne intendono affermano i popoli corrotti potersi solo rigenerare o per invasione straniera o per guerra civile: per guerra straniera io non credo, perchè di due cose l’una: o la vinceremo o la perderemo; quindi od oppressori od oppressi; o esercitare tirannia o patire servitù; e l’una alternativa e l’altra cagione presentissima di pervertimento: per guerra civile qualche volta il popolo corrotto si è rigenerato, ma la prova è zarosa e piena di pericoli; i nemici del popolo in subbuglio, cogliendo la occasione del disordine che tiene dietro ai rivolgimenti pubblici, potrebbero percuoterlo alla [p. 400 modifica] sprovvista, ma in ciò mi conforta quello che sovente udii dalla bocca del padre nostro Maurizio e del generale Garibaldi, ed ho anche letto che un popolo in rivoluzione si trova più presso a conquistare che ad essere conquistato; un altro pericolo egli è che dalle discordie nasca un soldato, il quale di punto in bianco ti salti addosso tiranno, e si deve reputare guaio grande e tuttavia minore della libertà ipocrita e meretricia, imperocchè dal primo qualche virtù annacquata sorge, mentre la seconda spegne ogni nobile aspirazione: pure gli è forza masticare quello che il destino, o piuttosto le nostre mani ci hanno ammannito. I seduti a mensa, alla minaccia della guerra civile si cacciano le mani dentro i capelli ed urlano: — Sacrilegio! parricidio L, — Silenzio, ribaldi; a voi, e più che a tutti a voi altri si affibbiano con le debite varianti i versi tremendi:

Vile, un manto d’infamia hai tessuto,
L’hai voluto — sul collo ti sta;
Nè per gemere — o vil, che farai,
Nessun mai — dal tuo collo il torrà.

La trista genia non si spaventa delle guerre straniere, e sì che in queste un popolo intero è avventato col ferro in mano a tagliarsi la gola con un altro popolo che non conosce, non gli ha nociuto in nulla, non odia, senza sapere il perchè, e ne diserta i campi, le case arde, oltraggia le donne, lacera vecchi e fanciulli; lo ubriacano di acquavite e di [p. 401 modifica] parole più perfide assai dell’acquavite, come: gloria, onore delle armi e decoro della bandiera, le quali insomma adombrano vanità e cupidigia di un feroce spesse volte codardo. Nerone, senza lo aiuto di Epafrodito scrivano, non sarebbe giunto ad uccidersi; a Napoleone I non riuscì avvelenarsi. Nelle guerre civili tu sai quali offese vendichi, perchè combatti, che vuoi; l’odio ti arma la mano, chi ti tormentò tormenti; applichi la pena del taglione; dente per dente, occhio per occhio; le truci passioni che t’infuriano in petto, se non giustificano il male che fai, lo spiegano. Come possiamo augurarci di ristorare la fortuna pubblica d’Italia senza fallimento? Il giorno che terrà dietro alla bancarotta sarà preceduto dall’aurora della risurrezione del credito nazionale. Cittadinanza marcia e amianto sudicio si lavano col medesimo bucato: bisogna buttarli sul fuoco. Come rinetterete le strade delle città dalla marmaglia dei rettili, se non per via di un diluvio universale? Non per questo ci dobbiamo perdere di animo, perchè ogni diluvio termina coll’arco baleno, annunzio di giorni più sereni. I popoli non muoiono; dopo gl’incendi le città si rifabbricano più belle; testimonio Roma dopo Nerone, e Mosca ai giorni nostri dopo Ropstokin. E tu, Curio, che ti triboli perchè la fortuna ti abbia sbalestrato fuori della tua patria, esulta; tu non avrai desiderato, nè promosso, nè preso parte ai giorni di lutto [p. 402 modifica] della tua terra nativa; e poichè la tua mano si sarà preservata pura della strage del passato, così potrà farsi iniziatrice del futuro. Troppe e troppo spesse le sventure si rovesciarono sopra di te, e ti hanno sgomento; il tuo cuore contristato respinse la guida dell’intelletto, ed hai corso pericolo di sommergerti nella disperazione. Pertanto io credo fermamente e con sicurezza ti annunzio che tu, io ed i tuoi figli rivedremo la patria nostra purificata e ci potremo con dignità e contentezza esercitare i doveri prima, poi i diritti di cittadini liberi davvero, di capi di famiglia e di amici della umanità. Che se (e non lo voglia Dio) la morte rendesse tronchi questi santi presagi... allora... allora... sta’ sicuro, la tua volontà sarà legge alla tua consorte.

Il singhiozzo le tolse la parola, ed ella conchiuse il suo ragionare stringendosi al seno con quanto aveva di forza nelle braccia il diletto marito.

Curio, non meno commosso di lei, la baciò in fronte dicendo:

— Eufrosina, parlami sempre così; alle donne i cieli furono cortesi del dono della profezia; mantienmi sempre accesa la speranza, ed io ti dovrò troppo più della vita del corpo, la salute dell’anima.

Il vecchio rassomiglia al pellegrino, il quale andando su per lo estremo lembo della terra mira [p. 403 modifica] sul dorso delle onde agitate giungere a riva le reliquie del naufragio; però che il vecchio, pure su l’ultima spiaggia della vita, contempli travolti dagli anni arrivargli ai piedi i frantumi dei suoi affetti, ed altresì dei suoi concetti. Così quell’io, che un giorno scrissi parole di obbrobrio contro la Speranza, adesso mi chiamo in colpa e m’inchino alla sua divinità! La benefica Iddia non mi aborrì per le mie esecrazioni, all’opposto moltiplicò verso me le sue blandizie, come madre amorosa costuma al figlio infermo. E fama che, quando Dio padre richiamò in cielo la Felicità, la Speranza sua sorella minore le tenesse dietro, ma arrivata che quella fu a mezzo dello emisfero si voltasse, e in atto dolce di pietà e di amore così le dicesse:

«Torna fra gli uomini, sorella. Dio ha chiamato me sola, e con profondo consiglio, imperciocchè senza me e senza te cotesti miseri in breve si struggerebbero di angoscia».

La Speranza ritorse l’ale, ed indi in poi non ha abbandonato più le dimore degli uomini. Quivi ella si pone allato della culla dove il pargolo si lamenta se gli manchi il latte; ovvero siede al capezzale dei moribondi, o su i campi di battaglia bagna le labbra riarse del volontario agonizzante, o ne raccoglie l’ultimo sospiro per portarlo alla madre, alla sposa, alla sorella; con un raggio di sole meridiano penetra nella carcere più profonda [p. 404 modifica] e conforta il prigioniero che langue. Che più? Ella è salita sul patibolo col condannato e lo salvò dal terrore della morte... alzandogli il capo in su e facendogli leggere in cielo: perdono.

Tutto o prima o poi abbandona l’uomo, la gioventù, la bellezza, la salute e le sostanze; egli ha veduto allontanarsi da lui gli amici e i beneficati; più di rado parenti e figliuoli, e talora anche la madre; se la moglie gli rimase al fianco, e’ fu come quella di Giobbe, per tormentarlo nella miseria. Ogni giorno la luce del sole si nasconde agli occhi nostri, ogni notte declinano le stelle, ma la Speranza non si allontana mai; neppure la morte è potente a scacciarla, imperciocchè ella si metta dietro la nostra bara, ci accompagni alla fossa, assista alla nostra sepoltura e non consenta a lasciarci neppure quando è chiuso il coperchio del nostro monumento. La pietosa allora si pone a sedere sopra il marmo funebre, e fissa in Lui che volentier perdona, scioglie il più sublime dei cantici, quello della Resurrezione.

Salute dunque a te, o divina Speranza!

FINE.


Note

    quasi miracoloso abilitarsi dell’occhio alle sue funzioni, l’individuo non saprebbe probabilmente distinguere gli oggetti, nè i colori, nè la posizione degli oggetti relativamente a sè ed agli altri corpi nello spazio. È celebre uno studio fatto (e si trova in tutti i libri di fisiologia) sopra un tale che Ciselden operò e guarì dalla cecità congenita quando era già adulto; ed io pure ho esempio nel quale la inesperienza dell’organo andava tanto oltre, che alle prime credei la operazione non riuscita; ci volle circa un anno perchè l’occhio si abilitasse normalmente».
    Tutto questo è discorso egregiamente dal dotto professore, ma non fa al caso nostro, imperciocchè Eufrosina non fosse nata cieca, bensì divenuta tale per veementissima commozione dell’animo. Intorno al caso speciale ecco come ragiona il prelodato professore:
    «L’individuo che possiede il pieno godimento della sua visione può per un violento moto dell’animo rimanerne privo di un tratto, e proprio per ispeciali modificazioni della maniera di essere del nervo ottico. Ora, quando trattisi di una di queste speciali modificazioni, un altro moto violento dell’animo può dalla cecità ncondurlo alla visione. Anzi io penso che fra donne isteriche questo fatto sia facilissimo e frequentissimo, ed io stesso l’ho osservato non ha guari qui in Pisa, ecc.
    «Pisa, 6 aprile 1871

  1. Eragli cessata ogni speranza di vivere, da poi che, domandando del luogo in cui era, senti che denominavasi Frigia, però che quivi appunto gli era stato predetto ch’egli dovrebbe morire Ammiano Marcellino, Stor., l. 25, § 4.
  2. Oggimai non occorre storia la quale ometta riportare questo fatto, comecchè notoriamente falso. Ammiano Marcellino, che si trovò presente alla battaglia di Frigia, alla morte di Giuliano, ne tace; lo misero fuori Sozomeno, Teodoreto ed altri scrittori cristiani, dacchè la religione nostra, ormai scaduta dalla purità primiera, sentiva il bisogno, per sostenersi, della menzogna: gli è giusto ricordare che il gesuita Petavio, nella opera: De ratione temporum, T. 1, p. 149, lo dichiara espresso: fabula plebeia.
  3. Ci erano due maniere porpora: una violacea, colore che piglia di sovente il mare in Oriente. Omero qualifica il mare purpureo. In mare purpureum violentior influit amnis. Virgilio, 4 Georg. Purpureis agitatam fluctibus Hellen. Properzio, l. 2. Eleg. 20. E così pure Cicerone più volte in Acad.
  4. Anastasius, in Vita Zachariae.
  5. Catollo — tozzo di pane; manca al vocabolario della lingua; l’adopra A. Caro, Volgarizzamento degli Amori di Dafne e Cloe
  6. Questo fatto è raccontato da tutti gli storici inglesi. Il Lingard afferma ciò accadesse sopra la spiaggia di Southampton; e attestano altresì che Canuto adoperasse in cotesto modo per pungere la piaggeria dei cortigiani, che assicuravano a lui ogni cosa possibile.
  7. Quidni? Nonne solis astroriomque specula ubique conspiciam? Nonne dulcissimas veritates potero speculare ubique sub coelo? Epistola X, Amico Fiorentino.
  8. ">Non ci mancava altro che questa! Tra gli altri privilegi, ecco che i romanzieri si usurpano la facoltà di spengere e di accendere gli occhi, come i lampionai costumano i becchi del gas, Non è così; rinnuovo lo avvertimento, che i casi esposti in questo libro sono tutti cavati dal vero, comecchè poi svolti con l’arte. Ora il fatto della perdita e del riacquisto della vista nella maniera narrata è conforme alla verità. Dubitando delle mie notizie in medicina, poche ed incomplete, feci consultare in proposito un professore che con lode universale si è consacrato allo studio speciale delle infermità degli occhi, che cortesemente rispose al quesito nel modo seguente:
    «Un individuo nato cieco potrebbe acquistare la facoltà di vedere, e ciò istantaneamente, qualora la cecità fosse dovuta ad una cateratta, e questa o per convulsione, o per caduta, o per colpo e simili si lussasse e si spostasse. Potrebbe altresì darsi il caso che il nervo ottico, preso da un gran torpore alle sue origini cerebrali, acquistasse salute quando una violenta azione morale modificasse codesto centro nervoso.
    «Devo avvertire però che di tutto questo non conosco esempi, anzi la seconda ipotesi è così lontana dal probabile che, se mi se ne offrisse uno esempio, vorrei procedere molto severo nel ricercare le prove di una vera e propria cecità antecedente al fatto asserito.
    «E qui parmi d’aggiungere che dove mai accadesse questo
  9. Scottato dall’acqua calda, mi fa paura la fredda. Traduzione libera.
  10. Barnum, il grande ciarlatano americano.
  11. Ovidio, Metamorph., l. 6
  12. Eschilo, Eumenidi, trag.
  13. Festo Varrone, De Re Rus., l. 2, c. 5. Columella, De Re Rus., l. 5, nec dubium quin ut ait Varro ceeteras pecudes bos honore superare debeat, praesertim in Italia quæ ab hoc nuncupationem traxit.
  14. Bovem in Sicilia locutum. Hist., l. 24.
  15. Buccol., Eglog. III.
  16. Grossi, Il coro lombardo.