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capitolo xxiv. 393


per mesi interi non un uccello si attentò accostarsi a quella zona di cielo.

Ma poichè tutto viene a fine, così il palpito come il cuore che palpita, si attutì anche cotesto ardente affetto, e la larva irrevocabile della patria si riaffacciò all’anima di Curio più straziante che mai; di nuovo lo travagliano le consuete allucinazioni, della quale cosa se senta fastidio insopportabile la donna innamorata, Dio solo lo sa: però il rimedio per un tempo ella ebbe pronto, ed oltre ogni estimativa efficace: questo consisteva nel cavare dalla culla lo infante e farsi pian piano a depositarlo sopra le braccia del padre. Allora uno sgorgo di luce inondava l’anima di Curio, nè per quel giorno, nè per l’altro appresso le nebbie della malinconia potevano addensarsi più sopra di lei.

Però non passava gran tratto l’umor nero a ripigliare il sopravvento, onde Eufrosina ne rimase smarrita: venutole meno ogni consiglio, la misera si disfà in pianto; pure un giorno, pensosa più del suo pargolo che di se stessa, si presenta risoluta al marito, al quale, con tremula voce, così favella:

— Curio, parte migliore dell’anima mia, dammi retta: se si trattasse di me, vedi, io avrei saputo soffrire e morire in silenzio, sorte ordinaria della donna amante, ma ce ne va di mezzo la vita del tuo figliuolo e mio. La tua misantropia si attacca a me,