Vita di Michelagnolo Buonarroti B/Vita di Michelagnolo Buonarroti - Versione critica
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Vita di Michelagnolo Buonarroti
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VITA DI MICHELAGNOLO
BVONARROTI.
ICHELAGNOL Buonarroti Pittore e Scultore singulare, ebbe l’origin sua da<’> Conti da Canossa, nobile e illustre famiglia del tenitorio di Reggio, si per virtù propria, e antichità, si per aver fatto parentado col sangue Imperiale. Percioche Beatrice sorella d’Enrico II fu data per moglie al Conte Bonifacio da Canossa, alhora Signor di Mantova, donde ne nacque la Contessa Mathilda, donna di rara e singular prudenza e religione. Laquale doppo la morte del marito Gotthifredo, tenne in Italia oltre a Mantova, Lucca, Parma e Reggio, e quella parte di Toscana, che oggi si chiama il Patrimonio di san Piero. E avendo in vita fatte molte cose degne di memoria, morendo fu sepolta nella Badia di san Benedetto fuor di Mantova, la qual ella aveva fabricata e largamente dotata. Di tal famiglia adunque nel MCCL venendo a Firenze per potestà un Messer Simone, meritò per sua virtù d’essere fatto Cittadino di quella terra, e capo di Sestiere, che in tante parti alhora era la Città divisa, essendo oggi in quartieri. E reggendo in Firenze la Parte guelfa, per li molti benifici che da essa parte recevuti aveva, di Ghibbellino ch’era, diventò Guelfo, mutando il colore del arme: che dove prima era un Can biancho rampante coll’osso in bocca, in campo rosso, fece il Can d’oro in campo azzurro, e dalla Signoria li fur donati di poi cinque Gigli rossi in un rast<r>ello, e similmente il Cimiere, con due Corna di Toro, l’un d’oro<,> l’altro d’azzurro, come fin’oggi si può veder dipinto ne<’> targoni loro antichi. L’arme vecchia di Messer Simone, si vede nel Palagio del Potestà, da lui fatta di marmo, come sogliano far la maggior parte di quelli, che in tal ufficio si ritrovano. La cagione perche la famiglia in Firenze mutasse il nome, e di quegli da Canossa, fusse poi chiamata de<’> Buonarroti, fu questa, che essendo questo nome di Buonarroto stato in casa loro, d’età in età quasi sempre, fin al tempo di Michelagnolo, il qual ebbe un fratello pur chiamato Buonarroto, e essendo molti di questi Buonarroti stati de<’> Signori, cioè del suppremo Magistrato di quella Republica, e il detto suo fratello specialmente, che si trovò di quel numero, nel tempo che fu Papa Lione a Fiorenza, come ne gli annali d’essa Città si può vedere, questo nome continuato in molti di loro, passò in cognome di tutta la famiglia, e tanto piu facilmente quanto il costume di Fiorenza ne gli squitini e nel’altre nominationi, è dopo il nome proprio de<’> cittadini, aggiunger quello del Padre, del Avolo, del Bisavolo, e tal volta di quelli piu oltre. Si che da i molti Buonarroti cosi continuati e da quel Simone, che fu il primo in quella città di questa famiglia, di casa di Canossa che erano, si dissero poi de<’> Buonarroti Simoni, e cosi oggi si chiamano. Ultimamente andando Papa Lione decimo a Firenze, oltre a molti privilegi che donò a questa casa, aggiunse anco alla lor arme la Palla azzurra dell’arme della casa de Medici, con tre Gigli d’oro. Di tal casata adunque nacque Michelagnolo, il cui padre si chiamò Lodovico di Lionardo Buonarroti Simoni, uomo religioso e buono, e piu tosto d’antichi costumi che no. Il qual essendo Potestà di Chiusi e di Caprese nel Casentino, ebbe questo figliuolo, l’anno della salute nostra 1474 il dì sesto di Marzo, quattro ore inanzi giorno, in lunedì. Gran natività certamente, e che gia dimostrava, quanto dovessi essere il fanciullo, e di quanto ingegno, percioche avendo Mercurio con Venere in seconda, nella Casa di Giove ricevuto con benigno aspetto, prometteva quel che è poi seguito, che tal parto dovessi essere, di nobile e alto ingegno, da riuscire universalmente in qualunque impresa, ma principalmente in quelle arti, che dilettano il senso, come Pittura, Scultura, Architettura. Finito il tempo del ufficio, il padre se ne tornò a Firenze, e lo dette a balia in una villa detta Settignano, vicina alla Città tre miglia, dove anchor’hanno una possessione, che fu delle prime cose, che in quel paese Messer Simone da Canossa comprasse. La balia fu figliuola d’uno Scarpellino, e similmente in uno Scarpellino maritata. Per questo Michelagnolo, suol dire non esser maraviglia, che cotanto dello scarpello dilettato si sia, mottegiando per aventura, o forse ancho dicendo da dovero, per saper che il latte della nutrice in noi ha tanta forza, che spesse volte transmutando la temperatura del corpo, d’una inclinatione, ne introduca un’altra, dalla natural molto diversa. Crescendo adunque il fanciullo, e venendo in età, il padre conoscendolo d’ingegno, desideroso ch’egli attendesse alle lettere, lo mandò alla squola d’un maestro Francesco da Urbino, che in quel tempo insegnava Gramatica in Firenze, ma egli, come che qualche frutto in quelle facesse, pur i Cieli e la natura, a cui contrastare difficilmente si può, lo ritiravano alla pittura, di maniera che non si poteva tenere, che potendo rubar qualche tempo, non corresse a disignare, or qua, or là, e non cercasse pratica di pittori; tra li quali molto familiare gli fu un Francesco Granacci, discepolo di Domenico del Ghirllandaio, il qual vedendo la inclinatione, e accesa voluntà dil fanciullo, si deliberò d’aiutarlo, e di continuo lo essortava alla Impresa, or accomodandolo di disegni, or seco menandolo alla bottega del maestro, o dove fusse qualche opera donde ne potesse trar frutto. La cui opera tanto puote, che aggiunta alla natura, che sempre lo stimulava, in tutto abandonò le lettere. Onde dal padre e da frategli del padre, i quali tal’arte in odio avevano, ne fu mal’ voluto, e bene spesso stranamente battuto; a<’> quali come imperiti del’eccellenza e nobiltà del arte, parea vergogna ch’ella in casa sua fusse. Il che avenga che dispiacer grandissimo gli porgesse, nondimeno non fu bastante a rivoltarlo in drieto, anzi fatto piu animoso, volse tentare d’adoperare i colori. E essendogli messa inanzi dal Granacci una carta stampata, dove era ritratta la storia di santo Antonio, quand’è battuto da<’> Diavoli, della qual era autore un Martino d’Ollandia, uomo per quel tempo valente, la fece in una tavola di legno e accomodato dal medesimo di colori e di pennegli, talmente la compose e distinse, che non solamente porse maraviglia a chiunche la vedde, ma ancho invidia, come alcuni vogliano, a Domenico, piu pregiato Pittore di quella età, come in altre cose di poi si puote manifestamente conoscere. Il qual per far l’opera meno maravigliosa, solea dire essere uscita dalla sua bottega, come s’egli ce n’avesse parte. In far questo quadretto, per cio che oltre all’effigie del santo, c’erano molte strane forme e mostrosità di demoni, usò Michelagnolo una cotal diligenza, che nessuna parte coloriva, ch’egli prima col naturale non avesse conferita, si che andatosene in pescheria, considerava di che forma e colore fusser l’ali de<’> pesci, di che colore gliocchi, e ognaltra parte, rappresentandole nel suo quadro, si che conducendolo a quella perfettione che seppe, dette <fin d'alhora> ammiratione al mondo, e come ho detto qualche invidia al Ghirllandaio, la quale viè piu si scoperse, che essend’egli da Michelagnolo un giorno ricercato d’un suo libro di ritratti, nel qual eran dipinti pastori con sue pecorelle e cani, paesi, fabriche, rovine e simiglianti cose, non gnene volse prestare. E in vero ebbe nome d’essere invidiosetto, per cio che non solamente verso Michelagnolo apparve poco cortese, ma ancho verso il fratel proprio, il qual egli vedendo andare innanzi e dare grande speranza di se stesso, lo mandò in Francia, non tanto per util di lui, come alcuni dicevano, quanto per restare il primo di quel arte in Firenze. Del che ho voluto far mentione, per che m’è detto chel figliuolo di Domenico, suole l’eccellenza, e divinità di Michelagnolo, atribuire in gran parte alla disciplina del padre, non avend’egli portogli aiuto alcuno, benche Michelagnolo di cio non si lamenta, anzi loda Domenico, e nel arte e ne<’> costumi. Ma questa sia un poco di digressione, torniamo alla nostra storia. Porse non minor maraviglia in quel medesimo tempo, un’altra sua fatica, condita però con una cotal piacevolezza. Essendogli data una testa perche egli la ritraessi, cosi a punto la rappresentò, che rendendo al padrone il ritratto in luogo del essempio, non prima fu da lui lo’nganno conosciuto, che cio conferendo il fanciullo con un suo compagno e ridendosene, gli fusse scoperto. Molti di cio volson far paragone, ne trovaron differenza, percioche oltre alla perfettione del ritratto, Michelagnolo col fumo lo fece parer di quella medesima vecchiezza, ch’era l’esempio. Questo gli arrecò molta reputatione. Ora ritraendo il fanciullo, or questa cosa, or questa altra, non avendo ne fermo luogo ne studio, avvenne che un giorno fu dal Granacci menato al Giardin de Medici a San Marco, il qual giardino il Magnifico Lorenzo padre di Papa Lione, uomo in tutte l’eccellenze singulare, avea di varie statue antiche e de figure ornato. Queste vedendo Michelagnolo, e gustata la bellezza del opere, non piu di poi alla bottega di Domenico, non altrove andava, ma qui tutto il giorno, come in miglior squola di tal facultà si stava, sempre facendo qual che cosa. Tra le altre considerando un giorno la Testa d’un fauno in vista gia vecchio, con lunga barba, e volto ridente, anchor che la bocca per l’antichità appena si vedesse o si cognoscesse quel che si fusse, e piacendogli oltre a modo, si propose di ritrarla in marmo. E facendo il Magnifico Lorenzo in quel luogo alhora lavorare i marmi, o voglian dir conci, per ornar quella nobilissima libreria, ch’egli e i soi maggiori raccolta di tutto il mondo aveano, la qual fabrica per la morte di Lorenzo e altri accidenti trasandata, fu doppo molti anni da Papa Clemente ripresa, ma però lasciata imperfetta, si che per anchora i libri sono in forzieri, lavorandosi dico tai marmi, Michelagnolo se ne fece dare da quei Maestri un pezzo, e accomodato da quei medesimi de<’> ferri, con tanta attentione e studio si pose a ritrarre il fauno, che in pochi giorni lo condusse a perfettione, di sua fantasia suplendo tutto quello, che nel antico mancava, cioè la bocca aperta a guisa d’uom che rida, si che si vedea il cavo d’essa, con tutti i denti. In questo mezzo venendo il Magnifico per vedere a che termine fusse l’opera sua, trovò il fanciullo ch’era in torno a ripulir la sua testa, e accostatosegli alquanto, considerata primieramente l’eccellenza del opera, e avuto riguardo al età di lui, molto si maravigliò: e avenga che lodasse l’opera, non di meno mottegiando con lui, come con un fanciullo disse: oh tu hai fatto questo fauno vecchio, e lasciatigli tutti i denti. Non sai tu che a’ vecchi di tal età sempre ne mancha qualchuno? Parve millanni a Michelagnolo chel Magnifico si partisse, per correggere l’errore, e restato solo, cavò un dente al suo vecchio di quei di sopra, trapanando la gingiva, come se ne fusse uscito colla radice, aspettando l’altro giorno il Magnifico, con gran desiderio. Il qual venuto, e vista la bontà e simplicità del fanciullo, molto se ne rise, ma poi stimata seco la perfettione della cosa, e l’età di lui, come padre di tutte le virtù, si deliberò d’aiutare e favorire tanto ingegno, e pigliarselo in casa, e intendendo da lui di chi fusse figliuolo: fa<,> disse, di dire a tuo Patre, ch’io arei caro di parlargli. Tornato dunque a casa Michelagnolo, e fatta l’ambasciata del Magnifico, il padre che s’indovinava perche fusse chiamato, con gran fatica del Granacci e d’altri, si potette disporre ad andarci, anzi di lui si lamentava, ch’egli sviava il figliuolo, stando pure in su questo, che non patirebbe mai chel figliuolo fusse scarpellino, non giovando al Granacci dichiararli, quanta differenza fusse tra scultore e scarpellino, e sopra cio lungamente disputare. Tuttavia essendo alla presenza del Magnifico venuto, e da lui ricercato che gli volesse concedere il figliuolo per suo, non seppe negarlo, anzi soggiunse: non che Michelagnolo, tutti noi altri colla vita e facultà nostre, siamo al piacer della Magnificenza vostra. E adimandato dal Magnifico a che attendesse, gli rispose: Io non feci mai arte nessuna, ma sempre sono fin qui delle mie deboli entrate vivuto, attendendo a quelle poche possessioni, che da<’> miei maggiori mi sono state lasciate, cercando non solamente di mantenerle, ma accrescerle quanto per me si potesse, colla mia diligenza. Il Magnifico alhora, ben disse: guardate se in Firenze è cosa nessuna che per voi faccia, e servitevi di me, che vi farò quel favore, che per me maggior si potrà. E licentiato il vecchio, fece dare a Michelagnolo una buona camera in Casa, dandogli tutte quelle commodità ch’egli desiderava, ne altrimenti trattandolo, si in altro, si nella sua mensa che da figliuolo, alla quale come d’un tal omo, sedeano ogni giorno personaggi nobilissimi e di grande affare. E essendovi questa usanza, che quei che da principio si trovasser presenti, ciascheduno appresso il Magnifico sicondo il suo grado sedesse, non si movendo di luogo per qualunque di poi sopragiunto fusse, avenne bene spesso, che Michelagnolo sedette sopra i figliuoli di Lorenzo, e altre persone pregiate di che tal casa di continuo fioriva e abondava. Dai quali tutti Michelagnolo molto era accarezzato, e acceso al onorato suo studio, ma sopra tutti dal Magnifico, ilquale spesse volte il giorno lo faceva chiamare, monstrandogli sue gioie, corniole, medaglie e cose simiglianti di molto pregio, come quel che lo conosceva d’ingegno e di iudicio. Era Michelagnolo quando andò in Casa del Magnifico, d’età d’anni quindici in sedici, e vi stette fin alla morte di lui, che fu nel novanta due, intorno a due anni. Nel qual tempo, essendo vacato uno Ufficio della Dogana, qual nessun tener potea che Cittadin non fusse, venne Lodovico padre di Michelagnolo a trovare il Magnifico, e con tal parlare glie lo chiese: Lorenzo io non so far altro che legere e scrivere. Or essendo morto il compagno di Marco Pucci in Dogana, arei caro d’entrare in suo luogo, parendomi di poter a tal officio acconciamente servire. Il Magnifico gli dette della mano in su la spalla, e sorridendo disse: tu sarai sempre povero; aspettando che di maggior cosa lo richiedesse. Pur soggiunse: se volete essere in compagnia di Marco, lo potete fare, fin che si porga occasion di meglio. Importava l’ufficio scudi otto il mese, poco piu o meno. In questo mezzo attendeva Michelagnolo alli suoi studi, ogni dì mostrando qualche frutto delle sue fatiche al Magnifico. Era nella medesima casa il Poliziano, omo come ognun sa<,> e piena testimonanza ne fanno i suoi scritti, dottissimo e acutissimo; costui conoscendo Michelagnolo di spirito elevatissimo, molto lo amava, e di continuo lo spronava, ben che non bisogniasse, allo studio, dichiarandogli sempre e dandogli da far qualche cosa. Tra le quali un giorno gli propose il Ratto de Deianira, e la Zuffa de<’> centauri, dichiarandogli a parte per parte tutta la favola. Messesi Michelagnolo a farla in marmo di mezzo rilievo, e cosi la’mpresa gli succedette, che mi ramenta udirlo dire, che quando la rivede, cognosce quanto torto egli abbia fatto alla natura, a non seguitar prontamente l’arte della scultura, facendo giudicio per quel opera, quanto potesse riuscire. Ne ciò dice per vantarsi, uomo modestissimo, ma per che pur veramente si duole, d’essere stato cosi sfortunato, che per altrui colpa, qualche volta sia stato senza far nulla, dieci e dodici anni, il che di sotto si vederà. Questa sua opera anchor si vede in Firenze in casa sua, e le figure sono di grandezza di palmi due in circa. Appena aveva finita quest’opera, chel Magnifico Lorenzo passò di questa vita. Michelagnolo se ne tornò a casa del padre, e tanto dolor prese della sua morte, che per molti giorni non potette far cosa alcuna. Pur poi a se tornato, e comperato un gran pezzo di marmo qual molti anni s’era iaciuto al acqua, e al vento, di quello cavò un Ercole, alto braccia quatro, qual poi fu mandato in Francia. Mentre ch’egli tale statua faceva, essendo in Firenze venuta di molta neve, Pier de Medici, figliuol maggiore di Lorenzo, che nel medesimo luogo del padre era restato, ma non nella medesima gratia, volendo, come giovane, far fare nel mezzo della sua corte, una statua di neve, si ricordò di Michelagnolo, e fattolo cercare, gli fece far la statua, e volse che in casa restasse, come al tempo del padre, dandogli la medesima stanza, e tenendolo di continuo alla sua mensa come prima; alla qual quella medesima usanza si teneva, che vivente il padre, cioè che chi da principio a tavola sedesse, per nessuna persona quantunque grande che da poi venisse, di luogo si movesse. Lodovico padre di Michelagnolo, fatto gia piu amico al figliuolo, vedendolo pratichar quasi sempre con uomini grandi, meglio e piu orrevolmente l’adobbò di vestimenti. Cosi il giovane se ne stette con Piero alquanti mesi, e da lui fu molto accarezzato, ilqual di due uomini della famiglia sua come di persone rare, vantar si soleva, uno Michelagnolo, l’altro uno staffiere spagniuolo, ilquale oltre alla bellezza del corpo, ch’era maravigliosa, era tanto destro e gagliardo, e di tanta lena, che correndo Piero a cavallo a tutta briglia, non lo avanzava d’un dito. In questo tempo Michelagnolo a compiacenza del priore di Santo Spirito, tempio molto onorato nella città di Firenze, fece un crocifisso di legno, poco meno chel naturale, il quale fin ad oggi si vede in su l’altare maggiore di detta chiesa. Ebbe col detto Priore molto intrinseca pratica, si per ricever da lui molte cortesie, si per essere accomodato e di stanza, e di corpi, da poter far notomia, del che maggior piacer far non segli poteva. Questo fu il principio, ch’egli a tal impresa si messe, seguitandola fin che dalla fortuna concesso gli fu. Praticava in casa di Piero un certo chiamato per sopra nome Cardiere, del qual il Magnifico molto piacer si pigliava, per cantar in su la lira al improvisa maravigliosamente, del che anch’egli profession faceva, si che quasi ogni sera doppo cena in cio se essercitava. Questi essendo amico a Michelagnolo, conferì seco una visione, qual fu tale, che Lorenzo de Medeci gliera apparso con una veste nera, e tutta stracciata, sopra lo ignudo, e gli aveva comandato che dovessi dire al figliuolo, che di corto saria di casa sua cacciato, ne mai piu ci tornerebbe. Era Pier de Medici insolente e superchievole, di maniera, che, ne la bontà di Giovanni Cardinale suo fratello, ne la cortesia e umanità di Giuliano, tanto poterno a ritenergli in Firenze, quanto quei vizi a fargli cacciar fuori. Michelagnolo lo essortava, che di cio dovessi ragguagliar Piero, e fare il comandamento di Lorenzo. Ma il Cardiere temendo la natura di lui, lo tenne in se. Una altra mattina essendo Michelagnolo nel cortile del palazzo, eccoti il Cardiere tutto spaventato e dolente, e di nuovo gli dice, quella notte essergli apparso Lorenzo, in quel medesimo abito che prima, e vegliando e vedendo lui, avergli data una gran guanciata, per che quel che aveva visto, non avea a Pier referito. Michelagnolo alhora lo sgridò, e tanto seppe dire, chel Cardiere preso animo, a piè si messe andare a Careggi, villa della casa de Medici, lontana dalla terra circa tre miglia. Ma quando fu quasi a mezza via, si scontrò in Piero, che ritornava a casa, e fermandolo gli spose quanto visto e udito avesse. Piero se ne fece beffe, e accennati li staffieri, gli fece far mille scherni. E<’>l Cancilier suo che poi fu Cardinale di Bibiena, gli disse<:> tu sei un pazzo. A chi credi tu che Lorenzo voglia meglio, al figliuolo o a te? Se al figliuolo non arebb’egli, se cio fusse, piu tosto ad apparire a lui, che ad altra persona? Cosi schernito lo lasciorno andare. Ilqual tornato a casa, e dolendosi con Michelagnolo, cosi efficacemente della visione gli parlò che egli tenendo la cosa per certa, di lì a doi giorni, con due compagni di Firenze si partì, e andossene a Bologna, e di lì a Vinegia temendo che, se quel chel Cardiere prediceva venisse vero, di non essere in Firenze sicuro. Ma di lì a pochi giorni, per mancamento di danari, percio che spesava i compagni, pensò di tornarsene a Firenze, e venuto a Bologna, gli intervenne un cotal caso. Era in quella terra al tempo di Messer Giovan Bentivogli una legge, che qualunche forestiere entrasse in Bologna, fusse in su l’ugna del dito grosso suggellato con cera rossa. Entrato adunque Michelagnolo inavertentemente senza il suggello, fu condotto insieme co<’> compagni al ufficio delle Bullette, e condannato in lire cinquanta di Bolognini, i quali non avend’egli il modo di pagare, e standosi nel ufficio, un Messer Gian Francesco Aldrovandi Gentilhuom Bolognese, che alhora era de<’> Sedici, vedutolo quivi e intendendo il caso, lo fece liberare, massimamente avendo conosciuto, ch’egli era scultore. E invitandolo a casa sua, Michelagnolo lo ringratiò pigliando scusa d’aver seco due compagni, che non gli voleva lasciare, ne colla lor compagnia, lui aggravare. A cui il Gentiluomo: I<’> verrò anch’io, rispose<,> teco a spasso pel mondo, se mi vuoi far le spese. Per queste e altre parole persuaso Michelagnolo, fatta scusa co<’> compagni, gli licentiò dando lor que<’> pochi danari, che si ritrovava, e andò ad alloggiar col gentil uomo. In questo la casa de Medici con tutti i suoi seguaci, di Firenze cacciata, se ne venne a Bologna, e fu alloggiata in casa di Rossi: cosi la vision del Cardiere, o delusion diabolica, o predittion divina, o forte imaginatione ch’ella si fusse, si verificò. Cosa veramente maravigliosa, e degna d’essere scritta, la quale io, com’ho dallo stesso Michelagnolo intesa, cosi ho narrata. Corser dalla morte del Magnifico Lorenzo al’essilio de’ figlioli circa tre anni si che Michelagnolo poteva esser d’anni venti in ventuno, il quale per ischifare que’ primi tumulti populari, fin che la Città di Firenze pigliasse qualche forma, se ne stette col gia detto Gentiluomo in Bologna, il quale molto l’onorava, dilettato del suo ingegno, e ogni sera da lui si faceva leggere qualche cosa di Dante, o del Petrarcha, e tal volta del Boccaccio, fin che si adormentasse. Un giorno menandolo per Bologna, lo condusse a veder l’archa di san Domenico, nella chiesa dedicata al detto santo, dove manchando due figure di marmo, cioè un San Petronio, e un Angelo in ginocchioni, con un candeliere in mano, domandando Michelagnolo, se gli dava il cuore di farle, e rispondendo di sì, fece che fusser date a fare a lui, delle quali gli fece pagare ducati trenta, del San Petronio diciotto, e del Agnol dodici. Eran le figure d’altezza di tre palmi, e si possan vedere anchora in quel medesimo luogo. Ma poi avendo Michelagnolo sospetto d’uno scoltore Bolognese, il qual si lamentava ch’egli gli aveva tolte le sopra dette statue, essendo quelle prima state promesse a lui, e minacciando di fargli dispiacere, se ne tornò a Firenze, massimamente essendo acquietate le cose, e potendo in casa sua sicuramente vivere. Stette con Messer Gian Francesco Aldrovandi, poco più d’un’anno. Ripatriato Michelagnolo, si pose a far di marmo un Dio d’amore, d’età di sei anni in sette, a iacere in guisa d’uom che dorma. Il qual vedendo Lorenzo di Pier Francesco de Medici, al quale in quel mezzo Michelagnolo aveva fatto un San Giovannino, e giudicandolo bellissimo, gli disse: se tu l’acconciassi che paresse stato sotto terra, io lo manderei a Roma, e passarebbe per antico, e molto meglio lo venderesti. Michelagnolo ciò udendo, di subito l’acconciò, si che parea di molti anni per avanti fatto, come quello a cui nessuna via d’ingegno era occulta. Cosi mandato a Roma, il Cardinale di San Giorgio lo comprò per antico, ducati ducento, benche colui che prese tai danari scrivesse a Firenze, che fusser contati a Michelagnolo ducati trenta, che tanti del Cupidine n’aveva a<v>uti, ingannando insieme Lorenzo di Pier Francesco e Michelagnolo. Ma in questo mezzo, essendo venuto al orecchie del Cardinale, qualmente il putto era fatto in Firenze, sdignato d’esser gabbato, mandò là un suo Gentiluomo, il qual fingendo di cercar d’uno scultore per far certe opere in Roma, doppo alcuni altri, fu inviato a casa Michelagnolo, e vedendo il giovane, per aver cautamente luce di quel che voleva, lo ricercò che gli mostrasse qualche cosa. Ma egli non avendo che mostrare, prese una penna, percioche in quel tempo il lapis non era in uso, e con tal leggiadria gli dipinse una mano, che ne restò stùpefatto. Di poi lo domandò, se mai aveva fatto opera di scoltura, e rispondendo Michelagnolo che sì, tra l’altre un Cupidine di tale statura e atto, il Gintiluomo intese quel che voleva sapere. E narrata la cosa come era andata, gli promesse, se volea seco andare a Roma, di farli risquotere il resto, e d’acconciarlo col padrone, che sapeva che cio molto arebbe grato. Michelagnolo adunque parte per isdegno d’essere stato fraudato, parte per vedere Roma, cotanto dal Gentiluomo lodatagli, come larghissimo campo, di poter ciaschedun mostrar la sua virtù, seco se ne venne e alloggiò in casa sua, vicino al palazzo del Cardinale, il quale in questo mezzo avvisato per lettere, come stesse la cosa, fece metter le mani a dosso a colui, che la statua per antica venduta gli aveva, e riavuti in dietro i suoi danari, glie la rese; la qual poi venendo, non so per qual via, in mano del Duca Valentino, fu donata alla Marchesana di Mantova, e da lei a Mantova mandata, dove anchor si trova in casa di quei Signori. Fu in questo caso il Cardinale di San Giorgio da alcuni biasimato, percio che, se l’opera in Roma da tutti gli artefici vista, da tutti egualmente fu giudicata bellissima, non parea chel dovesse cotanto offendere l’esser moderna, che per dugento scudi se ne privasse, uomo danaroso e ricchissimo. Ma se l’essere stato ingannato gli coceva, poteva gastigar quel tale, facendo sborsare il restante del pagamento al padrone della statua, che di gia aveva tolto in casa. Ma nessun ne patì piu, che Michelagnolo, il quale altro che quel che’n Firenze ricivuto aveva nulla non ne ritrasse. E chel Cardinal San Giorgio poco s’intendesse o dilettasse di statue, a bastanza questo ce lo dichiara, che in tutto il tempo che seco stette, che fu intorno a un anno, a riquisition di lui non fece mai cosa alcuna. Non però mancò chi tal comodità conoscesse, e di lui si servisse, percioche Messer Iacopo Galli Gentiluomo Romano, e di bello ingegno, gli fece fare in casa sua, un Bacco di marmo, di palmi dieci, la cui forma e aspetto corrisponde in ogni parte al’intentione delli scrittori antichi. La faccia lieta, e gliocchi biechi e lascivi, quali sogliono essere quelli, che soverchiamente dal’amor del vino son presi. Ha nella destra una tazza, in guisa d’un che voglia bere, ad essa remirando, come quel che prende piacere di quel liquore, di ch’egli è stato inventore, per il quale rispetto, ha cinto il capo d’una ghirlanda di viti. Nel sinistro braccio ha una pelle di tigre, animale ad esso dedicato, come quel che molto si diletta dell’uva; e vi fece piu tosto la pelle che l’animale, volendo significare, che per lasciarsi cotanto tirar dal senso, e dal’appetito di quel frutto, e del liquor d’esso, vi lascia ultimamente la vita. Colla mano di questo braccio, tiene un grappolo d’uva, qual un satiretto che a piè di lui è posto, furtivamente si magnia, allegro e snello, che mostra circa sette anni, come il Bacco diciotto. Volse ancho detto Messere Iacopo, ch’egli facesse un Cupidine, e l’una e l’altra di queste opere oggidì si veggano in casa di Messer Giuliano e Messer Paulo Galli, Gentiluomini cortesi e da bene, coi quali Michelagnolo ha sempre ritenuta intrinseca amicitia. Poco da poi, a requisitione del Cardinal di San Dionygi, chiamato il Cardinal Rovano, in un pezzo di marmo, fece quella maravigliosa statua di Nostra Donna, qual è oggi nella Madonna della febre, avenga che da principio fusse posta nella chiesa di santa Petronilla, cappella del Re di Francia, vicina alla sagrestia di san Piero, gia sicondo alcuni tempio di Marte, la quale per rispetto del disegno della nuova chiesa, fu da Bramante rovinata. Questa se ne sta a sedere in sul sasso, dove fu fitta la Croce, col figliuol morto in grembo, di tanta, e cosi rara bellezza, che nessun la vede, che dentro a pietà non si commuova. Imagine veramente degna di quella umanità, che al figliuolo de Iddio si conveniva, e a cotanta Madre. Se ben sono alcuni, che in essa madre riprendino l’esser troppo giovane, rispetto al figliuolo. Del che ragionand’io con Michelagnolo un giorno: non sai tu, mi rispose, che le donne caste, molto piu fresche si mantengano, che le non caste? Quanto maggiormente una vergine, nella quale non cadesse mai pur un minimo lascivo desiderio, che alterasse quel corpo? Anzi ti vo<’> dir più, che tal freschezza e fior di gioventù, oltra che per tal natural via, in lei si mantenesse, è ancho credibile che per divin opera fosse aiutato, a comprobare al mondo la verginità e purità perpetua della madre. Il che non fu necessario nel figlio anzi piu tosto il contrario, percio che volendo mostrare chel figliuol de Iddio prendesse, come prese, veramente corpo umano, e sottoposto a tutto quel che un’ordinario omo soggiace, eccetto che al peccato, non bisognò col divino tener indietro l’umano, ma lasciarlo nel corso e ordine suo, si che quel tempo mostrasse, che aveva apunto. Per tanto, non t’hai da maravigliare, se per tal rispetto, io feci la santissima vergine madre de Iddio, a comparation del figliuolo assai più giovane, di quel che quell’età ordinariamente ricerca, e<’>l figliuolo lasciai nel età sua. Consideration degnissima, di qualunche Theologo, maravigliosa forse in altri, in lui non gia, il quale Iddio e la natura ha formato, non solamente ad operar unico di mano, ma degno subietto anchora di qualunche divinissimo concetto, come non solamente in questo, ma in moltissimi suoi ragionamenti, e scritti conoscer si può. Poteva aver Michelagnolo quando fece quest’opera, vinti quattro o vinti cinque anni. Acquistò per questa fatica gran fama e riputatione, talmente che gia era in openion del mondo, che non solamente trapassasse di gran lunga qualunche altro del suo tempo, e di quello avanti a lui, ma che contendesse anchora con gli antichi. Fatte queste cose, per suoi domestici negoci, fu sforzato tornarsene a Firenze, dove dimorato alquanto, fece quella statua, ch’è posta in fin a oggi, inanzi alla porta del palazzo della Signoria, nel estremo della ringhiera, chiamata da tutti il Gigante. E passò la cosa in questo modo. Avevano li operai di Santa Maria del fiore, un pezzo di marmo d’altezza di braccia nove, qual era stato condotto da Carrara, di cento anni inanzi, da un’artefice, per quel che veder si potea, non piu pratico che si bisognasse. Per cio che per poterlo condur piu comodamente e con manco fatica, l’aveva nella cava medesima bozzato, ma di tal maniera, che ne a lui, ne ad altri bastò giammai l’animo di porvi mano, per cavarne statua, non che di quella grandezza, ma ne ancho di molto minor statura. Poi che di tal pezzo di marmo non potevano cavar cosa che buona fusse, parve a un Andrea dal Monte a San Sovino, di poterlo ottener da loro, e gli ricercò che gliene facessero un presente, promettendo, che aggiungendovi certi pezzi, ne caverebbe una figura. Ma essi prima che si disponessero a darlo, mandarono per Michelagnolo, e narrandogli il desiderio e<’>l parer d’Andrea, e intesa la confidenza ch’egli aveva di cavarne cosa buona, finalmente l’offerirno a lui. Michelagnolo l’accettò, e senza altri pezzi, ne trasse la gia detta statua, cosi apunto che, come si può vedere nella summità del capo, e nel posamento, n’apparisce anchor la scorza vecchia del marmo. Il che similmente ha fatto in alcun’altre, come alla sepoltura di papa Giulio II in quella statua, che rappresenta la vita contemplativa. Il che è tratto da maestri, e che sien padroni del’arte. Ma in questa statua vie piu maraviglioso apparve, percio che oltra che pezzi non le aggiunse, è ancho (come suol dir Michelagnolo) impossibile, o almeno difficilissimo nella statuaria, a emendare i vizi della abbozzatura. Ebbe di quest’opera ducati quatro cento, e condussela in mesi diciotto. E accio che non fusse materia che sotto la statuaria cadesse, dove egli non mettesse le mani, doppo il Gigante, ricercato da Piero Soderini suo grande amico gittò di bronzo una statua, grande al naturale, che fu mandata in Francia, e similmente un David con Goliad sotto. Quel che si vede nel mezzo della corte del palazzo de<’> Signori, è di mano di Donatello, uomo in tal arte eccellente, e molto da Michelagnolo lodato, se non in una cosa, ch’egli non aveva pacienza in repulir le sue opere, di sorte che riuscendo mirabili a vista lontana, da presso perdevon riputatione. Gittò ancho di bronzo una madonna, col suo figliuolino in grembo, laquale da certi mercanti Fiandresi de<’> Moscheroni, famiglia nobilissima in casa sua, pagatagli ducati cento, fu mandata in Fiandra. E per non lasciare affatto la pittura, fece una nostra donna in una tavola tonda, a Messer Agnol Doni, cittadin Fiorentino, della qual egli da lui ebbe ducati settanta. Se ne stette alquanto tempo quasi senza far niuna cosa in tal arte, dandosi alla lettione de<’> Poeti, e Oratori volgari, e a far sonetti per suo diletto, finche morto Alessandro Papa Sesto, fu a Roma da Papa Giulio Secondo chiamato, ricevuti in Firenze per suo viatico, ducati cento. Poteva, esser Michelagnolo in quel tempo, d’anni venti nove per cio che se conteremo dal nascimento di lui, che fu com’è gia detto nel MCCCCLXXIIII, fin alla morte de Alessandro sopra detto che fu nel 1503 troveremo esser corsi i gia detti anni. Venuto dunque a Roma, passaron molti mesi, prima che Giulio Secondo si risolvesse, in che dovesse servirsene. Ultimamente gli venne in animo, di fargli fare la sepoltura sua. E veduto il disegno gli piacque tanto, che subito lo mandò a Carrara, per cavar quella quantità di marmi, che a tal impresa facesse di mestieri, facendogli in Firenze per tale effetto pagare da Alemani Salviati, ducati mille. Stette in quei monti con due servitori, e una cavalcatura, senza altra provisione, se non del vitto, meglio d’otto mesi; dove un giorno quei luoghi veggendo, d’un monte, che sopra la marina riguardava, gli venne voglia di fare un colosso, che da lungi apparisse a<’> naviganti, invitato massimamente dalla comodità del masso, donde cavare acconciamente si poteva, e dalla emulatione delli antichi, iquali forse per il medesimo effetto che Michelagnolo, capitati in quel loco, o per fuggir l’otio, o per qual si voglia altro fine, v’hanno lasciate alcune memorie imperfette, e abbozzate, che danno assai bon saggio de l’artifitio loro. E certo l’arebbe fatto se’l tempo bastato gli fusse, o l’impresa per laquale era venuto, l’avesse concesso. Del che un giorno lo sentì molto dolere. Ora cavati e scelti que’ marmi, che li parvero a bastanza, condotti che gli ebbe alla marina, e lasciato un suo, che gli facesse caricare, egli a Roma se ne tornò. E percio che s’era alcuni giorni fermo in Firenze, trovò quando giunse, che una parte gia n’era arrivata a Ripa; là ove scaricati, gli fece portare in su la piazza di San Piero, dietro a Santa Catherina, dove egli appresso al corridore, aveva la sua stanza. La quantità de i marmi era grande, si che distesi in su la piazza, davano a glialtri ammiratione, e al Papa letitia; ilquale tanti favori e cosi smisurati faceva a Michelagnolo, che avend’egli cominciato a lavorare, più e più volte l’andò fin a casa a trovare, quivi seco non altrimenti ragionando, e della sepoltura e d’altre cose, che arebbe fatto con un suo fratello. E per poterci più comodamente andare, aveva ordinato dal corridore alla stanza di Michelagnolo, buttare un ponte levatoio, per ilquale là secretamente entrasse. Questi tanti e cosi fatti favori, furon cagione, come bene spesso nelle corti aviene, d’arrecargli invidia, e doppo l’invidia persecutioni infinite. Percio che Bramante Architettore, che dal Papa era amato, con dir quello che ordinariamente dice il volgo, esser male augurio in vita farsi la sepultura, e altre novelle, lo fece mutar proposito. Stimolava Bramante oltre al’invidia, il timore che aveva del giudicio di Michelagnolo, ilquale molti suoi errori scopriva. Percioche essendo Bramante, come ognun sa, dato ad ogni sorte di piacere, e largo spenditore, ne bastandogli la provision datagli dal Papa, quantunque ricca fusse, cercava d’avanzare nelle sue opere, facendo le muraglie di cattiva materia, e alla grandezza e vastità loro, poco ferme e sicure. Il che si può manifestamente vedere per ogniuno, nella fabrica di San Pietro in Vaticano, nel corridore di Belvedere, nel convento di San Pietro ad Vincula, e nel’altre fabriche per lui fatte, lequali tutte è stato necessario rifondare e fortificare di spalle e barbacani, come quelle che cadevano, o sarebbe in breve tempo cadute. Or per che egli non dubitava, che Michelagnolo non conoscesse questi suoi errori, cercò sempre di levarlo di Roma, o almeno privarlo della gratia del Papa, e di quella gloria e utile, che col industria sua potesse acquistare. Il che gli successe in questa sepoltura, laquale se fusse stata fatta com’era il primo disegno, non è dubio che nel’arte sua non avesse tolto il vanto (sia detto senza invidia) a qualunque mai stimato artefice fusse, avendo largo campo, di mostrare, quanto in cio valesse. E quel che fusse per fare, lo dimostrano l’altre sue cose, e quelli dui prigioni, che per tal opera aveva gia fatti, i quali chi veduti ha, giudica non esser giamai stata fatta cosa piu degna. E per darne qualche saggio, brevemente dico, che questa sepoltura, doveva aver quattro faccie, due di braccia diciotto, che servivan per fianchi, e due di dodici, per teste: tal che veniva ad essere un quadro e mezzo. Intorno, intorno di fuore, erano nicchi, dove entravano statue, e tra nicchio e nicchio termini, aiquali, sopra certi dadi, che movendosi da terra sporgevano in fuori, erano altre statue legate, come prigioni, le quali rappresentavano l’arti liberali, similmente Pittura, Scultura, e Architettura, ogniuna colle sue note, si che facilmente potesse esser conosciuta, per quel che era; denotando per queste, insieme con Papa Giulio, esser prigioni della morte, tutte le virtù, come quelle che non fusser mai per trovare da chi cotanto fussero favorite e nutrite, quanto da lui. Sopra queste correva una cornice, che intorno legava tutta l’opera, nel cui piano eran quattro grandi statue, una delle quali, cio è il Moise, si vede in San Piero ad Vincula, e di questa si parlerà al suo luogo. Cosi ascendendo l’opera, si finiva in un piano, sopra ilquale erano due Agnoli, che sostenevano un’arca, uno d’essi faceva sembiante di ridere, come quello che si rallegrasse, che l’anima del Papa, fusse tra li beati spiriti ricevuta, l’altro di piangere, come se si dolesse, chel mondo fusse d’un tal uomo spogliato. Per una delle teste, cioè da quella che era dalla banda di sopra, s’entrava dentro alla sepoltura in una stanzetta, a guisa d’un tempietto, in mezzo della quale era un cassone di marmo, dove si doveva sepellire il corpo del Papa, ogni cosa lavorata con maraviglioso artificio. Brevemente, in tutta l’opera andavano sopra quaranta statue, senza le storie di mezzo rilievo fatte di bronzo, tutte a proposito di tal caso, e dove si potevan vedere i fatti di tanto Pontefice. Visto questo disegno il Papa, mandò Michelagnolo in San Pietro, a veder dove comodamente si potesse collocare. Era la forma della chiesa alhora, a modo d’una croce, in capo della quale Papa Nicola Quinto aveva cominciato a tirar su la tribuna di nuovo, e gia era venuta sopra terra, quando morì, al’altezza di tre braccia. Parve a Michelagnolo che tal luogo fusse molto a proposito, e tornato al Papa, gli spose il suo parere, aggiungendo, che se cosi paresse a sua Santità era necessario tirar su la Fabrica e coprirla. Il Papa l’adomandò che spesa sarebbe questa. A cui Michelagnolo rispose: Cento milia scudi. Sien (disse Giulio) ducento milia. E mandando il San Gallo architettore, e Bramante a vedere il luogo, in tai maneggi, venne voglia al Papa, di far tutta la chiesa di nuovo. E avendo fatti fare più disegni, quel di Bramante fu accettato, come più vago e meglio inteso delli altri. Cosi Michelagnolo venne ad esser cagione, e che quella parte della Fabrica gia cominciata, si finisse, che, se ciò stato non fusse, forse anchora starebbe come l’era, e che venisse voglia al Papa, di rinovare il resto, con nuovo e più bello e più magno disegno. Or tornando alla nostra storia. S’accorse Michelagnolo della cangiata voluntà del Papa, in questo modo. Aveva il Papa commesso a Michelagnolo, che bisognando danari, non dovesse andare ad altri che a lui, accio non si avesse a girare in qua e in là. Avenne un giorno, che arrivò a Ripa quel resto de<’> marmi, ch’eran restati a Carrara. Michelagnolo, avendogli fatti scaricare, e portare a San Piero, volendo pagare i noli, scaricatura e conduttura, venne per chieder danari al Papa, ma trovò l’ingresso piu difficile, e lui occupato. Però tornato a casa, per non far stare a disagio quei poveri uomini, che avevano avere, pagò tutti del suo, pensando di ritrarsi i suoi danari, come dal Papa comodamente gli potesse avere. Un’altra mattina tornato, e entrato nel’anticamera, per aver audienza, eccoti un Palafreniere farsegli in contro, dicendo: perdonatemi ch’io ho commessione non vi lasciare entrare. Era presente un Vescovo, il qual, sentendo le parole del Palafreniere, lo sgridò, dicendo: tu non debbi conoscer chi è questo uomo. Anzi lo conosco, rispose il Palafreniere, ma io son tenuto di quel che m’è commesso da<’> miei padroni, senza cercar più là. Michelangnolo, a cui fin alhora non era mai stata tenuta portiera, ne serrato uscio, vedendosi cosi sbatuto, sdegnato per tal caso, gli rispose: E voi direte al Papa, che se da qui inanzi mi vorà, mi cercherà altrove. Cosi tornato a casa, ordinò a due servitori ch’egli aveva, che venduti tutti i mobili di casa, e tenutisi i danari, lo seguissino a Firenze. Egli montato in poste, a due ore di notte giunse a Poggibonzi, castello del contado di Firenze, lontano dalla città, un diciotto o venti miglia. Quivi come in luogo sicuro, si posò. Poco da poi giunsero cinque Corrieri di Giulio, ch’avean commessione da lui di menarlo in dietro d<o>vunque lo trovasseno. Ma avendolo arrivato in loco dove far violenza non gli poteano, minacciando Michelagnolo se niuna cosa tentassino, di fargli ammazzare, si voltorno a’ preghi, iquali non gli giovando, ottennero da lui, che almeno rispondesse alla lettera del Papa, laqual eglino appresentata gli avevano, e che particularmente scrivesse, che nol’avevano aggiunto, se non in Firenze, accio ch’egli potesse intendere, che nol’avevano potuto condurre in dietro, contra sua voglia. La lettera del Papa era di questo tenore, che vista la presente, subito tornasse a Roma, sotto pena della sua disgratia. Alla qual Michelagnolo brevemente rispose, ch’egli non era mai per tornare, e che non meritava della buona e fidele servitù sua, averne questo cambio, d’esser cacciato dalla sua faccia come un tristo, e poi che sua Santità non voleva più attendere alla sepoltura, esser disubligato ne volersi ubligare ad altro. Cosi fatta la data de la lettera, come s’è detto, e licentiati i Corrieri, se ne andò a Firenze, dove in tre mesi che vi stette furon mandati tre brevi alla Signoria, pieni di minaccie, che lo mandassero in dietro, o per amore, o per forza. Pier Soderini, che alhora era Confaloniero in vita di quella Republica, avendolo per inanzi contra sua voglia lasciato andare a Roma, disegnando di servirsene, in dipigner la sala del Consiglio, al primo breve non isforzò Michelagnolo a tornare, sperando che la collera del Papa dovesse passare, ma venuto il secondo e’l terzo, chiamato Michelagnolo gli disse: Tu hai fatta una pruova col Papa, che non l’arebbe fatta un Re di Francia. Però non è piu da farsi pregare. Noi non vogliamo per te far guerra con lui, e metter lo stato nostro a risico. Però disponti a tornare. Michelagnolo alhora vedendosi condotto a questo, temendo de l’ira del Papa, pensò d’andarsene in Levante, massimamente essendo stato dal Turco ricercato, con grandissime promesse, per mezzo di certi frati di san Francesco, per volersene servire in far un ponte da Costantinopoli a Pera, e in altri affari. Ma cio sentendo il Gonfaloniere, mandò per lui, e lo distolse da tal pensiero, dicendo che piu tosto eleggerebbe di morire andando al Papa, che vivere andando al Turco: non dimeno che di cio non dovesse temere, percioche il Papa era benigno e lo richiamava, per che gli voleva bene, non per fargli dispiacere. E se pur temeva, che la Signoria lo mandarebbe con titolo d’Ambasciatore, per cioche a le persone publiche non si suol far violenza, che non si faccia a chi gli manda. Per queste e altre parole, Michelagnolo si dispose a ritornare. Ma in questo mezzo ch’egli stette in Firenze, due cose occorsero. L’una ch’egli finì quel maraviglioso cartone cominciato per la sala del Consiglio, nel quale rappresentava la guerra tra Fiorenza e Pisa, e i molti e vari accidenti occorsi in essa. Dal quale artificiosissimo cartone, eber luce tutti quelli, che di poi misser mano a pennello. Ne so per qual mala fortuna capitasse poi male, essendo stato da Michelagnolo lasciato nella sala del Papa, luogo cosi chiamato in Firenze, a Santa Maria Novella. Se ne vede però qualche pezzo in vari luoghi, serbato con grandissima diligenza e come cosa sacra. L’altra cosa che occorse fu, che Papa Giulio avendo presa Bologna là se n’era andato, e per tal acquisto, era tutto lieto. Il che dette animo a Michelagnolo, con miglior speranza d’andargli inanzi. Giunto <adunque> una mattina in Bologna, e andando a San Petronio per udir messa, eccoti i Palafrenieri del Papa, iquali riconoscendolo lo condussero inanzi a sua Santità, che era a tavola, nel palazzo de’ Sedici. Ilquale poi che in sua presenza lo vidde, con volto gli disse: Tu avevi a venire a trovar noi, e hai aspettato che noi vegniamo a trovar te. Volendo intendere, che essendo sua Santità venuta a Bologna, luogo molto piu vicino a Fiorenza che non è Roma, era come venuto a trovar lui. Michelagnolo inginocchiato, ad alta voce gli domandò perdono, scusandosi di non avere errato per malignità, ma per isdegno, non avendo potuto sopportare d’essere cosi cacciato, come fu. Stavasene il Papa a capo basso, senza risponder nulla, tutto nel sembiante turbato, quando un Monsignore, mandato dal Cardinal Soderini per iscusare e raccomandar Michelagnolo, si volse interporre, e disse: vostra Santità non guardi al error suo, percioche ha errato per ignoranza. I dipintori, dal arte loro in fuore, son tutti cosi. A cui il Papa sdegnato rispose: Tu gli dì villania, che non diciamo noi. Lo’gnorante sei tu e lo sciagurato non egli. Lievamiti dinanzi in tua mal’ora. E non andando, fu da<’> servitori del Papa, con matti frugoni (come suol dir Michelagnolo) spinto fuore. Cosi il Papa avendo il più della sua collera sborrata sopra il vescovo, chiamato più a costo Michelagnolo, gli perdonò, e gli commesse che di Bologna non partisse, fin ch’altra commessione da lui non gli fusse data. Ne stette però molto, che mandò per lui, e disse, che voleva ch’egli lo ritraesse in una grande statua, di bronzo, qual voleva collocare nel frontespitio della chiesa di san Petronio. E per questo effetto lasciati ducati mille in sul banco di Messer Antonmaria da Lignano, se ne tornò a Roma. E’ vero che prima si partisse, gia Michelagnolo l’aveva fatta di terra. E dubitando quel ch’egli dovesse fare nella man sinistra, facendo la destra sembiante di dar la beneditione, ricercò il Papa, che a veder la statua venuto era, se gli piaceva che gli facesse un libro. Che libro<,> ripose egli<,> alhora? Una spada. Ch’io per me non so lettere. E motteggiando sopra la destra che era in atto gagliardo, sorridendo disse a Michelagnolo: Questa tua statua, dà ella la beneditione o maledittione? A cui Michelagnolo: Minaccia Padre Santo questo populo, se non è savio. Ma come ho detto, tornatosene Papa Giulio a Roma, Michelagnolo restò in Bologna, e in condur la statua, e collocarla dove il Papa gia ordinato gli aveva, spese sedici mesi. Questa statua poi, rientrando i Bentivogli in Bologna, fu a furia di populo gittata a terra, e disfatta. La sua grandezza, fu meglio che tre volte il naturale. Poi ch’ebbe finita quest’opera, se ne venne a Roma, dove volendo Papa Giulio servirsi di lui, e stando pur in preposito di non far la sepultura, gli fu messo in capo da Bramante e altri emuli di Michelagnolo, che lo facesse dipignere la volta della Cappella di Papa Sisto quarto, ch’è in Palazzo, dando speranza che in cio farebbe miracoli. E tale ufficio facevano con malitia, per ritrarre il Papa da cose di scultura, e percioche tenevano per cosa certa, che o non accettand’egli tale impresa, commoverebbe contra di se il Papa, o accettandola, riuscirebbe assai minore di Raffaello da Urbino, alqual per odio di Michelagnolo, prestavano ogni favore, stimando che la principal arte di lui, fusse (come veramente era) la statuaria. Michelagnolo che per anchora colorito non aveva, e conosceva il dipignere una volta, esser cosa difficile, tentò con ogni sforzo di scaricarsi, proponendo Raffaello, e scusandosi che non era sua arte, e che non riuscirebbe, e tanto procedette ricusando, che quasi il Papa si corucciò. Ma vedendo pur l’ostinatione di lui, si mise a fare quel opera, che oggi in Palazzo del Papa si vede, con ammiratione e stupore del mondo, laqual tanta riputatione gli arrecò, che lo pose sopra ogni invidia. Della quale darò breve informatione. E’ la forma della volta, secondo che communemente si chiama, a botte, e ne<’> posamenti suoi a lunette, che sono per la lunghezza sei, per la larghezza due, si che tutta vien ad essere due quadri e mezzo. In questa Michelagnolo ha dipinto principalmente la creatione del mondo, ma v’ha di poi abbracciato quasi tutto il Testamento vecchio. E quest’opera ha partita in questo modo. Cominciando da i peducci, dove le corna delle lunette si posano, fin quasi a un terzo del arco della volta, finge come un parete piano, tirando su a quel termine, alcuni pilastri e zoccoli, finti di marmo, che sporgono in fuori sopra un piano a guisa di poggiolo, con le sue mensole sotto, e con altri pilastrelli sopra il medesimo piano, dove stanno a sedere Profeti e Sibille. I quali primi pilastri, movendosi dalli archi delle lunette, mettono in mezzo i peducci, lasciando però del arco delle lunette, maggior parte, che non è quello spatio, che dentro a loro si contiene. Sopra detti zoccoli, son finti alcuni fanciulletti ignudi, in vari gesti, iquali a guisa de termini, reggono una cornice, che intorno cinge tutta l’opera, lasciando nel mezzo della volta, da capo a piè, come uno aperto cielo. Questa apertura è destinta in nove liste. Percioche, dalla cornice i pilastri si muoveno alcuni archi corniciati, iquali passano per l’ultima altezza della volta, e vanno a trovare la cornice del opposita parte, lasciando tra arco e arco nove vani, un grande e un picciolo. Nel picciolo son due listarelle finte di marmo, che traversan il vano, fatte talmente, che nel mezzo restan le due parti, e una dalle bande, dove son collocati i medaglioni, come si dirà al suo luogo. E questo ha fatto per fuggir la sacietà, che nasce dalla similitudine. Adunque nel vano primo, nella testa di sopra, ilqual è de i minori, si vede in aria l’onipotente Iddio, che col moto delle braccia divide la luce dalla tenebre. Nel secondo vano è, quando creò i due luminari maggiori, ilqual si vede stare a braccia tutte distese, colla destra accennando al sole, e colla sinistra alla luna. Sonvi alcuni Agnoletti in compagnia, un de<’> quali nella sinistra parte, nasconde il volto, e ristringendosi al creator suo, quasi per difendersi dal nocumento della luna. In questo medesimo vano dalla parte sinistra, è il medesimo Iddio, volto a creare nella terra l’erbe e le piante, fatto con tanto artificio, che dovunque tu ti volti, par ch’egli te seguiti, mostrando tutta la schiena fin alle piante de<’> piedi, cosa molto bella, e che ci dimostra quel che possa lo scorcio. Nel terzo vano in aria il magno Iddio, similmente con agnoli, e remira al acque, comandando loro che produchino tutte quelle spetie d’animali, che tal elemento nutrisce, non altrimenti che nel secondo comandò alla terra. Nel quarto è la creatione del uomo, dove si vede Iddio col braccio e colla mano distesa, dar quasi i precetti ad Adamo, di quel che far debbe e non fare, e col’altro braccio, raccoglie i suoi agnolini. Nel quinto è, quando della costa d’Adamo ne trae la donna, laquale su venendo a mani giunte, e sporte verso Iddio, inchinatasi con dolce atto, par che lo ringratie, e che egli lei benedica. Nel sesto è quando il Demonio, dal mezzo in su in forma umana, e nel resto di serpente, con le gambe trasformate in code, s’avvolge intorno a un’albero, e facendo sembiante, che col’uomo ragioni, lo induce a far contra il suo creatore, e porge alla donna il vietato pomo. E nel’altra parte del vano, si vedano ambidue scacciati dal’Agnolo, spaventati e dolenti, fuggirsi dalla faccia de Iddio. Nel settimo è il sacraficio di Abel e di Cain, quello grato e accetto a Dio, questo odioso e reprobato. Nel ottavo è il diluvio dove si può vedere l’Archa di Noe da lunge, in mezzo del’acque, e alcuni, che per suo scampo, a lei s’attaccano. Più da presso, nel medesimo pelago, è una nave carica di varie genti, laquale si per il soverchio peso che aveva, si per le molte e violente percosse del onde, persa la vela, e privata d’ogni aiuto, e argomento umano, si vede gia dentro di se pigliar acque, andarsene a fondo. Dove è miserabil cosa, veder la spetie umana cosi meschinamente nel onde perire. Similmente più vicino al occhio, appare anchor sopra l’acque la cima d’una montagna, a guisa d’un’isola, dove fuggendo l’acque ch’alzavano, s’è ridotta una moltitudine d’uomini e di donne, che mostran vari affetti, ma tutti miserabili e spaventosi, traendosi sotto una tenda, tirata sopra un’albore per diffendersi di sopra dalla inusitata pioggia; e sopra questa con grande artificio si rappresenta l’ira di Dio, che con acque, con fulgori, e con saette, si versa contra di loro. Evvi un’altra sommità di monte, nella destra parte, assai più vicina al occhio, e una moltitudine travagliata dal medesimo accidente, della quale saria longo scrivere ogni particulare, mi basta che sono tutti naturali e formidabili, secondo che in un tale accidente si possono imaginare. Nel nono che è l’ultimo, è la storia di Noe, quando ebbro iacendo in terra, e mostrando le parti vergognose dal figliuol Can fu deriso, e da Sem e Iaphet ricoperto. Sotto la cornice gia detta, che finisce il parete, e sopra i peducci, dove le lunette si posano, tra pilastro e pilastro, stanno a sedere dodici figurone tra Profeti e Sibille, tutti veramente mirabili, si per l’attitudini, come per l’ornamento e varietà de panni. Ma mirabilissimo sopra tutti, il Profeta Iona, posto nella testa della volta, percioche contro alli siti d’essa volta, e per forza di lumi, e d’ombre, il torso che scorcia in dentro, è ne la parte che è piu vicina al occhio, e le gambe che sporgono in fuori, son ne la parte più lontana. Opera stupenda e che ci dichiara, quanta scienza sia in questo uomo, ne la facultà del girar le linee, ne<’> scorci e nella perspettiva. Ma in quello spatio ch’è sotto le lunette, e cosi in quel di sopra, ilqual ha figura di triangolo, v’è dipinta tutta la Genealogia, o voglian dire generatione del Salvatore, eccetto che ne<’> triangoli de<’> cantoni, i quali uniti insieme, di due diventano uno, e lascian’ doppio spatio. In uno adunque di questi, vicina alla facciata del giudicio, a man dritta, si vede quando Aman, per comandamento del Re Assuero fu sospeso in croce, e questo percioche volse per la superbia e alterezza sua far sospendere Mardocheo Zio della Regina Ester, percioche nel passare suo non gli aveva fatto onore e reverenza. In un’altro è la storia del Serpente di bronzo, elevato da Moise sopra d’un’asta, nel qual il popolo de Israel ferito e mal trattato da vivi serpentegli reguardando, era sanato. Nel qual Michelagnolo ha mostrato mirabil’ forze, in quei che si vogliono staccar quelle biscie datorno. Nel terzo cantone da basso, è la vendetta fatta da Iudit, contra Oloferne. E nel quarto quella di David, contra Goliad. E questa è brevemente tutta la storia, ma non meno di questa è maravigliosa quella parte, che alla storia non si appertiene. Questi son certi ignudi, che sopra la gia detta cornice, in alcuni zoccoli sedendo, un di qua, e un di là, sostengano i medaglioni, che si son detti, finti di metallo, nei quali, a uso di rovesci, son fatte varie storie tutte approposito però della principale. In queste cose tutte, per la vaghezza de<’> compartimenti, per la diversità del’attitudini, e per la contrarietà de’ siti, mostrò Michelagnolo un’arte grandissima. Ma narrare i particulari di queste e del’altre cose, saria opera infinita, ne bastarebbe un volume. Però brevemente me ne son passato, volendo solamente dare un poco di luce, più tosto del tutto che specificar le parti. Ne in questo mezzo gli mancarono travagli, per cio che avendola cominciata, e fatto il quadro del Diluvio, se gli cominciò l’opera a muffare, di maniera che appena si scorgevan le figure. Però stimando Michelagnolo, che questa scusa gli dovesse bastare, a fugir un tal carico, se n’andò dal Papa, e gli disse: Io ho pur detto a Vostra Santità, che questa non è mia arte: cio ch’io ho fatto è guasto. E se nol credete, mandate a vedere. Mandò il Papa il San Gallo, ilquale cio vedendo, conobbe ch’egli aveva data la calcina troppo acquosa, e per questo calando l’umore, faceva quel effetto; e avisatone Michelagnolo, fece che seguitò, ne gli valse scusa. Mentre che dipingeva, più volte Papa Giulio volse andare a vedere l’opera, salendo su per una scala a piuoli. A cui Michelagnolo porgeva la mano, per farlo montare in sul ponte. E come quello che era di natura ve’mente, e’mpaciente d’aspettare, poi che fu fatta la metà, cioè dalla porta, fin a mezzo la volta, volse ch’egli la scoprisse, anchor che fusse imperfetta, e non avesse avuta l’ultima mano. L’openione e l’aspettatione che s’aveva di Michelagnolo, trasse tutta Roma a veder questa cosa, dove andò ancho il Papa, prima che la polvere, che per il disfar del palco era levata, si posasse. Doppo quest’opera, Raffaello, avendo vista la nuova e maravigliosa maniera, come quello che in imitare era mirabile, cercò per via di Bramante di dipignere il resto. Del che Michelagnolo molto si turbò, e venuto inanzi a Papa Giulio, gravemente si lamentò dell’ingiuria, che gli faceva Bramante, e in sua presenza, se ne dolse col Papa, scoprendoli tutte le persecutioni ch’egli aveva recevute dal medesimo, e appresso scoperse molti suoi manchamenti, e massimamente, che disfacendo egli San Piero vecchio, gittava a terra quelle maravigliose colonne, che erano in esso tempio, non si curando ne facendo stima, che andassero in pezzi, potendole pianamente calare, e conservarle intere, mostrando com’era facil cosa, a mettere matton sopra mattone, ma che a fare una colonna tale, era difficilissima, e molte altre cose che non occorre narrare, di maniera che’l Papa udite queste tristitie, volse che Michelagnolo seguitasse, facendogli più favori che mai facesse. Finì tutta quest’opera in mesi venti, senza aver aiuto nessuno, ne d’un pure che gli macinasse i colori. E’ vero ch’io gli ho sentito dire, ch’ella non è come egli arebbe voluto finita, impedito dalla fretta del Papa, ilqual dimandandolo un giorno, quando finerebbe quella cappella, e rispondendo lui, quando potrò, egli irato soggiunse: tu hai voglia ch’io ti faccia gittar giu di quel palco. Il che udendo Michelagnolo, da se disse: me non farai tu gittare; e partitosi, fece disfare il ponte, e scoperse l’opera il giorno d’Ogni santi, laqual fu vista con gran sodisfatione del Papa, che quel giorno andò in Cappella, e concorso e ammiratione di tutta Roma. Manchava a ritoccarla con l’azzurro oltramarino a secco, e con oro, in qualche luogo, perche paresse piu ricca. Giulio passato quel fervore, voleva pur che Michelagnolo la fornisse, ma egli considerando l’impaccio che avrebbe avuto in rimettere in ordine il palco, rispose che quel che li manchava, non era cosa che importasse. Bisognarebbe pur ritoccarla d’oro, rispose il Papa; a cui Michelagnolo familiarmente, come soleva con sua Santità: io non veggio che gli uomini portino oro. E<’>l Papa: La sarà povera. Quei che sono quivi dipinti, rispose egli, furon poveri anchor loro. Cosi si buttò in burla e è cosi rimasta. Ebbe Michelagnolo di quest’opera ad ogni sua spesa, ducati tre mila, de<’> quali ne dovette spendere in colori, secondo che gli ho sentito dire, intorno a venti, o venti cinque. Spedita quest’opera, Michelagnolo per avere nel dipignere, cosi lungo tempo, tenuti gliocchi alzati verso la volta, guardando poi in giu, poco vedeva si che s’egli aveva a legere una lettera o altre cose minute, gliera necessario con le braccia tenerle levate sopra il capo. Nondimeno dipoi appoco appoco, s’ausò a leggere anchora guardando a basso. Per questo possiamo considerare, con quanta attentione e assiduità facesse quest’opera. Molte altre cose gli avennero, vivente Papa Giulio, il quale sviceratamente l’amò, avendo di lui piu cura e gelosia, che di qualunque altro ch’egli appresso di se avesse. Il che si può per quel che gia scritto n’abbiamo, assai chiaramente conoscere. Anzi un giorno dubitando ch’egli non fusse sdegnato, di subito lo mandò a placare. La cosa fu in questo modo. Volendo Michelagnolo per San Giovanni andare fin a Firenze, chiese danari al Papa. E egli dimandando quando finirebbe la Cappella, Michelagnolo al’usanza sua gli rispose, quando potrò, il Papa che era di natura subito, lo percosse con un bastone che in mano teneva dicendo, quando potrò, quando potrò. Però tornato a casa Michelagnolo si metteva in ordine per andare senz’altro a Firenze, quando sopravenne Accursio, giovane molto favorito, mandato dal Papa, e gli portò ducati , placandolo il meglio che potette, e scusando il Papa. Michelagnolo accettata la scusa se ne andò a Fiorenza. Si che di nessuna cosa parve che Giulio maggior cura avesse, che di mantenerse questo uomo, ne volse solamente servirsene in vita, ma poi che fu morto anchora, percioche venendo a morte, ordinò che gli fusse fatta finir quella sepoltura, che gia aveva principiata, dando la cura al Cardinal Santi quatro vecchio, e al Cardinale Aginense suo nipote. Iquali però gli fecer fare nuovo disegno, parendo loro il primo, impresa troppo grande. Cosi entrò Michelagnolo un’altra volta nella Tragedia della sepoltura, laquale non piu felicemente gli successe, di quel di prima, anzi molto peggio, arrecandogli infiniti impacci, dispiaceri, e travagli, e quel ch’è peggio, per la malitia di certi uomini, infamia, della qual’appena doppo molti anni s’è purgato. Ricominciò dunque Michelagnolo di nuovo a far lavorare, condotti da Firenze molti maestri, e Bernardo Bini ch’era depositario, dava danari, secondo che bisognava. Ma non molto andò inanzi, che fu con suo gran dispiacere impedito, percioche a Papa Lione, il qual successe a Giulio, venne voglia d’ornare la facciata di San Lorenzo di Firenze, con opera e lavori di marmo. Fu questa chiesa fabricata dal gran Cosmo de Medici, e fuor che la facciata di nanzi, tutta compitamente finita. Questa parte dunque deliberandosi Papa Lione di fornire, pensò servirsi di Michelagnolo: e mandando per lui, gli fece fare un disegno, e ultimamente per tal cagione voleva che andasse a Firenze, e pigliasse sopra di se tutto quel peso. Michelagnolo che con grande amore s’era messo a far la sepoltura di Giulio, fece tutta quella resistenza che potette, allegando d’esser ubligato al Cardinal Santi quatro, e ad Aginense, ne poter loro manchare. Ma il Papa che in cio s’era risolto gli rispose, lascia a me far con loro, che gli farò contenti. Cosi mandati per tutt’adue, fece dar licenza a Michelagnolo, con grandissimo dolore e di lui e de<’> Cardinali, massimamente d’Aginense, nipote come s’è detto, di Papa Giulio, a<’> quali però Papa Lione promesse, che Michelagnolo in Firenze la lavorarebbe, e che non la voleva impedire. In questo modo Michelagnolo piangendo, lasciò la sepoltura, e se n’andò a Firenze, dove giunto e dato ordine a tutte quelle cose che per la facciata facevan mestieri, se n’andò a Carrara per condurre i marmi, non solamente per la , ma etiamdio per la sepoltura, credendo come dal Papa gliera stato promesso, poterla seguitare. In questo mezzo fu scritto a Papa Lione, che nelle montagnie di Pietra Santa, Castello de<’> Fiorentini, eran marmi di quella bellezza e bontà, che erano a Carrara, e che essendo stato sopra di cio parlato a Michelagnolo, egli per esser amico del Marchese Alberigo, e’ntendersi con lui, voleva più tosto cavare dei carraresi che di quest’altri che erano nello stato di Firenze. Il Papa scrisse a Michelagnolo, commettendogli che dovesse andare a Pietra Santa, e veder se cosi era come da Firenze gliera stato scritto. Ilquale andato là, trovò marmi molto intrattabili e poco a proposito, e se ben fussero stati a proposito, era cosa difficile e di molta spesa a condurgli alla marina, percio che bisognava fare una strada di <parecchi> miglia per le montagne, per forza di picconi, e per il piano con palafitte, come quello che era paludoso. Il che scrivendo Michelagnolo al Papa, piu credette a quelli che da Firenze scritto gli avevano, che a lui, e gli ordinò che facesse la strada. Si che mandando ad essecutione la voluntà del Papa, fece fare la strada, e per questa alla marina condurre gran copia di marmi, tra li quali eran cinque colonne di giusta grandezza, una delle quali si vede in su la piazza di San Lorenzo, da lui fatta condurre a Firenze, l’altre quattro, per avere il Papa cangiata voluntà, e volto il pensiero altrove, per anchora in sulla marina se giaceno. Ma il Marchese di Carrara, stimando che Michelagnolo, per esser cittadin Fiorentino, fusse stato inventore di cavare a Pietra Santa, gli diventò nemico, ne di poi volse che a Carrara tornasse per certi marmi, che quivi aveva fatti cavare. Il che a Michelagnolo fu di gran danno. Or essend’egli tornato a Firenze, e avendo trovato come gia s’è detto, il fervore di Papa Lione al tutto spento, dolente, senza far cosa alcuna, lungamente se ne stette, avendo fin alhora, or in una cosa or in una altra, gittato via molto tempo, con suo gran dispiacere. Non di meno con certi marmi ch’egli avea, si pose in casa sua a seguitar la sepoltura. Ma essendo mancato Lione e creato Adriano vi fu sforzato un’altra volta ad intermetter l’opera, percioche lo incaricavano ch’egli aveva ricevuti da Giulio per tal opera ben sedici milia scudi, e non si curava di farla, standose in Firenze a’ suoi piaceri. Si che per questo rispetto essendo chiamato a Roma, il Cardinal de Medici, che poi fu Clemente vii e che alhora aveva il governo di Firenze in mano, non volse che andasse, e per tenerlo occupato, e aver qualche scusa, lo messe a fare il vaso della Libreria de Medici, in San Lorenzo, e insieme la sagrestia colle sepolture de<’> suoi antichi, promettendo di sodisfare al Papa per lui, e acconciar le cose. Cosi vivendo pochi mesi Adriano nel Papato, e succedendo Clemente, per un tempo della sepoltura di Giulio, non si fece parola. Ma essend’egli avvisato, chel Duca d’Urbino Francesco Maria, nipote della felice memoria di Papa Giulio, di lui grandemente si lamentava, e che aggiungeva ancho minaccie, se ne venne a Roma, dove conferendo la cosa con Papa Clemente, egli lo consigliò, che facesse chiamare gli agenti del Duca, a far conto seco, di tutto quello che aveva da Giulio riceuto, e di quel che per lui fatto aveva, sapendo che Michelagnolo, stimandosi le sue cose, resterebbe piu tosto creditore, che debitore. Stava Michelagnolo per questo di mala voglia, e ordinate alcune sue cose, se ne tornò a Firenze, massimamente dubitando della rovina, la qual poco da poi venne sopra Roma. In tanto la casa de Medici, fu cacciata di Firenze dalla parte contraria, per aver presa più autorità, di quel che sopporti una Città libera, e che si regga a Republica. E percioche la Signoria non dubitava chel Papa non dovesse fare ogni opera, per rimetterla, e aspettando certa guerra, voltò l’animo a fortificar la città. E sopra ciò fece Michelagnolo Commissario generale. Egli adunque preposto a tale impresa, oltre a molte altre provisioni da lui per tutta la città fatte, cinse il monte di San Miniato, che soprastà alla terra, e squopre intorno il paese. Del qual monte, sel nemico insignorito si fusse, non è dubbio che s’impatroniva anchora della Città. Fu adunque tale avedimento la salute della terra, e danno grandissimo del nemico, percioche essendo alto e elevato, come ho detto, molto molestava l’oste, massimamente dal campanile della chiesa, dove erano due pezzi d’artiglieria, che di continuo gran danno davano al campo di fuore. Michelagnolo anchor che tal provisione avesse fatta, non di meno per qualunque caso avenir potessi, se ne stava in quel monte. E essendo stato gia circa sei mesi, si cominciò tra i soldati della città, a mormorare di non so che tradimento: del quale Michelagnolo parte da se accortosi, parte avisato da certi Capitani suoi amici, sen’andò alla Signoria scoprendole cioche inteso e visto aveva, mostrando loro in che pericolo si trovasse la città: dicendo, che anchor erano a tempo a provedere, se volevano. Ma in luogo di rendergli gratia, gli fu detto villania, e ripreso come uomo timido, e troppo sospettoso. E colui che ciò gli rispose, arebbe fatto molto meglio a porgergli orecchi, per cioche entrata in Firenze la casa de Medici, gli fu tagliata la testa, onde forse saria vivo. Visto Michelagnolo che poca stima era fatto delle sue parole, e la certa rovina della città, col autorità che aveva, si fece aprire una porta, e uscì fuora con due de<’> suoi, e andossone a Vinegia. E certo il tradimento non era favola, ma chi lo maneggiava, giudicò che passerebbe con minore infamia, se alhora non si scoprendo, avesse col tempo fatto il medesimo effetto, col manchar solamente del debito suo, e impedir chi far l’avesse voluto. La partita di Michelagnolo, fu cagione in Firenze di gran romore, e egli cadde in gran contumacia di chi reggeva. Nondimeno fu richiamato con gran prieghi, e con raccomandargli la patria, e con dir che non volesse abandonar l’impresa, che aveva sopra di se tolta, e che le cose non erano a quello estremo, ch’egli s’era dato ad intendere, e molte altre cose, dalle quali, e dalla autorità de<’> personaggi che gli scrivevano, e principalmente dal amor della patria persuaso, riceuto un salvocondotto, per dieci giorni dal dì che arrivava in Firenze, se ne tornò, ma non senza pericolo della vita. Giunto in Firenze, la prima cosa che facesse, fu di far armare il Campanile di San Miniato, ilquale era per le continue percosse del’artiglieria nemica, tutto lacerato, e portava pericolo, che a lungo andare, non rovinasse, con gran disavantaggio di quei di dentro. Il modo d’armarlo fu questo, che pigliando un gran numero di materazzi ben pieni di lana, la notte con gagliarde corde giù gli calava, dalla sommità fin a<’> piè coprendo quella parte, che poteva essere battuta. E percioche i cornicioni della torre sporgevano in fuore, venivano i materazzi ad esser lontani dal muro principale del campanile, meglio di sei palmi, di maniera che le palle del’artiglieria venendo, parte per la lontanezza d’onde eran tratte, parte per lo obietto di questi materazzi, facevan nessuno o poco danno, non offendendo ancho i materazzi, percioche cedevano. Cosi mantenne quella torre tutto il tempo della guerra, che durò un’anno, senza che mai fusse offesa, e giovando grandemente per salvar la terra, e offendere i nemici. Ma essendo poi per accordo entrati i nemici dentro, e molti cittadini presi e uccisi, fu mandata la corte a casa di per pigliarlo, e furon le stanze e tutte le casse aperte, per in fin al camino, e<’>l necessario. Ma Michelagnolo temendo di quel che seguì, se n’era fuggito in casa d’un suo grande amico, dove molti giorni stando nascosto, non sapendo nessuno ch’egli in casa fusse, eccetto che l’amico, si salvò, percioche passato il furore, fu da Papa Clemente scritto a Firenze, che Michelagnolo fusse cercato, e commesso, che trovandosi, se voleva seguitar l’opera delle sepolture gia comminciate, fusse lasciato libero, e gli fusse usata cortesia. Il che intendendo Michelagnolo, uscì fuore, e se ben era stato intorno a quindici anni, che non aveva tocchi ferri, con tanto studio si messe a tale impresa, che in pochi mesi fece tutte quelle statue, che nella sagrestia di San Lorenzo si veggiono spinto piu dalla paura che dal’amore. E’ vero che nessuna di queste, ha a<v>uta l’ultima mano, però son condotte a tal grado, che molto bene si può veder l’eccellenza del artefice, ne il bozzo impedisce la perfettione e la bellezza del opera. Le sepolture son quattro poste in una sagrestia fatta per questo, nella parte sinistra della chiesa, al incontro della sagrestia vecchia. E avenga che di tutte fusse una intentione, e una forma, non dimeno le figure son tutte differenti, moti e atti. L’Arche son poste dentro a certe cappelle, sopra i coperchi delle quali, iaceno due figurone, maggiori del naturale, cioè un’omo e una donna, significandosi per queste il giorno e la notte, e per ambi due, il tempo che consuma il tutto. E per che tal suo proposito meglio fusse inteso, messe alla notte, che’è fatta in forma di donna di maravigliosa bellezza, la civetta, e altri segni accio accomodati, cosi al giorno le sue note. E per la significatione del tempo, voleva fare un topo, avendo lasciato in su l’opera un poco di marmo, il qual poi non fece, impedito, percioche tale an<i>maluccio di continuo rode e consuma, non altrimenti chel tempo, ogni cosa divora. Ci son poi altre statue che rappresentano quelli, per chi tai sepolture furon fatte, tutte in conclusione divine più che umane, ma sopra tutte una madonna col suo figliolino a cavalcioni sopra la coscia di lei, della quale giudico esser meglio tacere, che dirne poco, però me ne passo. Questo beneficio doviamo a Papa Clemente, ilquale se nessun’altra cosa di lodevole in vita fatta avesse, che pur ne fece molte, questa fu bastante a scancellare ogni suo difetto, che per lui il mondo ha cosi nobil’opera. E molto più gli doviamo, ch’egli non altrimenti ebbe rispetto nella presa di Firenze alla virtù di questo uomo, che avesse gia Marcello nel entrar di Siracusa, a quella de Archimede. Benche quella buona voluntà effetto non avesse, questo la Iddio gratia l’abbia avuto. Con tutto ciò Michelagnolo stava in grandissima paura, percioche il Duca Alessandro molto l’odiava, giovane come ognun sa, feroce e vendicativo. Ne è dubio che se non fusse stato il rispetto del Papa, che non se lo fusse levato dinanzi. Tanto più che volendo il Duca di Firenze, far quella fortezza che fece, e avendo fatto chiamar Michelagnolo per il Signor Alessandro Vitelli, che cavalcasse seco a veder dove comodamente si potesse fare, egli non volse andare, rispondendo che non aveva tal commessione da Papa Clemente. Del che molto si sdegnò il Duca. Si che e per questo nuovo rispetto, e per la vecchia malivolenza, e per la natura del Duca, meritamente aveva da stare in paura. E certamente fu dal Signore Iddio aiutato, che alla morte di Clemente, non si trovò in Firenze, percioche da quel Pontefice, prima ch’avesse le sepolture ben finite, fu chiamato a Roma, e da lui recevuto lietamente. Rispettò Clemente questo uomo, come cosa sacra, e con quella domestichezza ragionava seco, e di cose gravi e leggieri, che arebbe fatto con un suo pari. Cercò di scaricarlo della sepoltura di Giulio, accioche fermamente stesse in Firenze, e non solamente finisse le cose cominciate, ma ne facesse anchor del’altre non men degne. Ma prima ch’io di ciò più oltre ragioni, m’occorre scrivere d’un altro fatto di questo uomo, ch’io quasi per inavertenza in dietro aveva lasciato. Questo è che doppo la violente partita della casa de Medici di Firenze, dubitando la Signoria, come se è detto di sopra, di futura guerra, e disegnando di fortificar la città, anchor che conoscessino Michelagnolo di sommo ingegno, e a tale imprese attissimo, tuttavia per consiglio d’alcuni Cittadini, i quali favorivano alle cose de Medici, e volevano astutamente impedire o prolungare la fortificatione della città, lo volsono mandare a Ferrara, con questo colore, che considerasse il modo chel Duca Alfonso aveva tenuto, in munire e fortificare la sua città sapendo che sua Eccellenza in questo era peritissimo, e’n tutte l’altre cose prudentissimo. Il Duca con lietissimo volto ricevette Michelagnolo, si per la grandezza del uomo, si perche Don Ercole suo figliuolo, oggi Duca di quello Stato, era Capitano della Signoria di Firenze. E impersona seco, non fu cosa che sopra ciò fusse necessaria, ch’egli non gli mostrasse, tanto di bastioni, quanto d’artiglierie. Anzi gli aprì tutta la sua salvaroba, di sua mano mostrandogli ogni cosa, massimamente alcune opere di pittura, e ritratti dei suoi vecchi, di mano di maestri, secondo che dava quel età che furon fatti, eccellenti. Ma dovendosi Michelagnolo partire, il Duca motteggiando gli disse: Michelagnolo voi siate mio prigione. Se volete ch’io vi lasci libero, voglio che voi mi promettiate di farmi qualche cosa di vostra mano, come ben vi viene, sia quel che si voglia, scultura o pittura. Promesse Michelagnolo, e tornato a Firenze con tutto che nel munir la terra molto occupato fusse, tuttavia principiò un quadrone da sala, rappresentando il concubito del Cygno con Leda, e appresso il parto del uova, di che nacquer Castore e Poluce, secondo che nelle favole delli antichi scritto si legge. Il che sapendo il Duca, come sentì la casa de Medici essere entrata in Firenze, temendo in quei tumulti di non perdere un tal Tesoro, mandò subito là un de i suoi. Ilquale venuto a casa di Michelagnolo, visto il quadro disse: oh, questa è una poca cosa. E domandato da Michelagnolo che arte fusse la sua, sapendo, che ogniuno meglio di quel’arte giudica, ch’egli essercita, ghignando rispose: io son mercante. Forse stomachato d’un tal quesito, e di non essere stato conosciuto per Gentiluomo, e insieme sprezzando la industria de<’> Cittadini Fiorentini, i quali per maggior parte, son volti alle mercantie, come s’egli dicesse, tu m’adimandi che arte è la mia, crederest’tu mai ch’io fussi mercante? Michelagnolo che intese il parlare del Gentiluomo: voi farete<,> disse<,> mala mercantia per il Signor vostro, levatemivi dinanzi. Cosi licentiato il Ducal messo, di lì a poco tempo donò il quadro a un suo garzone, il quale avendo due sorelle da maritare, se gliera raccomandato. Fu mandato in Francia, e dal Re Francesco comprato, dove anchora è. Or per tornar’ là donde m’era partito, essendo Michelagnolo da Papa Clemente chiamato a Roma, quivi cominciò sopra la sepoltura di Giulio dalli agenti del Duca d’Urbino ad asser travagliato. Clemente che s’arebbe voluto di lui servire in Firenze, per tutte le vie cercava di liberarlo, e gli dette per suo procuratore un Messer Tomaso da Prato, che di poi fu Datario. Ma egli che sapeva la mala voluntà del Duca Alessandro verso di se, e molto ne temeva, e ancho portava amore e riverenza al’ossa di Papa Giulio, e alla Illustrissima casa della Rovora, faceva ogni opera per restare in Roma, e occuparsi circa alla sepoltura, tanto più ch’egli per tutto era incaricato, de aver recevuti da Papa Giulio come s’è detto per tale effetto, ben sedici mila scudi, e di godersegli senza fare quel ch’era ubligato: laqual infamia, non potendo sopportare, come quel ch’è tenero del onor suo, voleva, che la cosa si dichiarasse, non ricusando, anchor che fusse gia vecchio, e la impresa gravissima, di finir quel che aveva cominciato. Per questo venuti alle strette, non mostrando li aversari pagamenti che arrivassino a un pezzo a quella somma di che prima era il grido, anzi mancando piu di duoi terzi al intero pagamento del accordo fatto da prima con i doi Cardinali, Clemente stimando gli fusse porta un’occasion bellissima di sbrigarlo, e di poter liberamente servirsi di lui, chiamatolo gli disse: Orsù, dì che tu voi fare questa sepoltura, ma che vuoi sapere, chi t’ha del resto a pagare. Michelagnolo che sapeva la voluntà del Papa, che l’arebbe voluto occupare in servigio suo, rispose: e se si troverà chi mi paghi? A cui Papa Clemente: Tu sei ben matto, se tu ti dai ad intendere, che sia per farsi inanzi chi ti offerisca un quattrino. Cosi venendo in giudicio Messer Tomaso suo procuratore, facendo tal proposta alli agenti del Duca, si cominciorno l’un l’altro a riguardare in viso, e conclusero insieme, che almeno facesse una sepoltura per quel che aveva ricevuto. Michelagnolo parendogli la cosa condotta a bene, acconsentì volontieri, massimamente mosso dal autorità del Cardinale di Monte vecchio, creatura di Giulio II e Zio di GIULIO III al presente, la Iddio gratia, nostro Pontifice, ilqual in questo accordo s’interpose. L’accordo fu tale. Ch’egli facesse una sepoltura d’una facciata, e di que’ marmi si servisse ch’egli gia per la sepoltura quadrangola avea fatti lavorare, accomodandogli il meglio che si poteva. E cosi fusse ubligato a metterci sei statue di sua mano. Fu non di meno concesso a Papa Clemente ch’egli si potesse servir di Michelagnolo in Firenze o dove gli piacesse, quattro mesi del anno, ciò ricercando Sua Santità per le opere di Firenze. Tal fu il contratto che nacque tra l’eccellentia del Duca, e Michelagnolo. Ma qui s’ha da sapere, che essendo gia dichiarati tutti i conti, Michelagnolo per parere d’esser più ubligato al Duca d’Urbino, e dar manco fiducia a Papa Clemente di mandarlo a Firenze, dove per modo nessuno andar non volea, secretamente s’accordò col’ Oratore e agente di Sua Eccellentia, che si dicesse ch’egli aveva recevuti qualche migliaio di scudi di più, di quelli che veramente avesse avuti. Il che essendo fatto, non solamente a parole, ma senza sua saputa e consentimento, stato messo nel contratto, non quando fu rogato, ma quando fu scritto molto se ne turbò. Tuttavolta l’oratore lo persuase, che ciò non li sarebbe di pregiuditio, non importando che’l contratto specificasse più venti mila scudi, che mille, poi ch’erano d’accordo, che la sepoltura si riducesse secondo la quantità de’ danari ricevuti veramente, aggiungendo, che nessuno avea da ricercar queste cose, se non esso, e che di lui poteva star sicuro, per l’intelligenza ch’era tra loro. A che Michelagnolo si quietò, cosi perche li parve di potersene assicurare, come per che desiderava che questo colore li servisse col Papa, per l’effetto che s’è detto di sopra. E in questo modo passò la cosa per allhora, ma non ebbe però fine, percioche dopo ch’ebbe servito i quattro mesi a Fiorenza, tornatosene a Roma, il Papa cercò d’occuparlo in altro, e fargli dipingere la facciata della Cappella de Sisto. E come quello ch’era di buon giudicio, avendo sopra ciò più e più cose pensate, ultimamente si risolvè, a fargli fare il giorno del estremo giudicio, stimando per la varietà e grandezza della materia, dover dare campo a questo uomo, di far prova delle sue forze, quanto potessero. Michelagnolo che sapeva l’obligo ch’egli aveva col Duca d’Urbino, fuggì questa cosa quanto puote, ma poi che liberar non si poteva, mandava la cosa in lungo, e fingendo d’occuparsi, come faceva in parte, nel cartone, secretamente lavorava quelle statue, che dovevano andare nella sepoltura. In questo mezzo Papa Clemente manchò, e fu creato Paolo terzo, ilquale mandò per lui, e lo ricercò che stesse seco. Michelagnolo che dubitava di non essere impedito in tal opera, rispose non poter ciò fare, per essere egli ubligato per contratto al Duca d’Urbino, finche avesse finita l’opera che aveva per mano. Il Papa se ne turbò, e disse, egli son gia trenta anni, ch’io ho questa voglia, e ora che son Papa, non me la posso cavare? Dove è questo contratto? Io lo voglio stracciare. Michelagnolo vedendosi condotto a questo, fu quasi per partirsi di Roma, e andarsene in sul Genovese, ad una Badia del Vescovo d’Aleria, creatura di Giulio, e molto suo amico, e quivi dar fine alla sua opera, per essere luogo comodo a Carrara, e potendo facilmente condurre i marmi, per la oportunità del mare. Pensò ancho d’andarsene a Urbino, dove per avanti aveva disegnato d’abitare, come in luogo quieto e dove per la memoria di Giulio, sperava d’esser visto volontieri, e per questo alcuni mesi inanzi, aveva là mandato un suo, per comprare una casa, e qualche possessione, ma temendo la grandezza del Papa, come meritamente temer doveva, non si partì, e sperava con buone parole di sodisfare al Papa. Ma egli stando fermo in proposito, un giorno se ne venne a trovarlo a casa, accompagnato da otto o dieci Cardinali, e volse vedere il cartone, fatto sotto Clemente, per la facciata della Cappella di Sisto, le statue, ch’egli per la sepoltura aveva gia fatte, e minutamente ogni cosa. Dove il Reverendissimo Cardinale di Mantova, ch’era presente, vedendo quel Moise, di che gia s’è scritto e qui sotto piu copiosamente si scriverà disse: questa sola statua, è bastante a far onore alla sepoltura di Papa Giulio. Papa Paolo avendo visto ogni cosa, di nuovo l’affrontò, che andasse a star seco, presenti molti Cardinali e’l gia detto Reverendissimo e Illustrissimo di Mantova. E trovando Michelagnolo star duro: io farò (disse) chel Duca d’Urbino si contenterà di tre statue di tua mano, e che le altre tre che restano, si dieno a fare ad altri. In questo modo procurò con gli agenti del Duca, che nascesse nuovo contratto, confermato dal Eccellentia del Duca, ilqual non volse in cio dispiacere al Papa. Cosi Michelagnolo, anchor che potesse fuggire di pagare le tre statue, disobligato per vigore di tal contratto, nondimeno volse far la spesa egli, e depose per queste e per il restante della sepoltura, ducati mille cinquecento ottanta. Cosi li agenti di sua Eccellentia le dettero a fare, e la tragedia della sepoltura, e la sepoltura ebber fine, la quale oggi si vede in San Piero ad Vincula, non secondo il primo disegno di facciate quattro, ma d’una, e delle minori, non istaccata intorno, ma appoggiata ad un parete, per gli impedimenti detti di sopra. E’ vero che cosi come ella è rattoppata e rifatta, è però la piu degna che in Roma e forse altrove si trovi, se non per altro, almeno per le tre statue che vi sono di mano del maestro, tra lequali maravigliosa è quella di Moise, duce e Capitano degli Ebrei, ilquale se ne sta a sedere, in atto di pensoso e savio, tenendo sotto il braccio destro le tavole della legge, e con la sinistra mano sostenendosi il mento, come persona stanca e piena di cure, tra le dita della qual mano escon fuore certe lunghe liste di barba, cosa a veder molto bella. E’ la faccia piena di vivacità e di spirito, e accomodata ad indurre amore insieme e terrore, qual forse fu il vero. Ha secondo che descriver si suole, le due corna in capo, poco lontane dalla sommità della fronte. E’ togato e calzato e colle braccia igniude, e ogni altra cosa al’anticha. Opera maravigliosa e piena d’arte, ma molto più, che sotto cosi belli panni di che è coperto, appar tutto lo igniudo, non togliendo il vestito l’aspetto della bellezza del corpo. Il che però si vede universalmente in tutte le figure vestite, di pittura e scoltura, da lui essere osservato. E’ questa statua di grandezza meglio di due volte al naturale. Dalla destra di questa sotto un nicchio, è l’altra che rappresenta la vita contemplativa, una donna di statura più chel naturale, ma di bellezza rara, con un ginocchio piegato non in terra ma sopra d’un zoccolo, col volto e con ambe le mani levate al cielo, si che pare che in ogni sua parte spiri amore. Dal’altro canto cioè dalla sinistra del Moise, è la vita attiva, con uno specchio nella destra mano, nel quale attentamente si contempla, significando per questo, le nostre attioni, dover esser fatte consideratamente, e nella sinistra con una ghirlanda di fiori. Nel che Michelagnolo ha seguitato Dante, del quale è sempre stato studioso, che nel suo purgatorio, finge aver trovata la Contessa Matilda, qual egli piglia per la vita attiva, in un prato di fiori. Il tutto della sepoltura non è se non bello, e principalmente il legar delle parti sue insieme, per mezzo del corniciame, al qual non si può apporre. Or questo basti quanto a quest’opera, il che dubito ancho che non sia stato pur troppo, e che in luogo di piacere non abbia porto tedio, a chi l’a<v>rà letto. Non dimeno m’è parso necessario per istirpare quella sinistra e falsa openione che era nelle menti delli uomini radicata, ch’egli avesse ricevuti sedici mila scudi, e non volesse fare quel che era ubligato di fare. Ne l’un ne l’altro fu vero, percioche da Giulio per la sepoltura non recevette se non quei mille ducati, che egli spese in tanti mesi in cavar marmi a Carrara. E come potette di poi aver da lui danari, se mutò proposito, ne volse piu parlare di sepoltura? Di quelli che doppo la morte di Papa Giulio, da i due Cardinali essecutori del testamento ricevette, n’ha appresso di se publica fede, per mano di Notaio, mandatagli da Bernardo Bini Cittadin Fiorentino, il qual era depositario, e pagava il denaio. I quali montavano forse a tre mila ducati. Con tutto ciò, non fu mai uomo piu pronto ad alcuna sua opera, quant’egli a questa, si per che conosceva quanta riputatione gli fusse per arrecare, si per la memoria che sempre ha ritenuta di quella benedetta anima di Papa Giulio, per la quale, ha sempre onorata e amata la casa della Rovora, e principalmente i Duchi d’Urbino, per i quali ha presa la pugna contra due Pontefici, come s’è detto che lo volevan torre da tale impresa: e questo è quel di che Michelagnolo si duole, che in luogo di gratia, che se gli veniva, n’abbia riportato odio e acquistata infamia. Ma tornando a Papa Paolo, dico che doppo l’ultimo accordo fatto tra l’eccellenza del Duca e Michelagnolo, pigliandolo al suo servitio, volse che mettesse ad essecutione quel ch’egli gia aveva cominciato al tempo di Clemente, e gli fece dipignere la facciata della Cappella di Sisto, laqual egli aveva gia arricciata e serrata con assiti da terra in fin alla volta. Nella qual opera, per esser stata inventione di Papa Clemente, e al tempo di lui aver avuto principio, non pose l’arme di Paolo, con tutto chel’ Papa ne lo avesse ricercato. Portava Papa Paolo tanto amore e riverenza a Michelagnolo, che anchor ch’egli ciò desiderasse, non però mai gli volse dispiacere. In quest’opera, Michelagnolo espresse, tutto quel che d’un corpo umano può far l’arte della pittura, non lasciando in dietro atto o moto alcuno. La composition della storia è prudente e ben pensata, ma lunga a descriverla, e forse non necessaria, essendone stati stampati tanti e cosi vari ritratti, e mandati per tutto. Nondimeno per chi, o la vera veduta non avesse, o a cui mani il ritratto pervenuto non fusse, brevemente diremo, chel tutto essendo diviso in parte destra e sinistra, superiore e inferiore, e di mezo, nella parte di mezo del aria, vicini alla terra, sono li sette Agnoli scritti da san Giovanni nel Apocalipse, che colle trombe a bocca, chiamano i morti al giuditio dalle quattro parti del mondo, tra i quali ne son due altri con libro aperto in mano, nel quale ciascheduno leggendo, e riconoscendo la passata vita, abbia quasi da se stesso a giudicarsi. Al suono di queste trombe, si vedeno in terra aprire i monumenti, e uscir fuore l’umana spetie, in varii e maravigliosi gesti, mentre che alcuni, secondo la prophezia di Ezechiel, solamente l’ossatura hanno riunita insieme, alcuni di carne mezza vestita, altri tutta. Chi igniudo, chi vestito di que’ panni o lenzuola, in che portato alla fossa, fu involto, e di quelle cercar di svilupparsi. In questi alcuni ci sono, che per anchora non paiano ben ben desti, e riguardando al cielo, stanno quasi dubbiosi, dove la divina giustitia gli chiami. Qui è dilettevol cosa, a vedere alcuni con fatica e sforzo, uscir fuor della terra, e chi colle braccia tese, al cielo pigliare il volo, chi di già averlo preso, elevati in aria, chi più chi meno, in vari gesti e modi. Sopra li Angioli delle trombe, è il figliuol de Iddio in maiestà, col braccio e potente destra elevata, in guisa d’uomo che irato maledica i rei, e li scacci dalla faccia sua al fuoco eterno, e colla sinistra distesa alla parte destra, par che dolcemente raccolga i buoni. Per la cui sentenza si veggiono li Angeli, tra cielo e terra, come essecutori della divina sentenza, nella destra correre in aiuto delli eletti, a cui dalli maligni spiriti fusse impedito il volo, e nella sinistra per ributtare a terra i reprobi, che gia per sua audacia si fussino inalzati; iquali però reprobi, da maligni spiriti sono in giù ritirati i superbi per i capegli, i lussoriosi per le parte vergognose, e consequentemente ogni vitioso per quella parte in che peccò. Sotto a i quali reprobi si vede Caronte colla sua navicella, tal quale lo descrive Dante nel suo inferno, nella palude d’Acheronte, ilqual alza il remo per battere qualunche anima lenta si dimostrasse; e giunta la barcha alla ripa si veggion tutte quel’anime, della barcha a gara gittarsi fuora, spronate dalla divina giustitia, si che la tema, come dice il poeta, si volge in desio. Poi recevuta da Minos la sentenza, esser tirate da maligni spiriti, al cupo inferno, dove si veggiono maravigliosi atti di gravi e disperati affetti, quali ricerca il luogo. Intorno al figliuol de Iddio nelle nube del cielo, nella parte di mezzo, fanno cerchio o corona i beati già resuscitati, ma separata e prossima al figliuolo la madre sua, timorosetta in sembiante, e quasi non bene assicurata del ira e secreto de Iddio, trarsi quanto più può sotto il figliuolo. Doppo lei il Battista e li dodici Apostoli, e santi e sante de Iddio, ciascheduno mostrando al tremendo giudice, quella cosa, per mezzo della quale, mentre confessa il suo nome, fu di vita privo. Santo Andrea la croce, santo Bartholomeo la pelle, san Lorenzo la graticola, san Bastiano le frecce, san Biagio i pettini di ferro, santa Chaterina la ruota, e altri altre cose, per lequali da noi possin’ esser conosciuti. Sopra questi al destro e sinistro lato, nella superior parte della facciata, si veggion gruppi d’agnoletti, in atti vaghi e rari, appresentare in cielo la croce del figliuolo de Iddio, la spugna, la corona de spine, i chiodi e la colonna dove fu flagellato, per rinfacciare a i rei i benefici de Iddio, de<’> quali sieno stati ingratissimi e sconoscenti, e confortare e dar fiducia a’ buoni. Infiniti particulari ci sono, i quali con silentio mi passo. Basta che oltre alla divina composition della storia, si vede rappresentato tutto quel che d’un corpo umano possa far la natura. Ultimamente, avendo Papa Paolo fabricata una cappella, in quel medesimo piano ch’è quella di Sisto gia detta, volse ornarla delle memorie di questo uomo, e gli fece dipigner doi quadroni, nelle parete de<’> fianchi, in un de<’> quali si rappresenta la istoria di San Paolo, quando fu con la presentia di Giesu Christo convertito<,> nel altro la crocifissione di San Piero, ambidue stupendi, si universalmente nella storia, si in particulare in ogni figura. E questa è l’ultima opera, che fin a questo giorno di lui s’è vista di pittura, laqual finì essendo d’anni settantacinque. Ora ha per le mani un’opera di marmo, qual egli fa a suo diletto, come quello che pieno di concetti, è forza che ogni giorno ne partorisca qualch’uno. Quest’è un groppo di quattro figure piu che al naturale, cioè un Christo deposto di croce, sostenuto cosi morto dalla sua madre. Laquale si vede sott’entrare a quel corpo, col petto, colle braccia e col ginocchio in mirabil’atto, ma però aiutata di sopra da Nicodemo che ritto e fermo in su le gambe, lo sollieva sotto le braccia, mostrando forza gagliarda, e da una delle Marie della parte sinistra. La quale anchor che molto dolente si dimostri, non dimeno non mancha di far quel uffitio, che la madre per lo estremo dolore prestar non può. Il Christo abandonato casca, con tutte le membra relassate, ma in atto molto differente, e da quel che Michelagnolo fece per la Marchesana di Pescara, e da quel della Madonna della febre. Saria cosa impossibele narrare la bellezza, e gli affetti che ne<’> dolenti e mesti volti si veggiono, si di tutti li altri, si dell’affannata madre, però questo basti; vo’ ben dire, ch’è cosa rara, e delle faticose opere, ch’egli fin a qui abbia fatte, massimamente perche tutte le figure distintamente si vegghono, ne i panni del una, si confondino co i panni del altre. Ha fatte Michelagnolo infinite altre cose, che da me dette non sono, come il Christo ch’è nella Minerva, un san Matheo in Firenze, il qual cominciò, volendo far dodici Apostoli, quali dovevano andare dentro a’ dodici pilastri del duomo, cartoni per diverse opere di pittura, disegni di fabriche publiche e private, infiniti, e ultimamente d’un ponte, che andava sopra del canal grande di Vinegia, di nuova forma e maniera, e non più vista, e molte altre cose, lequali non si veggiono e saria lungo a scriverle però qui faccio fine. Fa disegno di donar questa pietà a qualche chiesa, e a’ piè del’altare ove sia posta, farsi seppellire. Il Signore Iddio per sua bontà lungamente cel conservi, percioche non dubito, che non sia per esser quel medesimo dì, fine della vita sua, e delle fatiche, il che de Isocrate si scrive. Che anchora molti anni sia per vivere me ne dà ferma speranza, si la vivace e robusta vecchiezza sua, si la lunga vita del padre, ilqual senza sentir che cosa fusse febre arrivò alli novantadue anni, piu tosto per risolutione manchando, che per malattia, di modo che cosi morto, secondo che referisce Michelagnolo, riteneva quel medesimo colore in volto, che aveva vivendo, parendo piu tosto adormentato che morto. E’ stato Michelagnolo, fin da fanciullo uomo di molta fatica, e al dono della natura, ha aggiunta la dottrina, la qual egli, non dal’altrui fatiche e industrie, ma dalla stessa natura, ha voluto apprendere, mettendosi quella inanzi come vero esempio. Percioche non è animale di che egli notomia non abbia voluto fare, del uomo tante, che quelli che in ciò tutta la sua vita hanno spesa, e ne fan professione, appena altro tanto ne sanno, parlo della cognitione che al’arte della pittura e scoltura è necessaria, non del’altre minutie che osservano i notomisti. E che cosi sia, lo mostran le sue figure, nelle quali tant’arte e dottrina si ritruova, che quasi sono inimmitabili, da qual si voglia pittore. Io ho sempre avuta questa opinione, che gli sforzi e conati della natura, abbino un prescritto termine, posto e ordinato da Dio, ilqual trapassare non si possa da virtù ordinaria, e ciò esser vero non solamente nella pittura e scoltura ma universalmente in tutte l’arti e scientie; e che ella tal suo sforzo facci in uno, ilquale abbi ad essere essempio e norma, in quella facultà, dandogli il primo luogo, di maniera che chi da poi in tal arte vuol partorir qualche cosa degna d’essere o letta o vista, sia di bisogno che o sia quel medesimo, ch’è gia stato da quel primo partorito, o almeno simile a quello, e vadia per quella via, o non andando, sia tanto più inferiore, quanto più dalla via retta si dilunga. Doppo Platone e Aristotele, quanti Philosophi abbiamo visti, che non seguitando quelli, siano stati in pregio? Quanti Oratori doppo Demostene e Cicerone? Quanti Mathematici doppo Euclide e Archimede? Quanti Medici doppo Ippocrate e Galeno, o Poeti doppo Omero e Vergilio? E se pur qualch’uno ce n’è stato, che in una di queste scientie affaticato se sia, e sia stato subietto attissimo di poter da se arrivare al primo luogo, non dimeno costui, per averlo gia trovato occupato, e per non essere altro il perfetto che quello, che i primi per avanti hanno mostrato, o ha lasciata la impresa, o avendo giuditio, s’è dato al’imitatione di que’ primi, come Idea del perfetto. Quest’oggidì s’è visto nel Bembo, nel Sanazaro, nel Caro, nel Guidoccione, nella Marchesana di Pescara e in altri scrittori e amatori delle Toscane rime, iquali come che sieno stati di sommo e singulare ingegno, nondimeno non potendo da se partorir meglio, di quel che nel Petrarca la natura ha mostrato, si son dati ad imitar lui ma si felicemente, che sono stati giudicati degni d’esser letti, e contati tra buoni. Or per concluder questa mia diceria, dico che a me pare, che nella pittura e scoltura, la natura a Michelagnolo sia stata larga e liberale di tutte le sue ricchezze: si che non son da esser ripreso, se ho detto le sue figure, esser quasi inimmitabili. Ne mi pare in ciò d’avermi lasciato troppo trasportare, percioche, lasciando andare ch’è stato solo fin qui, che allo scarpello, e al pennello insieme degnamente abbia posto mano, e che oggi delli antichi nella pittura, non resti memoria alcuna, nella statuaria, che pur molte ce ne restano, a chi cede egli? Per giuditio delli omini de l’arte, certamente a nessuno, se gia non ce ne andiamo dietro al openion’ del volgo, che senza altro giudicio, ammira l’antichità, invidiando alli ingegni e industria de<’> suoi tempi. Benche, non sento per anchora chi il contrario dica: di tanto questo uomo ha superata la invidia. Raffael da Urbino quantunque volesse concorrer con Michelagnolo, píù volte ebbe a dire, che ringratiava Iddio, d’esser nato al suo tempo, avendo ritratta da lui altra maniera di quella, che dal padre che dipintor fu, e dal Perugino suo maestro avea imparata. Ma che segno maggiore e più chiaro può mai essere della eccellenza di questo uomo, che la contentione c’han fatta i Principi del mondo per averlo? Che oltre alli quattro Pontefici Giulio, Lione, Clemente e Paolo, fin’al gran Turco, padre di questo che oggi tiene lo Imperio, come di sopra ho detto li mandò certi religiosi di san Francesco con sue lettere a pregarlo che dovesse andare a star seco, ordinando per lettere di cambio, non solamente che in Firenze dal banco de<’> Gondi, gli fusse sborsata quella quantità di danari ch’egli volessi per suo viatico, ma anchora che passato a Cossa, terra vicina a Ragusia, fusse quindi accompagnato fin a Constantinopoli, da un’ de<’> suoi grandi, onoratissimamente. Francesco Valesio Re di Francia, lo ricercò per molti mezzi, facendogli contare in Roma, ogni volta che volesse andare, tre milia scudi per suo viatico. Dalla Signoria di Vinegia fu a Roma mandato il Brucciolo, a invitarlo ad abitare in quella Città, e offerir provisione di scudi secento l’anno, non lo ubligando a cosa alcuna, ma solamente per che con la persona sua onorasse quella Republica, con conditione, che s’egli in suo servigio facesse cosa niuna, di tutto fusse pagato, come se da loro provisione alcuna non avesse. Queste non son cose ordinarie, e che ogni dì accaggino, ma nuove e fuor del commune uso, ne sogliono avenire, se non in virtù singulare e eccellentissima, qual fu quella de Omero, del quale molte Città contesero, ogniuna di quelle usurpandoselo, e facendolo suo. Ne in minor conto di tutti i gia nominati l’ha tenuto e tiene il presente Pontefice Giulio Terzo Prencipe di sommo giuditio e amatore e fautore universalmente di tutte le virtù, ma in particolare alla Pittura, Scoltura e Architettura inclinatissimo come si puo cognoscer chiaramente da l’opere che sua Santità ha fatte fare in Palazzo e’n Belvedere e ora fa fare alla sua villa Giulia<,> memoria e impresa degna d’un’animo alto e generoso qual’è il suo<,> <che> di tante statue antiche e moderne e di si gran varietà di bellissime pietre e di pretiose colonne, di stucchi, di scolture e d’ogni altra sorte d’ornamenti è ripiena; dellaquale mi riserbo a scriverne un’altra volta come quella che ricerca particolar opera e che per anchora non ha la sua perfettione. Non s’è servito di Michelangelo in farlo lavorare avendo rispetto all’età in che si trova. Conosce bene e gusta la grandezza sua ma si risparmia aggravarlo piu di quel ch’egli si voglia, ilquale rispetto a mio giuditio arreca a Michelangelo piu riputatione che qualunche occupatione in che l’han tenuti l’altri Pontefici. E’ vero che nel’opere di pittura e architettura che di continuo sua Santità fa fare quasi sempre ricerca il parere e giuditio suo, mandando bene spesso gli artefici a trovarlo infin a casa. Mi duole e ne duole ancho a sua Santità che egli per una certa sua natural’ timidezza, o vogliam dire rispetto o riverenza, laquale alcuni chiamano superbia, non si serva della benevolenza, bontà e liberal natura d’un tanto Pontefice e tanto suo, ilquale secondo che prima ho inteso dal Reverendo Monsignor di Forlì suo mastro di Camera, piu volte ha avuto a dire, che volentieri (se possibil’ fusse) si leverebbe de i suoi anni e del proprio sangue per aggiongerli alla vita di lui, perche il mondo non fusse cosi presto privo d’un tale uomo. Ilche, avendo anch’io avuto accesso a sua Santità, ho con le mie orecchie dalla sua bocca inteso; e piu che s’a lui sopravive, come par che ricerchi il natural corso della vita, lo vuol fare inbalsamare e averlo appresso di se, accio l’ossa sieno perpetue come son le opere, laqual cosa ancho nel principio del suo Ponteficato a esso Michelagnolo disse, essendo molti presenti. Dellequali parole non so qual cosa possa esser piu onorevole a Michelagnolo, e maggior segno del conto che sua Santità fa di lui. Lo dimostrò anchora manifestamente, quando morto Papa Paolo e lui creato Pontefice, in concistoro presenti tutti i Cardinali che allhora si ritrovavano in Roma, lo difese e prese sua protettione contra i soprastanti della fabrica di san Piero, iquali, non per colpa di lui, secondo che dicevano, ma di suoi ministri, lo volevano privare di quella autorità, che da Papa Paolo per un moto proprio, delquale poco piu di sotto si dirà, gli fu data, o almeno ristringerla; e in modo lo difese che non solamente gli confirmò il motu proprio, ma l’onorò di molte degne parole, non porgendo piu orecchie ne alle querele de i soprastanti ne d’altri. Conosce Michelagnolo (come piu volte m’ha detto) l’amore e benevolenza di sua Beatitudine verso di se, e cosi il rispetto che gli ha, e perche non può colla sua servitù renderle il cambio, e mostrar di conoscerla, il restante della vita gli è men grato, come quello che gli pare d’esser’inutile e sconoscente a sua Santità. Una cosa (come egli suol dire) alquanto lo conforta, che sapendo quanto la Santità sua sia discreta, spera per questo dover esser scusato appo di lei, e che sia accettata la sua buona volontà non potendo dar’altro. Ne per questo quanto le sue forze si stendano, e in quel ch’egli vale, ricusa, non che altro in servigio di lei, metter la vita, e questo ho dalla sua bocca. Fece non dimeno Michelagnolo a requisitione di sua Santità un disegno d’una facciata d’un Palazzo, ilquale avea animo di fabricare in Roma: cosa per chi lo vedde inusitata e nuova, non ubbligata a maniera o legge alcuna antica over moderna. Ilche ha fatto ancho in molte altre sue cose in Fiorenza e in Roma, mostrando l’Architettura non esser stata cosi dalli passati assolutamente trattata, che non sia luogo a nuova inventione non men vaga e men bella. Or per tornare alla notomia, lasciò il tagliar de<’> corpi, conciosia che il lungo maneggiargli di maniera gli aveva stemperato lo stomacho, che non poteva ne mangiar ne bere, che pro li facesse. E<’> ben vero, che di tal facultà, cosi dotto e ricco si partì, che più volte ha avuto in animo, in servigio di quelli che voglion dare opera alla scoltura e pittura, far un’opera, che tratti di tutte le maniere dei moti umani, e apparenze e de l’ossa, con una ingegnosa theorica, per lungo uso da lui ritrovata, e l’arebbe fatta, se non si fusse diffidato delle forze sue, e di non bastare a trattar con dignità e ornato, una tal cosa, come farebbe uno nelle scientie e nel dire essercitato. So ben che quando legge Alberto Duro, gli par cosa molto debole, vedendo col’animo suo, quanto questo suo concetto fusse per esser più bello e piu utile in tal facultà. E a dire il vero, Alberto non tratta se non delle misure e varietà dei corpi, di che certa regula dar non si può, formando le figure ritte come pali; quel che piu importava, de gliatti e gesti umani, non ne dice parola. E perche oggimai è d’età grave e matura, ne pensa di poter in scritto mostrare al mondo questa sua fantasia, egli con grande amore minutissimamente m’ha ogni cosa aperto, il che ancho cominciò a conferire con messer Realdo Colombo notomista e medico cerusico eccellentissimo e amicissimo di Michelagnolo e mio, ilquale per tale effetto gli mandò un corpo morto d’un moro giovane bellissimo, e quanto dir si possa dispostissimo, e fu posto in Santa Agata dove io abitava e anchor abito, come in luogo remoto; sopra ilqual corpo Michelagnolo molte cose rare e recondite mi mostrò, forse non mai più intese, le quali io tutte notai, e un giorno spero, col aiuto di qualche uomo dotto dar fuore, a comodità e utile di tutti quelli, che alla pittura o scoltura voglion dare opera. Ma di questo basti. Si dette alla perspettiva e all’Architettura, nellequali quanto profitto facesse, lo dimostrano le sue opere. Ne s’è contentato Michelagnolo solamente della cognitione delle parti principali del Architettura, che ha voluto etiamdio saper tutto quello, ch’a tale professione per qualunche modo servisse. Come di far lacci, ponti over palchi e simili cose, nelle quali tanto valse, quanto forse quelli che d’altro profession non fanno. Il che si conobbe al tempo di Giulio II per cotal via. Dovendo Michelagnolo dipignere la volta della cappella di Sisto, il Papa ordinò a Bramante che facesse il ponte. Egli con tutto che fusse quel Architettore, ch’egli era, non sapendo come se lo fare, in più luoghi pertusò la volta, calando per quelli cert<i> canapi che tenessino il ponte. Ciò vedendo Michelagnolo se ne rise, e domandò Bramante, come arebbe da fare, quando venisse a que’ pertusi. Bramante che difension non aveva, altro non rispose, se non che non si poteva fare altrimenti. La cosa andò inanzi al Papa, e replicando Bramante quel medesimo, il Papa voltato a Michelagnolo: poi che questo non è a proposito, va<,> disse, e fattelo da te. Disfece Michelagnolo il ponte, e ne cavò tanti canapi, che avendogli donati a un pover uomo che l’aiutò, fu cagione ch’egli ne maritasse due sue figliuole. Cosi fece senza corde il suo cosi ben tessuto e composto, che sempre era più fermo quanto maggior peso aveva. Cio fu cagione, d’aprir gliocchi a Bramante e di imparar il modo di far un ponte. Il che poi nella fabrica di San Piero molto gli giovò. E con tutto ciò che Michelagnolo in tutte queste cose non avesse pari, nondimeno non volse mai far professione d’architettore. Anzi ultimamente morto Antonio da San Gallo, Architetto della fabrica di San Piero, volendo Papa Paolo metterlo in luogo suo, egli molto il ricusò, allegando che non era sua arte, e cosi il ricusò, che bisognò che’l Papa gliene comandasse, facendogli un moto proprio amplissimo, qual di poi gli fu confermato da Papa Giulio III al presente, come ho detto, la Iddio gratia nostro Pontefice. Per questo suo servitio Michelagnolo non ha mai voluto cosa alcuna, e cosi volse che fusse dichiarato nel motu proprio. Si che mandandogli un giorno Papa Paulo cento scudi d’oro, per Messer Pier Giovanni all’ora salvarobba di sua Santità ora Vescovo di Furlì, come quelli che avessino ad essere la sua provisione d’un mese per conto della Fabrica, egli non gli volse accettare, dicendo che questo non era il patto che avevano insieme, e gli rimandò in dietro. Del che Papa Paolo si sdegnò, secondo che m’ha detto anchora Messer Alessandro Ruffini Gentilhuomo Romano camerier e scalcho allhora di sua Santità. Non per sto mosse Michelagnolo del suo proposito. Poi che ebbe accettato questo carico, fece nuovo modello, si per che certe parti del vecchio per molti rispetti, non gli piacevano, si per essere impresa, che prima si potesse sperare di veder l’ultimo giorno del mondo, che San Piero finito. Ilquale modello lodato e approbato dal Pontefice, al presente si seguita, con molta sodisfatione di quelle persone, che hanno giuditio, se ben son certi che non l’approvino. Si dette adunque Michelagnolo essendo giovane, non solamente alla scoltura e pittura, ma anchora a tutte quelle facultà, che sono, o appertenenti o, adherenti con queste, e ciò con tanto studio fece che per un tempo, poco meno che non s’alienò al tutto dal consortio delli uomeni, non praticando eccetto che con pochissimi. Onde ne fu tenuto da chi superbo, e da chi bizzarro e fantastico, non avendo ne l’uno ne l’altro vitio, ma (come a molti eccellenti uomini è avvenuto) l’amore della virtù e la continua essercitatione di lei, lo facevan solitario, e cosi dilettarsi e appagarsi in quella, che le compagnie non solamente non gli davan contento, ma gli porgevan dispiacere, come quelle che lo sviavano dalla meditatione sua, non essend’egli mai (come di se solea dir quel grande Scipione) men solo che quando era solo. Ha però volentieri tenuta l’amicitia di coloro, dal cui virtuoso e dotto ragionamento, potesse trar qualche frutto, e in cui rilucesse qualche raggio d’eccellenza, come del Reverendissimo e Illustrissimo Monsignor Polo, per le sue rare virtù e bontà singulare, similmente del Reverendissimo patron mio il Cardinal Crispo per trovare in lui oltre alle molte buone qualità, un raro e eccellente giudicio. E’ ancho molto affettionato al Reverendissimo Cardinal’ Santa Croce, uomo gravissimo e prudentissimo, del quale più volte l’ho sentito parlare onoratissimamente, e del Reverendissimo Maffei, la cui bontà e dottrina ha sempre predicata. E universalmente ama e onora tutte le creature di casa Farnese, per la viva memoria che tiene di Papa Paolo, con somma riverenza ricordato, e buono e santo vecchio nominato continuamente da lui, e cosi al Reverendo Patriarcha di Hierusalem gia Vescovo di Cesena, col qual egli più tempo ha praticato con molta domestichezza, come quello a cui molto piace una cosi candida e liberal natura. Aveva anchor stretta amicitia col mio Reverendo padrone il Cardinal Ridolfi buona memoria, porto di tutti i virtuosi. Sonci alcuni altri i quali io lascio in dietro per non esser prolisso come Monsignor Claudio Tolomei, Messer Lorenzo Ridolfi, Messer Donato Giannotti, Messer Lionardo Malespini, il Lottino, Messer Tomasso del Cavaliere, e altri onorati gentilhuomini, ne i quali più a lungo non mi stendo; ultimamente s’è fatto molto affettionato di Anibal Caro, del quale m’ha detto che si duole di non averlo prima praticato, avendolo trovato molto a suo gusto; in particulare amò grandemente la Marchesana di Peschara, del cui divino spirito era inamorato, essendo al incontro da lei amato sviceratamente; della quale anchor tiene molte lettere, d’onesto e dolcissimo amore ripiene, e quali di tal petto uscir solevano, avendo egli altresì scritto a lei piu e piu sonetti, pieni d’ingegno e dolce desiderio. Ella più volte si mosse da Viterbo, e d’altri luoghi, dove fusse andata per di porto e per passare l’astate, e a Roma se ne venne, non mossa da altra cagione se non di veder Michelagnolo, e egli al incontro tanto amor le portava, che mi ricorda di sentirlo dire, che d’altro non si doleva se non che quando l’andò a vedere nel passar di questa vita, non cosi le basciò la fronte o la faccia, come basciò la mano. Per la costei morte, più tempo se ne stette sbigotito, e come insensato. Fece a requisitione di questa signora un Christo ignudo, quando è tolto di croce, il quale come corpo morto abandonato, cascherebbe a’ piedi della sua santissima Madre, se da due Agnioletti non fusse sostenuto a braccia. Ma ella sotto la croce stando a sedere con volto lacrimoso e dolente, alza al cielo ambe le mani a braccia aperte, con un cotal detto, che nel troncon della croce scritto si legge: non vi si pensa, quanto sangue costa. La croce è simile a quella che da i Bianchi nel tempo della moria del trecento quarant’otto, era portata in processione, che poi fu posta nella chiesa di Santa Croce di Firenze. Fece ancho per amor di lei, un disegno d’un Giesu Christo in croce, non in sembianza di morto, come communemente s’usa, ma in atto di vivo, col volto levato al padre, e par che dica<:> Heli heli; dove si vede quel corpo non come morto abandonato cascare, ma come vivo, per l’acerbo supplitio risentirsi, e scontorcersi. E si come s’è molto dilettato de<’> ragionamenti de gli uomini dotti, cosi ha preso piacere della lettione de gli scrittori tanto di prosa, quanto di versi, tra i quali ha specialmente ammirato Dante, dilettato del mirabil ingegno di quel uomo, qual egli ha quasi tutto a mente, avenga che non men forse tenga del Petrarca, e non solamente s’ è dilettato di legerli, ma di comporre ancho tal volta, come si vede per alcuni sonetti, che si trovano de’ suoi, che danno bonissimo saggio, de la grande inventione e giuditio suo<,> e sopra alcuni d’essi son fuora certi discorsi e considerationi del Varchi. Ma a questo ha atteso più per suo diletto, che perche egli ne faccia professione, sempre se stesso abbassando, e accusando in queste cose la ignoranza sua. Ha similmente con grande studio e attentione lette le sacre scritture, si del testamento vecchio come del nuovo, e chi sopra di cio s’è affaticato, come gli scritti del Savonarola, al qual egli ha sempre avuta grande affettione, restandogli anchor nella mente la memoria della sua viva voce. Ha etiamdio amata la bellezza del corpo, come quello che ottimamente la conosce, e di tal guisa amata, che appo certi uomini carnali e che non sanno intendere amor di bellezza se non lascivo e dishonesto, ha porto cagione di pensare e di dir male di lui, come se Alcibiade giovane formosissimo, non fusse stato da Socrate castissimamente amato<,> dal cui lato, quando seco si posava, soleva dire non altrimenti levarsi, che dal lato del suo padre. Io piu volte ho sentito Michelagnolo ragionar e discorrer sopra l’amore, e udito poi da quelli che si trovaron presenti, lui non altrimenti del amor parlare, di quelche appresso di Platone scritto si legge. Io per me non so quelche Platone sopra ciò si dica, so bene, che avend’io cosi lungamente e intrinsicamente praticatolo, non sentì mai uscir di quella bocca se non parole onestissime, e che avevan forza d’estinguere nella gioventù, ogni incomposto e sfrenato desiderio, che in lei potesse cascare. E che in lui non nascessin laidi pensieri, si può da questo ancho cognoscere, ch<’>egli non solamente ha amata la bellezza umana, ma universalmente ogni cosa bella, un bel cavallo, un bel cane, un bel paese, una bella pianta, una bella montagna, una bella selva, e ogni sito e cosa bella e rara nel suo genere, ammirandole con maraviglioso affetto, cosi il bello dalla natura scegliendo, come l’api raccolgano il mel da fiori, servendosene poi nelle sue opere. Il che sempre han fatto tutti quelli, che nella pittura hanno avuto qualche grido. Quel anticho Maestro per fare una Venere, non si contentò di vedere una sola vergine, che ne volse contemplare molte, e prendendo da ciaschuna la più bella e più compita parte, servirsene nella sua Venere. E invero chi si pensa, senza questa via (con la qual si può acquistar quella vera Theorica) pervenire in quest’arte a qualche grado, di gran lunga s’inganna. E<’> sempre stato nel suo vivere molto parco, usando il cibo più per necessità che per dilettatione, e massimamente quando è stato in opera, nel qual tempo il più delle volte s’è contentato d’un pezzo di pane, il qual egli etiamdio lavorando mangiava. Pur da un tempo in qua, vive piu accuratamente, ciò richiedendo l’età gia più che matura. Piu volte gli ho sentito dire, Ascanio per riccho ch’io mi sia stato, sempre son vivuto da povero. E si come è stato di poco cibo, cosi di poco sonno, ilquale secondo ch’egli dice rade volte gli ha fatto pro, come quello che dormendo patisce dolor di capo quasi sempre, anzi il troppo dormire gli fa cattivo stomaco. Mentre ch’è stato piu robusto, piu volte ha dormito vestito, e con li stivaletti in gamba, quali ha sempre usati, si per cagion del granchio di che di continuo ha patito, si per altri rispetti, e è stato qualche volta tanto a cavarsegli, che poi insieme con li stivaletti, n’è venuta la pelle, come quella della biscia. Non fu mai avaro del quattrino, ne attese a cumular danari, contento di tanto, quanto gli bastasse a vivere onestamente; onde ricercato da più e più signori e persone ricche di qualche cosa di sua mano, con promesse larghissime, rade volte l’ha fatto, e quelle, più tosto per amicitia e benivolenza, che speranza di premio. Ha donate molte sue cose, lequali se vendere avesse voluto, n’aría tratta una pecunia infinita, s’altro non fusse che quelle due statue ch’egli donò a Messer Ruberto Strozzi suo amicissimo. Ne solamente delle sue opere è stato liberale ma della borsa anchora spesso ha sovvenuto a<’> bisogni di qualche povero virtuoso, e studioso, o di lettere o di pittura, del che io posso essere testimone avendolo visto tale verso me medesimo. Non fu mai invidioso del altrui fatiche, anchor nel arte sua, più per bontà di natura, che per openione ch’egli abbia di se stesso. Anzi ha sempre lodato universalmente tutti, etiam Raffaello da Urbino, in fra ilquale e lui già fu qualche contesa nella pittura, come ho scritto; solamente gli ho sentito dire che Raffaello non ebbe quest’arte da natura, ma per lungo studio. Ne è vero quel che molti gli appongano, che non abbia voluto insegnare, anzi cio ha fatto volontieri, e io l<’>ho conosciuto in me stesso, al qual egli ha aperto ogni suo secreto che a tal arte s’appertiene, ma la disgratia ha voluto che si sia abbattuto o a subietti poco atti, o se pure sono stati atti, non abbino perseverato, ma poi che sotto la desciplina sua saranno stati pochi mesi si sien tenuti maestri. E avenga ch’egli ciò prontamente abbia fatto, non ha però avuto grato che si sappia, volendo più tosto fare che parer di far bene. Anchor è da sapere ch’egli sempre ha cercato di mettere quest’arte in persone nobili, come usavano li antichi e non in plebei. E’ stato di tenacissima memoria, di maniera che avend’egli dipinte tante migliaia di figure quante si vedono, non ha fatta mai una che somigli l’altra, o faccia quella medesima attitudine. Anzi gli ho sentito dire che non tira mai linea, che non si ricordi se più mai l’ha tirata, scancellandola se s’ha a vedere in publico. E’ ancho di potentissima virtù imaginativa, onde è nato, prima ch’egli poco si sia contentato delle sue cose, e sempre l’abbia abbassate, non parendogli che la mano a quella Idea sia arrivata, ch<’>egli dentro si formava. Dal medesimo è nato poi, come avviene ne la maggior parte di coloro che alla vita otiosa e contemplativa si danno, che sia stato ancho, timido, salvo nel giusto sdegno, quando o a lui, o ad altri si faccia ingiuria e torto contra’l dovere; nel qual caso più d’animo piglia, che quei che son tenuti coraggiosi; nel altre cose è poi patientissimo. Della modestia sua non si potrebbe dir tanto, quanto meriterebbe cosi di molte altre sue parti e costumi, i quali ancho fur conditi e di piacevolezza e d’acuti detti. Come fur quelli, ch’egli usò in Bologna verso un gentiluomo, ilqual vedendo la grandezza e mole di quella statua di bronzo, che Michelagnolo aveva fatta, maravigliandosi disse: Qual credete che sia maggiore, questa statua o un par di bo? A cui Michelagnolo: secondo di che buoi voi intendete. Se di questi Bolognesi, oh senza dubio, son maggiori, se de<’> nostri da Fiorenza, son molti minori. Cosi questa medesima statua vedendo il Francia, che in quel tempo in Bologna era tenuto uno Apelle, e dicendo: Questa è una bella materia. Parendo a Michelagnolo ch’egli lodasse il metallo non la forma, ridendo rispose: Se questa è bella materia, io n’ho a saper grado a Papa Giulio, che me l’ha data, come voi alli spetiali, che vi danno i colori. E vedendo un’altra volta un figliuol del medesimo Francia, che era molto bello: figliuol mio gli disse, tuo padre fa più belle figure vive che dipinte. E’ Michelagnolo di buona complessione di corpo, piu tosto nervuto e ossuto, che carnoso e grasso, sano sopra tutto, si per natura si per l’essercitio del corpo, e continenza sua, tanto nel coito, quanto nel cibo, avenga che da fanciullo fusse ammalaticcio e cagionevole, e da uomo due malattie abbia avute. Patisce però da parecchi anni in qua molto del orinare. Il qual male era convertito in pietra, se per opera e diligenza di Messer Realdo gia detto non fusse stato liberato. Ha sempre auto bon colore in volto, e la statura sua è tale. E’ d’altezza di corpo mediocre, largo nelle spalle, nel resto del corpo a proportione di quelle; piu tosto sottile che no. La figura di quella parte del capo che si dimostra in faccia, è di figura rotonda, di maniera che sopra l’orecchie, fa più di mezzo tondo una sesta parte. Cosi le tempie vengono a sporgere alquanto, piu che le orecchie, e le orecchie più che le guancie, e queste più che il restante. Di modo che il capo a proportione della faccia non si può chiamare se non grande<;> la fronte a questa veduta è quadrata, il naso un poco stiacciato non per natura, ma percioche essendo putto, un chiamato Torrigiano di Torrigiani, uomo bestiale e superbo, con un pugno quasi gli staccò la cartilagine del naso, si che ne fu come morto portato a casa. Ilquale però Torrigiano, sbandito per questo di Firenze, fece mala morte. E’ però tal naso cosi come egli è, proportionato alla fronte, e al resto del volto. Le labra son sottili, ma quel di sotto al quanto più grossetto, si che a chi lo vede in profilo, sporge un poco in fuore. Il mento accompagna bene le parti sopradette. La fronte in profilo, quasi avanza il naso, e questo è poco men che retto, se non avesse in mezzo un poco di gobbetta. Le ciglia han pochi peli, li occhi più tosto si posson chiamar piccioli che altrimenti<,> di color corneo, ma vari e macchiati di scintille giallette e azzurrine. Le orecchie giuste, i capelli negri e cosi la barba, se non che in questa sua età d’anni settanta nove sono copiosamente macchiati di canuti. Ella è bifurchata, lunga da quattro in cinque dita, non molto folta, come nel effigie sua si puo in parte vedere. Molte altre cose mi restavano da dire, le quali per la fretta di dar fuore questo ch’é scritto, ho lasciate in dietro, intendendo che alcun’altri si volevan far onore delle fatiche mie, ch’io loro nelle mani aveva fidate, si che se mai avverrà che nessun’altro a tal impresa si voglia mettere, o a far la medesima vita, io m’offerisco a communicarle tutte o darle in’scritto, amorevolissimamente. Spero tra poco tempo dar fuore alcuni suoi Sonetti, e Madrigali, quali io con lungo tempo ho racolti si da lui si da altri, e questo per dar saggio al mondo, quanto nel inventione vaglia, e quanti bei concetti naschino da quel divino spirito. E con questo fo fine.
FINIS.