Visioni sacre e morali/Visione I

Visione I

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Visione II


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VISIONE I.




PER LA MORTE

DI MONSIGNOR

BONAVENTURA BARBERINI

PRIMA

GENERALE DELL’ORDINE CAPPUCCINO

E POI

ARCIVESCOVO DI FERRARA.




Stanco de’ miei scorsi tristissim’ anni,
     Sul colle, che Amor crudo infiora, ov’egli
     3Lunghi a scarso piacer mesce gli affanni,
A mia Ragion dicea: Tu, che in me vegli
     Qual lume e guida nel miglior consiglio,
     6Se pur libera sei, mentre lo scegli,
Perchè non osi da sì amaro esiglio
     Trarmi in piagge, in cui sfugga, e si dilegui
     9L’immagin rea del lusinghier periglio?
Tu gli error miei condanni, e tu mi segui?
     Ah! non è ver, che a quel, che m’imprigiona,
     12Laccio fatal tua libertà s’adegui.

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Vano di regno nome in te risuona,
     Ed i tuoi danni ad accoppiar ai miei
     15Fermo destin, non tuo voler ti sprona.
Le querele e i sospir, ch’io giunger fei
     All’ottima di me parte, fra l’ire
     18Magnanimo il valor destáro in lei;
Tal che agitando il caldo in sè desire
     Sferrommi il piè colla difficil chiave,
     21Che le prestáro senno, onta, ed ardire.
Lento io movea, perchè un pensier soave
     Spesso mi rivolgea verso il bel colle,
     24In cui più del salir la scesa è grave.
Pareami novi fior sul gambo molle
     Tremolar dolce, e di vaghezze nove
     27Quelle vestir non mai sfornite zolle.
Quanta avvien che olezzante aria rinnove
     Timo, o rosa, o viola in croco tinta,
     30Che gli aliti odorosi in cerchio piove,
La falda ammorbidía da’ mirti cinta,
     Su cui per crescer a delizia onore
     33Maravigliosa apparve iride pinta,
Che segnò l’erbe col gentil colore,
     Sorta del sol per la refratta luce
     36Nel rugiadoso dell’aurora umore.
Già il cor tenero quel, che in me riluce,
     Raggio immortal ricominciava a ombrarme,
     39E di seguir chiedeami un altro Duce;
Perchè il leggiadro loco era fra l’arme
     D’Amor, e l’arti ultima, e forse eletta
     42Dal diritto cammin per devíarme.
Quind’io non più scendea per la via retta,
     Ma in calli obbliqui gía, qual uom errando,
     45Che va malgrado, e chi l’arresti aspetta.

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Fra i sentier torti un ne calcai vagando,
     Che mi condusse in erma rupe alpestra
     48Presso al colle, onde pria me posi in bando.
D’alto rividi alla veletta destra
     L’abbandonato poggio, e un gran sospiro
     51Diè il cor, che tardo a disamar s’addestra;
Pur temprando il nascente in me deliro
     I ritrosi occhi là volsi, ove appare
     54L’onda, che abbraccia il terreo globo in giro.
Era tranquillamente azzurro il mare;
     Ma sotto a quella balza un sordo e fisso
     57Muggito fean le spumanti acque amare;
Chè un fiume, cui fu dal pendío prefisso
     Cieco sotterra il corso, ivi formava
     60Co’ moti opposti un vorticoso abisso.
Desío di rimirar, qual s’aggirava
     A spire il flutto, e tratto poi dal peso
     63Perdeasi assorto nell’orribil cava,
Me mal saggio avvíò fin allo steso
     Dentro i profondi golfi orlo del masso,
     66E da incauto affrettar così fui preso,
Che sul confin io sdrucciolai col passo.
     Dall’erta caddi, e un caprifico verde
     69Afferrai sporto fuor del curvo sasso.
Gli spirti, che il terror fuga e diperde,
     Corsermi al cor, lasciando in sè smarrita
     72L’Alma, che il ragionar stupida perde.
In cotal guisa l’infelice vita
     Sospesa al troppo docil tronco stette
     75Fra certa morte e vacillante aíta.
Su l’onde in rotator circoli strette
     Fissai, ritorsi, chiusi le pupille
     78Da un improvviso orror vinte e ristrette;

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E tal ribrezzo misto a fredde stille
     D’atro sudor m’irrigidì le avvinte
     81Mani al sostegno mio, che quasi aprille
Fra cento vane al mio pensier dipinte
     Idee, che furo in un momento accolte,
     84E cangiate, e riprese, e insiem rispinte.
Sconsigliato tentai colle rivolte
     Piante, e al dirupo fitte, arcando il dorso,
     87Arrampicarmi alle pietrose volte;
Ma il piè a toccar la roccia appena scorso
     Era, che il ritirai, dubbio qual fosse
     90Peggior o il mio reo stato, o il mio soccorso;
Perchè all’arbor, che al grande urto si scosse,
     Temei col raddoppiar l’infausta leva
     93Sveller affatto le radici smosse.
Grida tronche da fremiti io metteva,
     Che dai concavi tufi e dalle grotte
     96Un eco spaventevol ripeteva.
Già dal forzato ceppo aspre e dirotte
     Sul corpo mi piovean ghiaje ed arene,
     99E l’ime barbe già scoppiavan rotte:
Già l’Alma ingombra avean larve sì piene
     Di morte, che pareami, anzi io sentía
     102Le inghiottite acque entrar fin nelle vene;
Perchè il vortice infranto, che salía
     In larghi spruzzi dai spumanti seni,
     105Col ribalzato mar mi ricopría.
Quand’ecco cinto da raggi sereni
     O corpo, od ombra verso me si spinse,
     108Che gridò forte: In me t’affida, e vieni;
Vieni; e la destra mia prese, ch’ei strinse
     Colla sua manca mano, e con un salto
     111Delle mie lasse membra il peso vinse.

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Dal basso penetrò l’aere più alto;
     E giunto, ove non danno all’aure illese
     114Dai vapor gravi le procelle assalto,
Sovra l’etere puro il petto stese,
     Ed aleggiando fra il meriggio e il polo,
     117Dritta la via verso oríente ei prese.
Confuso io lo seguía; chè un punto solo
     Fu il balenar dell’improvviso aspetto,
     120Il dirmi, vieni, ed il rapirmi a volo.
Nè il riconobbi; chè nell’occhio stretto
     Da troppa luce increspò i nervi stanchi
     123La mia pupilla, e non v’entrò l’obbietto.
Volando ei non m’offría che l’un de’ fianchi,
     Su cui lunga scendea lanosa veste
     126Di neri stami intramischiata a bianchi,
Che folgorava nel sentier celeste
     Sì, che parca di liste luminose
     129Le sue ruvide fila esser conteste.
Dopo molto varcar d’aria ei mi pose
     Presso ad un tempio, che in mirabil piagge,
     132Dove non so, il divin Fabbro compose.
Ivi bench’oltre ogni pensar s’irragge
     Di novitate il non più visto loco;
     135Pur il desío, che a sè l’anima attragge,
S’affisò in lui, che nella faccia il foco
     Scemando ai lampi, onde splendea feconda,
     138Le forme sue svelommi a poco a poco.
La nuda avea del crin testa ritonda,
     Late le ciglia, e di fierezza sgombre,
     141Che la placida fronte alta circonda:
Piene le gote, e di pel raro ingombre,
     Cerulei gli occhi, e a chi li guata attenta
     144Punteggiati apparían di piccol’ ombre:

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Mite lo sguardo, e dolcemente lento,
     Tumido il labbro, e di ridente in atto,
     147E di candida barba ispido il mento.
Il terror primo, e l’impeto del ratto
     Fér me ad affigurarlo incerto assai
     150In regíone ignota, ove fui tratto.
Quand’ei: Son, disse, intempestivi omai
     I dubbj tuoi. Non mi conosci ancora?
     153Nel dir Non mi conosci il ravvisai.
Ah Padre! ah Padre! gli risposi allora,
     Dunque lo scampo a te dall’ima io deggio
     156Voragin, che del mar l’acque divora?
Ma come in tanta gloria or ti riveggio
     Di sacre armato e inimitabil penne?
     159Dimmi: egli è questo il tuo beato seggio?
Lasso! a noi quanto inaspettata venne
     Quell’ora, in cui smorto ne’ membri guasti
     162Trofeo di morte il corpo tuo divenne!
Oh irrevocabil ora, in cui lasciasti
     I resi al tuo sparir foschi e selvaggi
     165Tuoi patrj lidi, che già tanto amasti!
Non darà il sol ne’ curvi suoi víaggi
     Altro a noi giorno più di luce muto
     168Di quel, ch’ultimo a te spense i tuoi raggi.
Se di lagrime pie l’ampio tributo
     Ritor potesse al Fato i furti amari,
     171Ah! i nostri pianti allor l’avrían potuto.
Niun duol fu mai, che rispondesse pari
     Di dolersi al desío, come l’affanno,
     174Che i lumi anche turbò di stille avari;
Chè in mirar te steso su l’atro panno,
     Quanto taciti più, parean loquaci
     177Ne’ tristi modi, che i soli occhi sanno.

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Altri già spente le funeree faci
     Stretto abbracciando il tuo gelato frale
     180V’imprimean misti fra i singulti i baci;
Altri offrían gl’inni e i voti all’immortale
     Anima tua, che sul cadaver santo
     183Scesa forse battea per gaudio l’ale.
Io più dir volli; ma pietà me tanto
     Mosse, che balbettò la lingua, e strise;
     186E la voce mancò tronca dal pianto.
Egli intrecciando coll’usate guise
     Sovra il placido sen le caste palme,
     189Morte, disse, da voi non mi divise;
Chè a lei sol lice alle caduche salme
     Toglier lo spirto, ma non può sua forza
     192Spegner l’eterno amor delle nud’Alme.
Questo a voi mi rannoda, e insiem mi sforza
     A riguardar dai fortunati chiostri
     195La terra, ove sepolta è la mia scorza.
Nè avvien giammai qualora a me Dio mostri,
     Ch’ei pel vostro fallir empio s’adiri,
     198Che all’altissimo trono io non mi prostri,
E non inviti de’ beati giri
     Qualunque Spirto di pietade amico
     201A confonder i suoi coi miei sospiri.
Con questi io t’impetrai contra il nemico
     Della tua pace Amor gli acuti lampi,
     204Che tua ragion scosser dal sonno antico
Ferreo sì, e cupo in que’ fallaci campi,
     Che libertade in lei spenta credesti
     207Fra i molli obbietti e i lusinghieri inciampi:
E sciolto forse di tua cruda andresti
     Vil servitute; ma in disciorne il nodo,
     210Ahi misero! tu stesso il ritessesti,

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E in te destasti l’ingannevol frodo,
     Che dal retto sentier ti svolse, e degno
     213Ti fe’ di morte con sì orribil modo.
Or io veggendo te scopo al suo sdegno
     Pel lungo obblío delle divine leggi,
     216Ti trassi, ove ha vendetta il tempio e il regno,
Perchè il tuo duol la colpa tua pareggi,
     E il fulmin tolga alla Pietate offesa.
     219Rimira intanto il fatal scritto, e leggi.
Levai lo sguardo, e tal sentenza stesa
     Lessi ne’ duri bronzi in su l’esterna
     222Porta con ceppi di diamante appesa.
Il Libero voler, che l’uom governa
     Reo dell’iniquo oprar, questo alzò tempio
     225Alla Giustizia ultrice e all’Ira eterna.
Gli error miei gravi, e del mio giusto scempio
     L’editto, che in que’ carmi aperto scorse
     228L’Anima conscia a sè del suo cor empio,
Fér sì, che mentre il Condottier mi porse
     La man per superar le soglie insieme
     231Gran tempo stetti di seguirlo in forse;
Ma da lui preso alfin conforto e speme,
     Posi tremante il piè dentro i secreti
     234Aditi sempre chiusi all’uman seme.
Giungean al ciel le fulgide pareti
     Scarche di tetto, che al chiaror diviso
     237Dell’aere sacro il penetrarle vieti.
Nel mezzo eretta un’ara, e in quella inciso:
     Io son principio e fine; a cui dintorno
     240Sette fra i Cherubin più ardenti in viso
Davan incensi, e ne rendean il giorno
     Annebbiato da fumi, e il tempio stesso
     243Di maestà fra dubbia luce adorno.

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Poichè adorato umíle ebbi con esso
     L’invisibil di Dio gloria tremenda,
     246Che a fral guardo mirar non è permesso,
Sbigottito scoprii negli atti orrenda
     Schiera, che ovunque voli avvien per tutto,
     249Che fra eccidio e dolor le nubi fenda.
Vedi, ei soggiunse allor, qual tragge frutto
     L’Alma dal vaneggiar de’ suoi pensieri;
     252Vedi quei, che a recar la morte e il lutto
Stanno su l’ale pronti aspri Guerrieri
     Coll’occhio attento in aspettar il cenno,
     255Contro cui scampo arte, o valor non speri.
Quel che calcante armi e trofei t’accenno,
     È l’Angiol, che mutò Nabucco in belva,
     258E tolse a lui coll’alterezza il senno,
E d’ogni cruda fiera, che s’inselva,
     Lo fe’ compagno, onde co’ suoi muggiti
     261Del grand’Eufrate empiè l’acque e la selva.
L’altro, ch’agita in aria i vanni arditi,
     È quel, che nella notte in Ciel segnata
     264Lo squallor mise negli Egizj liti,
E scannò i primi figli; e sguaínata
     Ancor tenea la fulminante spada,
     267Che di sanguigne strisce era bagnata.
Quegli, cui par che dalla fronte cada
     Gruppo di lampi al suol per cener farne,
     270D’Asfalte nella fertile contrada
Vibrò le fiamme ultrici a divorarne
     L’infame terra, e la consunse, ed arse
     273Degli empj abitator l’ossa e la carne.
L’altro, cui scritto su le ciglia apparse
     Sterminator, colle man preste e fiere
     276Di Siloe in riva il sangue Assiro sparse,

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E serba ancor delle svenate schiere
     All’asta, che ne’ petti armati immerse,
     279Le ravvolte da lui Caldee bandiere.
Questi nella Giudea, mentr’egli offerse
     In sagrifizio a Dio vittime tante,
     282La strada all’aure venenate aperse
Del buon Re sciolto in pianto agli occhi avante:
     Vedi, che ancor la feral tazza aggira
     285D’orribile furor colma e fumante.
Cent’altri poi, da cui vendetta spira,
     Ei m’additò scelti al terribil uso
     288Della celeste irreparabil ira;
Ond’io dall’atra visíon confuso
     Con fioca voce: Oimè! Padre, gli dissi;
     291Grande è il mio fallo, e non l’ascondo, o scuso.
Ma per que’ carmi all’alte porte affissi,
     Poich’egli è ver, che libertade è rea,
     294Spiega come finor libero io vissi,
E come avvien, che la divina Idea,
     In cui d’ogn’uom l’opra futura è impressa,
     297Arbitre in loro oprar l’alme poi crea.
Ed egli a me: M’avveggio ben, che oppressa
     La mente tua da una vertigin folta
     300Vorrìa da immobil fato esser compressa;
Ma fra la nebbia tua pel ver disciolta
     Intenderai del tuo poter interno
     303Grave da me argomento; e tu m’ascolta.
Poichè àvvi immenso in Dio saper eterno,
     Dubbio non è, che tali egli potesse
     306Crear sostanze col valor superno,
Che fosser pur esse cagioni, ed esse
     Di lor medesme virtù avendo attiva
     309L’adoprasser intera entro sè stesse.

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Dell’uom l’Alma è fra queste, a cui nativa
     Dio forza infuse pel terren cammino
     312Ne’ desir suoi liberamente viva.
Or quand’ egli con provido destino
     Le cose appresta all’avvenir serbate,
     315Prescrive ancor col suo voler divino
Quel che d’invitta dee necessitate
     L’Alma soffrir, e quel, che d’ogni incarco
     318Sciolta oprar sua ragion può in libertate;
Chè ben mille entro l’uom schiudonsi il varco
     Mali aspri e affanni, cui porre egli il freno
     321Non vale, e non gli è dato irne mai scarco.
Quanto ordinò d’eternità nel seno
     Il supremo Voler, nel tempo elíce,
     324E al voler sorge egual l’effetto appieno;
Chè diverso all’effetto esser non lice
     Da quell’ordin, che in lui stabil ordío
     327L’onnipotente sua causa e radice.
Tu a prova il sai, che, benchè a te restío
     Contrasti il cor, che fervido s’adopra
     330Ad invescarti nel peggior desío,
Puoi col tuo ragionar levarti sopra
     Que’ moti impressi in te dalla vil salma,
     333E sospender ad essi, e negar l’opra.
Tu puoi moverti ovunque brami, o in calma
     Del mar, o in mezzo alle fierissim’acque,
     336Chè a scerre anche i perigli arbitra è l’Alma;
Anzi non puoi non esser tal; chè nacque
     Indivisa da te questa possente
     339Lena, che giunger teco a Dio già piacque.
Primo libero è Dio, primo volente,
     Qual cagion prima, in cui pieno s’accoglia
     342Quant’è il voler d’ogni creata mente;

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Ond’essa, quando avvien che il desío scioglia,
     Poichè libera in sè fatta è da lui,
     345Debbe voler, com’egli vuol che voglia.
Nè Dio col preveder le geste altrui
     Cangia agli enti natura, e il puro offende
     348Dono di libertà ne’ moti sui;
Chè il sommo antiveder, che in lui risplende,
     Da giustizia e pietà se lo dividi,
     351Indifferente appien per l’uom si rende,
In quella guisa che se tu dai lidi
     Un errante nel mar naufrago scopri,
     354Perchè tu il guardi a naufragar, nol guidi;
Così Dio scorge quel che pensi ed opri,
     Ma non t’astringe a far quel ch’egli vede,
     357Nè il vedrà mai, se divers’atto adopri.
Qual la memoria tua, che ti fa fede
     Di prische opre, non fu mai per te dura
     360Forza a far ciò, che al ricordar tuo riede,
Ma averlo fatto è la ragion, che in pura
     Immago offrasi all’Alma, e tu il rivegga;
     363Tal la prescienza in Dio d’opra futura
Non è destin violento, che il tuo regga
     Spirto a far quel che eseguirai dipoi;
     366Ma il farlo tu è cagion ch’essa il prevegga.
Eroe felice, i sacri accenti tuoi,
     Io gli soggiunsi, han già disciolta l’ombra,
     369Che annebbiò l’alma mia ne’ dubbj suoi.
Ma un novo bujo in me sorge, e m’ingombra,
     Come in noi regni e libertade e grazia.
     372Deh! tu, che solo il puoi, tu me ne sgombra.
Troppo chiedi, ei gridò. Mente, che spazia
     In corpo fral, non cape i sensi eletti
     375Di chi nel centro del saper si sazia;

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Pur m’odi; e mentre lume al fosco aspetti
     Ingegno tuo, nell’immortal tua parte
     378Imprimi, e serba ognor questi miei detti:
Chè allor, che veri intendi obbietti a parte
     Necessarj in ragion, che poi mistero
     381Congiunti fan d’argomentar nell’arte,
Se unirli insiem non lice al tuo pensiero,
     Non dubitar di lor concordia e pace;
     384Perchè il vero non mai distrugge il vero.
Poichè pregio è di Dio solo, in cui giace
     L’eterna a par di lui Bontade immensa,
     387Che sua grazia diffonde ove le piace;
Nè avvien, che ogni Alma libera, che pensa,
     Le voglie a ben oprar non abbia pronte,
     390Se pria non è dal divin raggio accensa.
E non saría un ruscel sceso dal monte
     Ingiusto vantator, che sue chiamasse
     393Le dolci limpid’acque, e non del fonte?
Or ella, che dal sen pietoso trasse
     I doni suoi, nell’uman cor non trova
     396Merto, per cui sua grazia in lui spirasse;
Perchè il principio, onde ogni merto ha prova,
     E l’unica di Dio Bontà sublime,
     399Che sè stessa in altrui sparsa rinnova.
Ella nell’uom le grazie infonde prime,
     Che accolte in lui dan varco alle seconde,
     402Purchè arbitro di queste ei non s’estime:
Come le prime acque del río feconde,
     Se sgombre di ritegno abbian le strade,
     405Traggon placide seco ancor l’altr’onde.
Soave spira l’immortal Bontade
     Grazia all’uman voler ne’ moti incerto,
     408E l’atto del voler è libertade;

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E libertà, che il ben elegge, è merto,
     Perchè il motor de’ corpi ai corpi unisce
     411Legge tal, che gli sforza a un ordin certo;
Ma gli arbitrj dell’Alma anzi abbellisce
     Co’ lumi suoi, che sovra lei rivolse,
     414E la invita a que’ rai, non la rapisce.
Questa il mio spirto ne’ verd’anni accolse
     Grazia del Ciel, per cui tenero spinsi
     417Il piè sul cammin aspro, ov’ella il volse.
Tenacemente a questa io sì mi strinsi,
     Che a schivo ebbi i piacer di fango aspersi,
     420E con ferrate spine i lombi io cinsi:
Per essa gli occhi e i miei pensier conversi
     Alle dure vigilie e al pianto io tenni,
     423E il pianto e il duro vigilar soffersi:
Con lei dal Lazio, ove orator sostenni
     Le sacre leggi, al nido, in cui già nacqui,
     426La mia diletta greggia a pascer venni:
Per lei le ingiurie, onde segnato giacqui,
     Qual uom, cui di ragion mancan gli uffici,
     429Mi furo dolci e care; e muto io tacqui.
Questa poi, che alte in me pose radici,
     Empiè le mie d’amor opre e parole
     432Pei cor ingrati; ed io gli amai nemici.
Rapito alfin, come colomba suole
     Dalla nebbiosa valle ergersi fuori,
     435Cercando aere miglior, che la console,
Salii nel cerchio de’ beati Cori,
     Ove grazie ai sospir rendo, che in terra
     438Fur l’esca amara de’ miei dì migliori.
Le rendo al mio squallor, che dee sotterra
     La sua cangiar nel sole ombra notturna;
     441Le rendo a quei, che mi dier tanta guerra;

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Ch’io scorgo ora dal ciel la taciturna
     Fronte piegar su le mie gelid’ossa,
     444E porger voti alla mia pallid’urna.
Ben l’immensa di Dio virtude mossa
     Dall’altrui preci anche i miei membri spenti
     447Renderà illustri nell’opaca fossa,
Che al mio pien del suo nome ubbidíenti
     Vedrai le pesti e l’atra fame esangue,
     450Il procelloso mar, le nubi, i venti,
Le febbri ascose nel torpor del sangue,
     L’acerbe piaghe, e l’implacabil morte;
     453Ch’ove grazia abbondò, poter non langue.
Tacque; e l’altare sfavillò sì forte,
     Ch’io non so come a quel balen rivolsi
     456Il piede fuor delle tremende porte;
Nè più il tempio rividi: e mentre volsi
     Smarrito al ciel lo sguardo, e fuggitivo
     459Negli occhi miei subitamente accolsi
Di tre fonti di luce un fonte divo,
     Dintorno a cui scritto da folgori era:
     462Mistero incomprensibile ad uom vivo.
Ei spinto ardentemente alla sua sfera
     Disse, stringendo al mio l’amico lato,
     465Va, pensa, impara, e prega, e piangi, e spera;
E in abbracciarme il sen mostrommi armato
     D’un’aurea Croce, e da una face bella,
     468Come servo d’amore il cor lustrato;
Ed i vibrati rai da questa a quella
     Tal ricco di splendor diffondean fiume,
     471Qual se gli scintillasse ivi una stella.
All’alto allora ei dispiegò le piume,
     E quanto ascese più, men chiaro apparve;
     474Alfin perdendo il suo nel maggior lume,
Si mise dentro al gran Mistero, e sparve.



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ANNOTAZIONI

ALLA PRIMA VISIONE.




Pag. 5. Dall’erta caddi, e un caprifico verde
Afferrai sporto fuor del curvo sasso.


Questa idea è tolta da Omero nel lib. XII dell’Odissea. Ma quanto è più nobile e passionata nel nostro Autore, che non in quel poeta? Omero fa raccontare ad Ulisse il naufragio da se fatto al vortice di Cariddi. Dice, che si strinse fortemente ad un gran fico, o sia fico selvaggio, che noi chiamiamo caprifico, a cui stavasi attaccato, dic’egli, come un vispistrello (per verità questo paragone in un tal poema è un poco basso). La traduzione in ottava rima, che dell’Odissea ha fatto il valoroso signor abate Bozoli, dà a questo passo un poco più di spirito, che non ha certamente nel testo originale, come ben si pare dalla versione letterale, che ne ha fatto in latino Andrea Divo Justinopolitano. Se poi quell’immagine del giudice, che s’alza dal tribunale per andar a cena, sia una comparazione, come vuole il Perault, o una data di tempo, come pretende l’abate Bozoli, non è così facile il deciderlo. Comunque sia, è cosa assai ricercata, com’è tutto quel racconto. Non così il nostro Autore, il quale nelle seguenti terzine con assai vivi colori poetici esprime i diversi effetti, che produce nell’animo un gran timore, naturalmente cagionato da un evidente pericolo della vita. Ma dai nostri erano assai diversi i tempi ed i costumi, di cui parla Omero nell’Odissea, come si può scorgere in tutto quel poema: qui si vede, che Omero fa esprimere il racconto dalla bocca stessa [p. 19 modifica]d’Ulisse; e può essere, che Ulisse stesso l’abbia fatto, come viene espresso da Omero e che non abbia dati i segni di timore alcuno, che il gran pericolo, in cui egli incorse, doveva eccitare in lui, per vana gloria di valor militare, che si vanta di non temere i periioli.

P. 8. Ma come in tanta gloria or ti riveggio ec.

L’incontaminata vita, le apostoliche fatiche, e i sacerdotali costumi di monsignor Barberini, del tutto conformi all’idea, che del vescovo ci dà san Paolo nelle sue Epistole a Timoteo e a Tito, danno un giusto motivo all’Autore di supporlo già Beato in cielo.

P. 10. Sette fra i Cherubin più ardenti in viso ec.

Di sette Angeli principali, che assistono al divin trono, si fa menzione spesse volte nelle Scritture: come in Tobia (cap. XII): Ego sum Raphael Angelus, unus ex septem, qui adstanius ante Dominum. E più acconciamente all’argomento, di cui tratta l’Autore, nell’Apocalissi (cap. VIII) si parla di sette Angeli presti alle vendette del Creatore sovrano, uno dei quali vien detto nel cap. IX Sterminatore: Latine habens nomen Exterminans.

P. 12. Poichè avvi immenso in Dio sapere eterno, ec.

Entra qui l’Autore a spiegare teologicamente come si concilii l’umana libertà coll’infallibile prescienza divina, la quale, riguardo alle azioni dell’uomo, che portano seco merito, o demerito, non induce in lui necessità, come dicono le Scuole, antecedente, ma sol conseguente. Val a dire, che intanto Iddio vede il bene, o il male, a cui l’uomo vuole appigliarsi, non perchè egli lo costringa all’uno, o all’altro, ma perchè vede l’uomo già risoluto ad abbracciare, e compiere l’uno o l’altro col suo libero arbitrio, giusta il detto dell’Eccl. (cap. XVI): Ante hominem vita, et mors, bonum, et malum; quod placuerit ei, dahitur illi. Col qual testo, e con altri simili della Scrittura resta confutato l’errore de’ Novatori, che niegano all’uomo la libertà d’indifferenza. [p. 20 modifica]

Pag. 15. .  .  .  .  .  .  .  .  .  .   che poi mistero
Congiunti fan d’argomentar nell’arte, ec.

Varj sono i sistemi introdotti nelle Scuole Cattoliche a spiegar la concordia della Grazia col Libero arbitrio, di che parla egregiamente sant’Agostino ne’ suoi libri De Gratia et Lib. arbitrio. Ai sentimenti di questo santo Padre attiensi l’Autore, asserendo, che la Grazia ottiene dall’uomo ciò che vuole, non colla violenza, ma coll’amore, e colla celeste dilettazione, che soavemente trae l’uomo a volere liberamente quello ch’ella vuole: Noli cogitare, dice il santo Dottore (tract. 26 in Joan.), te invitum trahi: trahitur animus et amore. E poco dopo: Parum est voluntate, etiam voluptate traheris.... non necessitas, sed voluptas; non obligatio, sed delectatio.

P. 16. Con lei dal Lazio, ove orator sostenni, ec.

Fu Monsignor Barberini Predicatore Apostolico in Roma, e sono le sue Prediche pubblicate colle stampe.

Ivi. Per lei le ingiurie, onde segnato giacqui, ec.

Con maravigliosa pazienza esemplare tollerò questo degno Prelato le ingiurie fattegli, e le ingiuste accuse dategli presso d’un Sommo Pontefice.