Viaggio di un povero letterato/II
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Capìtolo II.
LUCI NELLA NOTTE.
Io devo aver dormito, forse, su quel rosso e servizièvole cuscino di prima classe. Però ad una certa ora mi sono interamente svegliato: vedevo un bagliore vermìglio, quasi un’enorme pupilla, inseguire la strìscia nera del treno, che fuggiva, scrosciava nella placidità delle cose ancora dormienti, e come evanescenti.
La stella di Marte?
Ma era un più grande, e più vivo bagliore. Ed esso veniva dalla terra, non dal cielo.
Ad un tratto quella luce scattò, e fu un altro bagliore verde: e sùbito dopo una gran bianchezza si diffuse per la diafaneità della prima ora del giorno, come quando la stella Diana appare al mattino. E le tre luci scattàvano alterne, violente, contìnue. Ma il bagliore purpùreo era più dominante. Oh, quale faro bizzarro arde laggiù? Siamo arrivati forse già in riva al mare? Allora ricordai:
È il faro tricolore su la torre bianca di San Martino.
Mi risovvenni di aver già visto qualche anno addietro quelle tre luci alterne. Era sul far della sera, una dolce incantèvole sera di màggio, ed io mi trovavo all’estremità del lungo molo nella penisoletta di Sìrmio.
Non molto discosti da me, alcuni teutònici, col mantello e il cappellino tirolese, attendèvano, come io pure attendevo, l’arrivo del piròscafo dalla riviera di Salò. Essi parlàvano, bonariamente fra loro, assentendo coi loro, ja! ja! in cadenza, e ogni tanto interrompèvano con grosse risa, che parèano singhiozzi. Quando ecco, d’un tratto, dinanzi a noi, su le acque, còrsero come fulmìnei i fasci delle tre luci: bianco, rosso e verde.
Quei fasci si sollevàvano, ricadèvano giù dal cielo, si alternàvano sì che parèvano tre enormi catapulte di luce: parèvano volersi addentrare fra i monti tenebrosi, là verso Riva di Trento. Allora le pupille di quei tèutoni si scòssero. Cercàrono donde venìssero quelle luci, che cosa significàssero. Capìrono in fine.
Parlàrono ancora i grossi tèutoni; ma non rìsero più.
Quando una stella si accende nel cielo d’Itàlia, le fronti teutòniche si fanno cupe, e le loro parole si còlmano di irònica amarezza.
★
Ora, in quel mattino, in breve tempo le tre luci (fuggiva il treno) rimàsero addietro. Però la torre su l’alto di San Martino già si distingueva biancheggiare nel giorno nascente.
«A ben considerare — pensai — si tratta anche qui di un faro e noi qui siamo presso un mare; il mare delle genti teutòniche, che batte contro quei monti che corònano il Garda, laggiù. Ma noi vogliamo èssere ragionèvoli e buoni fratelli in Cristo. Voi, bravi tèutoni, ricordate il millenàrio vostro impero quando, a cominciare da Carlo Magno, la spada teutònica pesò sopra di noi: noi abbiamo altra ìndole e non ricordiamo. Noi non ricordiamo quasi più che, qui presso, sta un’altra antica torre, più giù: la torre di Solferino, là veramente, il 24 di giugno 1859, Napoleone III spezzò quella vostra spada teutònica che ancora gravava su noi. Ma nessun faro vi splende, nessun segno votivo!»
Ecco, corriamo adesso lungo i begli spaldi di Verona. Brìvidi di luce còrrono già per la campagna. Così doveva essere nell’estate del 1859, quando il grosso prìncipe Plon-plon, a fùria, nella berlina stemmata con l’aquila di Frància, entra in Verona «fedele»: le sentinelle austrìache guardano attònite ai colori di Frància. Appare in tùnica celestina l’èsile sire d’Absburgo, l’erede di Carlo V. Si duole assai il giòvane sire, che non rivedrà più la Madonnina del Duomo di Milano, retàggio di Carlo V. Non la vedrà più! Ben sperava di rivederla la mattina del 24 giugno! Ora non più. Mai più!
Sèmbrano vicende d’altri sècoli. Ma il sire di Absburgo è ancora vivo, e noi lo chiamiamo, con dimestichezza obliosa, Cecco Beppe; ma il mare delle genti teutòniche è laggiù, in fondo al Garda; ma il mare delle genti croate e slave batte ad oriente. Hanno rude ànima e bellìgera mano quelle genti. Essi non prègiano la nostra gentilezza latina: e forse questo dolce mattino geòrgico non li inebria della santità della pace.
Quali pàgine del futuro sono scritte nel quaderno che sta su le ginocchia di Giove?
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Io andavo su e giù pel corridòio, io ero il padrone del treno. Non c’era nessuno. Il treno pareva fuggire pazzamente per conto suo, ed io guardavo con la curiosità di un bambino la campagna dai finestrini aperti.
Già albeggiava. Che puro, che ridente mattino! Quali verdure profonde, allineate, ordinate! e qua e là, ampi rettàngoli gialli, formati dalle stòppie del grano, reciso pur ieri. I covoni del grano d’oro si allineàvano a pèrdita d’occhio; e la bianchezza dei buoi si moveva già per ròmpere le stòppie, nella frescura dell’alba. Dolce mattino geòrgico! oh palpitare del lago di Virgìlio!
Quanti sècoli sono, o inesàusta terra d’Itàlia, che tu in lùglio dài tuoi belli esami, combatti le tue buone battàglie!★
Il signore chiuso. Ad un tratto — andavo su e giù pel corridòio — sento disperatamente picchiare sui vetri, dietro di me. Mi volto. Vedo dietro il cristallo un signore che gestisce così comicamente che quasi mi viene da rìdere. Ho capito. È un viaggiatore che è rimasto chiuso dentro lo scompartimento. Mi prega, a cenni, perchè chiami qualche guàrdia, che venga a liberarlo. Percorro il treno. È deserto. Giungo, infine, al bagagliàio, e lì trovo le guàrdie dormienti nelle disperate attitùdini dei custodi del Santo Sepolcro. Svèglio i dormienti nella notte. Il signore chiuso viene liberato: mi stringe la mano con effusione. Si era fatto chiùdere apposta per dormire con più sicurezza di non essere disturbato; ma la guàrdia si era addormentata alla sua volta.
«Non deve mica essere diffìcile assassinare uno in treno!»
Perchè formai questo pensiero?★
Quali dolci colli si profilano in lontananza? Dove siamo? A Vicenza?
Mi sta in mente che debba èssere una città soavemente idìllica, Vicenza. Pallàdio mi fa rima con Arcàdia, e Fogazzaro con Sannazzaro; e l’abate Zanella, che fu di certo un nòbile ingegno, mi richiama in mente gli antichi abati incipriati e galanti del Settecento. Ma la colpa di queste deformazioni è dovuta al ricordo di un caro signore, che io conosco e rivedo ogni estate, e si chiama signor colonnello. Ora vive in dolce pace nella sua villa, e si ricorda della vita militare e della guerra come di un’altra vita. Egli, al mattino, mette in òrdine i sassolini, i vasetti dei fiori, le statuine pei vialetti della sua villa; poi tutto lindo e bianco come le sue statuine, va su e giù pei vialetti leggendo un libriccino di poesie, le poesie dello Zanella. Mi augura il buon dì e — fra l’altro — mi dice:
«Leopardi, Foscolo, Carducci e compagnia bella, riverisco, riconosco, ammiro, ma non sono per me. L’Astichello, questi pensierini soavi, tèneri, religiosi, queste belle armonie, creda mi fanno bene. Quanta pace....»
Ed ecco perchè lo Zanella mi diventò un poeta del Settecento: e Vicenza con l’Astichello una cittadina arcàdica.
Sopra Vicenza c’è Asiago, i sette comuni di Asiago: «Colònia linguìstica straniera nel territòrio linguìstico», come è spiegato in un manuale di letteratura italiana. Ma che bàrbaro italiano.
E allora mi tornò alla mente un mio compagno di collègio al Marco Foscarini di Venezia, il quale era di Asiago, parlava tedesco e si vantava di èssere discendente dei Cimbri. Gherardo era il suo nome, ed anche nell’aspetto era quasi cimbro: massiccio, alto, occhi freddi, cèruli, capelli irti di un biondo pàllido. In quei tempi in cui nelle nostre scuole tutto era tedesco, dalle edizioni Taübner al bastone Jäger, quel mio compagno Gherardo era molto stimato dai professori. Egli poi aveva instituito in collègio una spècie di Santa Vehme o tribunale secreto, da cui io subii molte condanne. Le mie tènere spalle prèsero molti e segreti pugni: mai però volli riconòscere l’autorità della Santa Vehme.
Mi sorrise allora l’idea di vedere Asiago che è in alto su l’alpe; ed altresì di strìngere la mano al mio compagno Gherardo. «Di Sante Vehme — diceva fra me — ne ho conosciute poi tante che non è il caso di serbar rancore per quella che tu fondasti in collègio. Qua, dunque, la mano, amico, e beviamo insieme.»
Così gli volevo dire, rivedèndolo ad Asiago.
La ferrovia, a rotaia dentata, che conduce ad Asiago, dicono che sia molto interessante; e anche questo costituiva un motivo per discèndere alla prima fermata.
— Scende o non scende? — mi disse bruscamente la guàrdia a Vicenza.
— Sissignore, scendo.
— Allora fàccia presto perchè il treno parte sùbito.
Scesi: ma appena il diretto si fu dilungato via, quasi ne ebbi pentimento. Tutto chiuso, buio, tutto addormentato ancora alla stazione di Vicenza.