Verso la cuna del mondo/XI
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Fachiri e ciurmadori.
Agra, 30 gennaio.
Ci riposiamo dei giorni trascorsi, troppo intensi di emozioni estetiche, in curiosità più comuni. Visitiamo una fabbrica di tappeti. Belli i tappeti e singolarissimo il modo di fabbricarli. Una trentina d’operai, quasi tutti giovinetti, seminudi, stanno seduti al telaio, nell’afa di una lunga tettoia. E ad ogni operaio corrisponde un filo, una tinta della trama complicatissima. Il direttore, seduto su un alto scanno, all’estremità dei telai, tiene sottocchio lo schema riassuntivo del lavoro con i numeri corrispondenti ai vari tessitori e li canta in note diverse; e al numero corrisponde il gesto del piccolo operaio che ripete la nota, con una voce prolungata d’intesa. Il lavoro prosegue così su di una nenia regolare e varia, non priva di una certa dolcezza musicale. Il direttore sembra dirigere un’orchestra di tinte delicatissime. Ed è veramente la sinfonia dei colori, sognata dai poeti decadenti. Ne risultano quei tappeti inimitabili, dove il pregio e l’origine si rivelano nella fattura raffinata e primitiva ad un tempo, nel disegno e nella tinta che s’alterano di tratto in tratto, ingenuamente, per il filo che vien meno o per la mano diversa, nella sofficità deliziosa, come se le dita si insinuassero sotto l’ala d’un cigno. Lavori magnifici, ma che m’attirano sotto questo cielo soltanto. E per non comperare dimezzo il prezzo. Ed è accettato. Lo dimezzo ancora. Ed è accettato. Scelgo tre tappeti. Altri mercanti escono dai loro negozi mentre passiamo nella città indigena, tentandoci con mille cose inutili; un budda, una trimurti in avorio, un elefante in ebano, raccolto sulle zampe posteriori e recante in alto, nella proboscide attorta, un gran vassoio d’argento, bronzi, rami lavorati a sbalzo, veli tenui come nubi tessute, tinti all’istante sotto i nostri occhi con tutte le tinte più delicate dei fiori e dei frutti, ed affidati a due bimbi che li fanno prosciugare correndo, amuleti, monili gemmati, ori massicci di bajadere. Cose che tentano, ma che compero senza fede, per qualche amico d’Italia. Non le amo nella mia casa. So quale malinconia d’esilio, quale stridore borghese acquistano sotto il nostro cielo, nelle nostre dimore modeste, tra uno scrittoio Luigi XV ed uno stipo dell’Impero. Ogni bellezza nella sua cornice. Due cose vorrei portare con me. La reggia dei Gran Mogol, il palazzo di trina immacolata, lassù, sulla sua mole rossigna, e il Tai-Mahal, con i suoi cipressi di bronzo e il suo cielo di cobalto. Oggi sono ritornato, solo, a contemplare per lunghe ore il poema di marmo e di luce.... Quale rimpianto sarà nei miei ricordi!
Agra, 31 gennaio.
I giocolieri e i fachiri sono una delusione per chi viene in India mendicando un po’ d’inverosimile, di soprannaturale. Ma aggiungono al paesaggio un motivo pittoresco. Oggi, dinanzi al tempio giaina, ho assistito alla lotta del cobra e della mangusta, lo spettacolo che gl’incantatori di serpenti offrono ad ogni forestiero per tre modeste rupie, il prezzo della vittima. Due indù, che sembrano usciti da un’illustrazione di viaggi, ignudi, fasciati alle reni da un panio sottile, fasciati in testa da un gigantesco turbante giallo, le barbe divise e uncinate, le orecchie adorne di anelli d’oro massiccio, siedono di fronte chiudendo ognuno tra le ginocchia un cesto coperto, e incominciano un preludio di richiamo, una specie di nenia dialogata, guardandosi con occhi di sfida, di minaccia, di paura, ora l’uno ora l’altro sollevando il coperchio ed abbassandolo subito, volgendo gli sguardi sul pubblico attento, come per consultarsi. Poi si decidono. Una delle ceste s’agita, il coperchio si solleva, ed appare la testa eretta d’un cobra che esce dalla prigione con lentezza flessuosa, si raccoglie, s’abbandona pigro sul tappeto come una gomena inerte, grigia a losanghe nere. Ed ecco balzare dall’altro cesto, d’improvviso, l’avversario diverso: un felino che ricorda il nostro furetto, fulvo, snello, ondeggiante, il muso e gli occhi rossi, la coda lunga due volte il corpo, villosa, dilatata dall’ira come un enorme scopino rossiccio. Il cobra s’erge a mezzo delle spire attorte, con la veemenza d’una molla a spirale, la gola espansa, con la figura delle lenti che si dilatano nel furore, il capo piatto, sottile, scosso dal fremito continuo d’una foglia agitata dal vento. E tra le grida incitatrici dei monelli e il rombo d’una musica assordante, i due avversari si preparano alla difesa e all’offesa: la mangusta correndo rapida attorno alle spire circolari, come attorno ad una fortezza, e il cobra girando su sè stesso come un’ansa mobile, vigilando la nemica da tutte le parti. Il cobra si tende, guizza come un dardo. La mangusta balza indietro, protetta dalla nube rossigna della coda accartocciata. Ritorna all’assalto. È respinta. Ritorna tre, quattro volte; per dieci, per venti minuti gli avversari temporeggiano. Poi è l’impeto furibondo, una miscela forsennata di spire livide e di pelo fulvo, finchè sul tappeto non appare più che un gomitolo enorme e palpitante. La mangusta è perduta. Eppure no: le spire s’allentano, due zampine rosee si liberano convulse, lo scopino della coda emerge improvviso; l’intera mangusta esce trionfante dall’intrico del rettile che si svolge inerte: il felino minuscolo ha divorato il cervello del nemico.
— It is not interesting. The cobra is dry.
Uno studente indiano che ho vicino si porta l’unghia del pollice ai denti incisivi, per significarmi che il rettile non aveva più veleno. Non mi stupisce, data la famigliarità di questi incantatori con il terribile intercessore di morte. Ma è noto che la mangusta affronta e distrugge i cobra intatti e selvaggi della jugla, ed è tenuta nelle case, avversaria vigilante e infaticabile d’ogni rettile intruso, come il gatto per i topi tra noi.
Qualche liceale color di bronzo, qualche borghese anglomane in solino rigido e con la mazza gemmata, si sofferma un attimo nella cerchia dei giocolieri, poi s’allontana con uno sguardo di commiserazione e di snob come da cosa «quite native», troppo indigena e troppo consueta. Io mi compiaccio invece di osservare nella realtà misera e cenciosa, ma pittoresca, le figure e le cose troppo lette nei libri. E trovo interessanti anche il famoso miracolo della pianticella di mango, un gioco di prestigio fatto con un’abilità senza pari. Uno degli indigeni fa visitare intorno un seme autentico di mango che solleva con le due dita, depone in una buca del terreno, ricoprendolo di terra e calpestandolo accuratamente; poi distende sulla seminagione un fazzoletto favorito da uno di noi. Allora inizia qualche altro gioco, per distrarre l’attenzione del pubblico. Ritorna poi, ad intervalli, al seme di mango, ed ogni volta la pianticella ha messe due, tre foglie di più, finchè al termine dello spettacolo raggiunge le dimensioni d’un arboscello con due frutti e qualche fiore. Uno sviluppo miracoloso che richiede una raccolta progressiva di non meno di cinquanta esemplari, sostituiti con un’abilità che sfugge ad ogni mia vigilanza.... E che mi ricorda le cinquanta parrucche progressive di quel tale parrucchiere calvo che simulava lo sviluppo di una chioma assalonica, alla corte di non so quale Luigi di Francia.
Ma quali simulatori consumali sono questi giocolieri! Con quale arte istrionica raffinatissima, sconosciuta ai nostri prestigiatori, illudono, deviano la nostra attenzione, con quale mimica seguono lo sviluppo del mango, fingendo l’incredulità nel prodigio, l’ansia dell’esperimento, la delusione del primo insuccesso, la meraviglia paurosa per la prima gemma, la gioia del trionfo!
Ma ecco i due s’altercano, s’ingiuriano con ira crescente. Credo in un litigio autentico. E non è che il preludio d’un altro gioco. I due tentano di strapparsi di mano un sacco cencioso, finchè l’uno riesce ad imprigionare l’altro con un rapido gesto traditore, e ve lo lega solidamente. Allora comincia la mimica della gioia crudele, la danza feroce sul povero prigioniero che s’agita e geme. L’avversario non pago prende un randello a clava e percuote l’involto fino ad appiattirlo, fino a farlo aderire vuoto e floscio sul terreno. Allora il forsennato slega, esplora il sacco. E comincia il monologo del dolore, del rimorso disperato, finchè la folla si fende e si vede ritornare lo scomparso, sano e salvo, non si sa come, non si sa di dove. Sorpresa, riconciliazione, abbracci fraterni e lacrime vere, abbondanti che brillano sulle labbra nere, quando i due girano intorno, invitandoci in corretto inglese all’offerta generosa.
— A little present, milord! We are so poor fellows!
Poor fellows! Poveri compari, ma di una abilità e di una scaltrezza inquetante, e tale da frodare dieci volte, in altre occasioni, il forestiero un po’ trasognato! E non saranno certo costoro a darmi un po’ del soprannaturale che speravo di trovare in India, un po’ di inverosimile, un po’ di miracolo....
Agra, 9 (?) gennaio.
Il miracolo è pur sempre uno solo. Il Tai-Mahal. Domani partiremo per Giajpur e oggi son ritornato alla meraviglia che lascerò prima d’esserne sazio. La meraviglia che ha il fascino non più di una cosa d’arte, ma di una bellezza naturale ed eterna: come il mare, come il cielo, come l’alte vette immacolate. Aveva il colore di certi nevai, oggi, mentre lo contemplavo per l’ultima volta. Poi è passato al rosa, al cerulo, al verde, all’ardore violaceo dell’acciaio nell’ora della tempra... E i cipressi di bronzo, il cielo di cobalto, le acque incantate che addoppiavano il miracolo, tutto m’è impresso nella palpebra interna come quando si guarda una cosa che abbaglia.
Fra sei mesi, fra un anno, perduto nelle vie delle nostre città settentrionali, nella nebbia e nel pattume d’un crepuscolo decembrino, potrò forse resuscitare tra le ciglia socchiuse un po’ di questa luce e di questi colori, e consolare l’anima grigia....
Tai-Mahal! Poema marmoreo di Amore e di Morte, quale tormento, quale rimpianto sarai per il futuro!