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188 fachiri e ciurmadori

sognata dai poeti decadenti. Ne risultano quei tappeti inimitabili, dove il pregio e l’origine si rivelano nella fattura raffinata e primitiva ad un tempo, nel disegno e nella tinta che s’alterano di tratto in tratto, ingenuamente, per il filo che vien meno o per la mano diversa, nella sofficità deliziosa, come se le dita si insinuassero sotto l’ala d’un cigno. Lavori magnifici, ma che m’attirano sotto questo cielo soltanto. E per non comperare dimezzo il prezzo. Ed è accettato. Lo dimezzo ancora. Ed è accettato. Scelgo tre tappeti. Altri mercanti escono dai loro negozi mentre passiamo nella città indigena, tentandoci con mille cose inutili; un budda, una trimurti in avorio, un elefante in ebano, raccolto sulle zampe posteriori e recante in alto, nella proboscide attorta, un gran vassoio d’argento, bronzi, rami lavorati a sbalzo, veli tenui come nubi tessute, tinti all’istante sotto i nostri occhi con tutte le tinte più delicate dei fiori e dei frutti, ed affidati a due bimbi che li fanno prosciugare correndo, amuleti, monili gemmati, ori massicci di bajadere. Cose che tentano, ma che compero senza fede, per