strazione di viaggi, ignudi, fasciati alle reni da un panio sottile, fasciati in testa da un gigantesco turbante giallo, le barbe divise e uncinate, le orecchie adorne di anelli d’oro massiccio, siedono di fronte chiudendo ognuno tra le ginocchia un cesto coperto, e incominciano un preludio di richiamo, una specie di nenia dialogata, guardandosi con occhi di sfida, di minaccia, di paura, ora l’uno ora l’altro sollevando il coperchio ed abbassandolo subito, volgendo gli sguardi sul pubblico attento, come per consultarsi. Poi si decidono. Una delle ceste s’agita, il coperchio si solleva, ed appare la testa eretta d’un cobra che esce dalla prigione con lentezza flessuosa, si raccoglie, s’abbandona pigro sul tappeto come una gomena inerte, grigia a losanghe nere. Ed ecco balzare dall’altro cesto, d’improvviso, l’avversario diverso: un felino che ricorda il nostro furetto, fulvo, snello, ondeggiante, il muso e gli occhi rossi, la coda lunga due volte il corpo, villosa, dilatata dall’ira come un enorme scopino rossiccio. Il cobra s’erge a mezzo delle spire attorte, con la veemenza d’una molla a spirale, la gola espansa,