con la figura delle lenti che si dilatano nel furore, il capo piatto, sottile, scosso dal fremito continuo d’una foglia agitata dal vento. E tra le grida incitatrici dei monelli e il rombo d’una musica assordante, i due avversari si preparano alla difesa e all’offesa: la mangusta correndo rapida attorno alle spire circolari, come attorno ad una fortezza, e il cobra girando su sè stesso come un’ansa mobile, vigilando la nemica da tutte le parti. Il cobra si tende, guizza come un dardo. La mangusta balza indietro, protetta dalla nube rossigna della coda accartocciata. Ritorna all’assalto. È respinta. Ritorna tre, quattro volte; per dieci, per venti minuti gli avversari temporeggiano. Poi è l’impeto furibondo, una miscela forsennata di spire livide e di pelo fulvo, finchè sul tappeto non appare più che un gomitolo enorme e palpitante. La mangusta è perduta. Eppure no: le spire s’allentano, due zampine rosee si liberano convulse, lo scopino della coda emerge improvviso; l’intera mangusta esce trionfante dall’intrico del rettile che si svolge inerte: il felino minuscolo ha divorato il cervello del nemico.