La sera, quando s’avvicina l’ora
D’andare alla burletta o alla commedia,
Veneranda che mastica e lavora,
Senza scrollarsi punto dalla sedia
Sbadiglia e poi domanda: il tempo è buono? —
Stupendo. — Guarda un po’, che ore sono? —
Son l’otto. — Proprio l’otto? Ora mi vesto. —
Brava. — Ma ti rincresce d’aspettarmi? —
No, no, vestiti a comodo. — Eh fo presto! —
(E lì piantati e duri come marmi.)
Taddeo, che ore sono? — Son le nove. —
Dunque scappo a vestirmi. — (E non si move.)
Taddeo, che dici, mi vesto di nero? —
Sì, vestiti di nero. — O la mantiglia
L’abbia a prendere? — Prendila. — Davvero?
O se è caldo? — Allora non si piglia. —
Così restano in asso, e dopo un pozzo:
Che ore sono? — Son le dieci e mezzo. —
Diamine! O dove sia la cameriera?....
Basta, oramai sarà l’ultima scena;
Che diresti? — Anderemo un’altra sera. —
Sì, dici bene, è meglio andare a cena. —
E di questo galoppo, ognuno intende
Che vanno avanti anco l’altre faccende.
Liti, capricci, chiacchiere, dispetti,
Non turbano quel nodo arcibeato;
La Gelosia c’ingrassa di confetti,
Il Sospetto ci casca addormentato;
Amor ci va, sbrigata ogni faccenda,
E credo che ci vada a far merenda.