Versi - Paralipomeni della Batracomiomachia/II. Paralipomeni della Batracomiomachia/Canto I

Canto I

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II. Paralipomeni della Batracomiomachia II. Paralipomeni della Batracomiomachia - Canto II
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CANTO PRIMO

1
     Poi che da’ granchi a rintegrar venuti
delle ranocchie le fugate squadre,
che non gli aveano ancor mai conosciuti,
come volle colui che a tutti è padre,
del topo vincitor furo abbattuti
gli ordini, e vòlte invan l’opre leggiadre,
sparse l’aste pel campo e le berrette
e le code topesche e le basette;
2
     sanguinosi fuggian per ogni villa
i topi galoppando in su la sera,
tal che veduto avresti anzi la squilla
tutta farsi di lor la piaggia nera;
quale spesso in parete, ove piú brilla
del sol d’autunno la dorata sfera,
vedi un nugol di mosche atro, importuno,
il bel raggio del ciel velare a bruno.
3
     Come l’oste papal, cui l’alemanno
Colli il franco a ferir guidava in volto,
da Faenza, onde pria videro il panno
delle insegne francesi all’aria sciolto,
mosso il tallon, dopo infinito affanno,
prima il fiato in Ancona ebbe raccolto;
cui precedeva in fervide, volanti
rote il Colli, gridando: — Avanti! avanti!

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4
     o come dianzi la fiamminga gente,
che Napoli infelice avea schernita,
viste l’armi d’Olanda, immantinente
la via ricominciò ch’avea fornita,
né fermò prima il piè, che finalmente
giunse invocata la francese aita;
tale i topi al destin, di valle in valle,
per piú di cento miglia offrîr le spalle.
5
     Passata era la notte, e il dì secondo
già l’aria incominciava a farsi oscura,
quando un guerrier, chiamato il Miratondo,
a fuggir si trovò per un’altura;
ed, o fosse ardimento, ovver ch’al mondo
vinta dalla stanchezza è la paura,
fermossi; e, di spiar vago per uso,
primo del gener suo rivolse il muso.
6
     E ritto in su due piè, con gli occhi intenti,
mirando quanto si potea lontano,
di qua, di là, da tutti quattro i venti,
cercò l’acqua e la terra, il monte e il piano;
spiò le selve, i laghi e le correnti,
le distese campagne e l’oceáno;
né vide altro stranier, se non farfalle
e molte vespe errar giú per la valle.
7
     Granchi non vide già, né granchiolini,
né d’armi ostili indizio in alcun lato.
Soli di verso il campo i vespertini
fiati venian movendo i rami e il prato,
soavemente susurrando, e i crini
tra gli orecchi molcendo al buon soldato.
Era il ciel senza nubi, e rubiconda
la parte occidentale, e il mar senz’onda.

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8
     Rinvigorir sentissi, ed all’aspetto
di sií queta beltà l’alma riprese
il Miratondo. E poi che con effetto,
quattro volte a girar per lo paese
le pupille tornando, ogni sospetto
intempestivo e vano esser comprese,
osò gridare a’ suoi compagni eroi:
sí gran fede prestava agli occhi suoi.
9
     Non con tanta allegrezza i diecimila,
cui la propria virtú d’Europa ai liti
riconducea, dall’armi e dalle fila
del re persian per tanta terra usciti,
la voce udir, che via di fila in fila
s’accrescea, di color che pria saliti
onde il mar si scopria, qual chi mirare
crede suo scampo, gridar: — Mare! mare! —
10
     con quanta i topi, omai ridotti al fine
per fatica e per téma, udirò il grido
del buono esplorator, cui le marine
caverne rimuggîr con tutto il lido:
ch’era d’intorno intorno ogni confine
ove il guardo aggiungea, tranquillo e fido;
che raccôrsi e far alto, e che dal monte
di novo convenia mostrar la fronte.
11
     Altri in sul poggio ed altri appiè dell’erta
convenner da piú bande i fuggitivi,
cui la téma, in un dì, per via deserta,
mille piagge avea móstro e mille rivi;
smarriti ancora, e con la mente incerta,
e dal corso spossati e semivivi;
e incominciâr tra loro a far consiglio
del bisogno presente e del periglio.

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12
     Già la stella di Venere apparìa
dinanzi all’altre stelle ed alla luna:
tacea tutta la piaggia, e non s’udìa
se non il mormorar d’una laguna,
e la zanzara stridula, ch’uscìa
di mezzo alla foresta all’aria bruna:
d’Espero dolce la serena imago
vezzosamente rilucea nel lago.
13
     Taceano i topi ancor, quasi temendo
i granchi risvegliar, benché lontani,
e chetamente andavan discorrendo
con la coda in gran parte e con le mani,
maravigliando pur di quell’orrendo
esercito di bruti ingordi e strani,
e partito cercando a ciascheduna
necessità della comun fortuna.
14
     Morto nella battaglia era, siccome
nel poema d’Omero avete letto,
Mangiaprosciutti, il qual, credo, per nome
Mangiaprosciutti primo un dì fu detto;
intendo il re de’ topi; ed alle some
del regno sostener nessuno eletto
avea morendo, e non lasciato erede,
cui dovesser gli dèi la regia sede.
15
     Ben di lui rimaneva una figliuola,
Leccamacine detta, a Rodipane
sposata, e madre a quello onde ancor vola
cotanta fama per le bocche umane,
Rubabriciole il bel, dalla cui sola
morte il foco scoppiò fra topi e rane:
tutto ciò similmente o già sapete,
o con agio in Omero il leggerete.

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16
     Ma un tedesco filologo, di quelli
che mostran che il legnaggio e l’idioma
tedesco e il greco un dì furon fratelli,
anzi un solo in principio, e che fu Roma
germanica città, con molti e belli
ragionamenti e con un bel diploma
prova che lunga pezza era già valica
che fra’ topi vigea la legge salica.
17
     Che non provan sistemi e congetture
e teorie dell’alemanna gente?
Per lor, non tanto nelle cose oscure
l’un diì tutto sappiam, l’altro niente,
ma nelle chiare ancor dubbi e paure
e caligin si crea continuamente:
pur manifesto si conosce in tutto
che di seme tedesco il mondo è frutto.
18
     Dunque primieramente in provvedere
a sé di novo capo in quelle strette
porre ogni lor pensier le afflitte schiere
per lo scampo comun furon costrette:
dura necessità ch’uomini e fère
per salute a servaggio sottomette,
e, della vita in prezzo, il mondo priva
del maggior ben per cui la vita è viva.
19
     Stabile elezion per or non piacque
far, né potean; ma differire a quando
in Topaia tornati, ove già nacque
la piú parte di lor, la téma in bando
avrian cacciata, e le ranocchie e l’acque
e seco il granchio barbaro e nefando,
né credean ciò lontan lunga stagione,
avrian posto in eterna obblivione.

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20
     Intanto il campo stesso, e la fortuna
commetter del ritorno, e dei presenti
consigli e fatti dar l’arbitrio ad una
militar potestà furon contenti.
Cosí quando del mar la vista imbruna,
popol battuto da contrari venti
segue l’acuto grido onde sua legge
dá colui che nel rischio il pin corregge.
21
     Scelto fu Rubatocchi, a cui l’impero
si desse allor di mille topi e mille:
Rubatocchi, che fu, come d’Omero
sona la tromba, di quel campo Achille;
lungamente per lui sul lago intero
versar vedove rane amare stille;
e fama è che insin oggi appo i ranocchi
terribile a nomar sia Rubatocchi.
22
     Né Rubatocchi chiameria la madre
il ranocchin per certo al nascimento,
come Annibale, Arminio odi leggiadre
voci qui gir chiamando ogni momento;
cosi di nazion quello, che padre
è d’ogni laude, altèro sentimento,
colpa o destin, che molta gloria vinse,
già trecent’anni, in questa terra estinse.
23
     Mancan Giulii e Pompei, mancan Cammilli
e Germanici e Pii, sotto il cui nome
faccia ai nati colei che partorilli
a tanta nobiltà, lavar le chiome?
A veder se alcun di valore instilli
in lor la rimembranza, e se mai dome
sien basse voglie e voluttà dal riso
che un gran nome suol far di fango intriso?

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24
     Intanto a studio là nel Trasimeno
estranio peregrin lava le membra,
perché la strage nostra onde fu pieno
quel flutto, con piacer seco rimembra:
la qual, se al ver si guarda, nondimeno
Zama e Cartago consolar non sembra:
e notar nel Metauro anco potria
quegli, e Spoleto salutar per via.
25
     Se questo modo, ond' hanno altri conforto,
piacesse a noi di seguitar per gioco,
in molte acque potremmo ire a diporto,
e di piú selve riscaldarci al foco,
ed in piú campi dall’occaso all’orto
potremmo, andando, ristorarci un poco,
e tra via rimembrar piú d’un alloro
e nelle nostre e nelle terre loro.
26
     Tant’odio il petto agli stranieri incende
del nome italian, che di quel danno
onde nessuna gloria in lor discende,
sol perché nostro fu, lieti si fanno.
Molte genti provâr dure vicende,
e prave diventâr per lungo affanno;
ma nessuna ad esempio esser dimóstra
di tant’odio potria come la nostra.
27
     E questo avvien perché, quantunque doma,
serva, lacera, segga in isventura,
ancor per forza italian si noma
quanto ha piú grande la mortal natura;
ancor la gloria dell’eterna Roma
risplende sì, che tutte l’altre oscura;
e la stampa d’Italia, invan superba
con noi, l’Europa in ogni parte serba.

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28
     Né Roma pur, ma col mental suo lume
Italia inerme, e con la sua dottrina,
vinse poi la barbarie, e in bel costume
un’altra volta ritornò regina;
e del goffo stranier, ch’oggi presume
lei dispregiar, come la sorte inchina,
rise gran tempo, ed infelici esigli
l’altre sedi parer vide a’ suoi figli.
29
     Senton gli estrani ogni memoria un nulla
esser a quelle ond’è l’Italia erede;
sentono ogni lor patria esser fanciulla
verso colei ch’ogni grandezza eccede;
e veggon ben che, se strozzate in culla
non fosser quante doti il ciel concede,
se fosse Italia ancor per poco sciolta,
regina torneria la terza volta.
30
     Indi l’odio implacato, indi la rabbia,
e l’ironico riso ond’altri offende
lei che fra ceppi, assisa in sulla sabbia,
con lingua né con man piú si difende.
E chi maggior pietà mostra che n’abbia,
e di speme fra noi gl’ignari accende,
prima il Giudeo tornar vorrebbe in vita
che all’italico onor prestare aita.
31
     Di Roma là sotto l’eccelse moli,
Pigmeo, la fronte spensierata alzando,
percote i monumenti al mondo soli
con sua verghetta, il corpo dondolando;
e con suoi motti par che si consoli,
la rimembranza del servir cacciando.
Ed è ragion ch’a una grandezza tale
l’inimicizia altrui segua immortale.

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32
     Ma Rubatocchi, poi che della cura
gravato fu delle compagne genti,
fece il campo afforzar, perché sicura
da inopinati assalti e da spaventi
fosse la notte; e poi di nutritura
giovare ai corpi tremuli e languenti.
Facil negozio fu questo secondo,
perché topi a nutrir tutto è fecondo.
33
     Poscia mestier gli parve all’odiato
esercito spedir subito un messo,
a dimandar perché, non provocato,
contro lor nella zuffa s’era messo;
se ignaro delle rane, o collegato,
se per error, se per volere espresso,
se gir oltre o tornar nella sua terra,
se volesse da’ topi o pace o guerra.
34
     Era nel campo il conte Leccafondi,
signor di Pesafumo e Stacciavento;
topo raro a’ suoi dí, che di profondi
pensieri e di dottrina era un portento:
leggi e stati sapea d’entrambi i mondi,
e giornali leggea piú di dugento;
al cui studio in sua patria aveva eretto,
siccom’oggi diciamo, un gabinetto.
35
     Gabinetto di pubblica lettura,
con legge tal, che da giornali in fuore,
libro non s’accogliesse in quelle mura,
che di due fogli al piú fosse maggiore;
perché credea che sopra tal misura
stender non si potesse uno scrittore
appropriato ai bisogni universali
politici, economici e morali.

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36
     Pur dagli amici in parte, e dalle stesse
proprie avvertenze a poco a poco indotto,
anche al romanzo storico concesse
albergar coi giornali, e che per otto
volumi o dieci camminar potesse;
e infin, come dimóstro è da quel dotto
scrittor che sopra in testimonio invoco,
alla tedesca poesia die’ loco.
37
     La qual d’antichità supera alquanto
le semitiche varie e la sanscrita,
e parve al conte aver per proprio vanto
sola il buon gusto ricondurre in vita,
contro il fallace oraziano canto,
a studio, per uscir dalla via trita,
dando tonni al poder, montoni al mare;
gran fatica, e di menti al mondo rare.
38
     D’arti tedesche ancor fu innamorato,
e chiamavate a sé con gran mercede:
perché, giusta l’autor sopra citato,
non eran gli obelischi ancora in piede,
né piramide il capo avea levato,
quando l’arti in Germania avean lor sede,
ove il senso del bello esser piú fino
veggiam che fu nel Greco o nel Latino.
39
     La biblioteca ch’ebbe era guernita
di libri di bellissima sembianza,
legati a foggia varia, e sí squisita,
con oro, nastri ed ogni circostanza,
ch’a saldar della veste la partita
quattro corpi non erano abbastanza.
Ed era ben ragion, che in quella parte
stava l’utilità, non nelle carte.

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40
     Lascio il museo, l’archivio, e delle fiere
il serbatoio, e l’orto delle piante,
e il portico, nel quale era a vedere,
con baffi enormi e coda di gigante,
la statua colossal di Lucerniere,
antico topolin filosofante,
e dello stesso una pittura a fresco,
pur di scarpello e di pennel tedesco.
41
     Fu di sua specie il conte assai pensoso,
filosofo morale, e filotópo;
e natura lodò che il suo famoso
poter mostri quaggiú formando il topo,
di cui l’opre, l’ingegno e il glorioso
stato ammirava; e predicea che, dopo
non molto lunga età, saria matura
l’alta sorte che a lui dava natura.
42
     Però mai sempre a cor fugli il perenne
progresso del topesco intendimento,
che aspettar sopra tutto dalle penne
ratte de’ giornalisti era contento;
e profittare a quel sempre sostenne
ipotesi, sistemi e sentimento;
e spegnere o turbar la conoscenza
analisi, ragione e sperienza.
43
     Buon topo d’altra parte, e da qualunque
filosofale ipocrisia lontano,
e schietto insomma e veritier, quantunque
ne’ maneggi nutrito e cortigiano;
popolar per affetto, e da chiunque
trattabil sempre; e, se dir lice, umano;
poco d’oro, e d’onor molto curante,
e generoso, e della patria amante.

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44
     Questi al re de’ ranocchi, ambasciatore
del proprio re, s’era condotto, avanti
che tra’ due regni il militar furore
gli amichevoli nodi avesse infranti:
e com’arse la guerra, appo il signore
suo ritornato, dimorò tra’ fanti,
e sotto tende, insin che tutto il campo
dal correr presto procacciò lo scampo.
45
     Ora ai compagni, ricercando a quale
fosse in nome comun l’uffizio imposto,
che del campo de’ granchi al generale
gisse oratore, e che per gli altri tosto
d’ovviar s’ingegnasse a novo male,
nessun per senno e per virtú disposto
parve a ciò piú del conte; il qual di stima
tenuto era da tutti in su la cima.
46
     Cosi da quelle schiere, a prova eretto
l’un piè di quei dinanzi, all’uso antico,
fu, per parer di ciascheduno, eletto
messagger dell’esercito al nemico.
Né ricusò l’uffizio, ancor ch’astretto
quindi a gran rischio: in campo ostil, mendico
d’ogni difesa, andar fra sconoscenti
d’ogni modo e ragion dell’altre genti.
47
     E sebben lassa la persona, e molto
di posa avea mestier, non però volle
punto indugiarsi al dipartir: ma, còlto
brevissimo sopor su l’erba molle,
sorse a notte profonda, e seco tolto
pochi servi de’ suoi, tacito il colle
lasciando tutto, e sonnolento, scese,
e per l’erma campagna il cammin prese.