Vecchie storie d'amore/II/Disperazione

Disperazione

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II - Dio lo vuole! III
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DISPERAZIONE

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Di tre vergini, che in una casa presso la chiesa di Rumello vivevano sole nella religione, la piú giovane superava le due altre co ’l fervore della sua fede. Ancora bambina, orfana di genitori nobili, l’avevano condotta seco le due altre e allevata fuori del mondo nel timor di Dio; ed essa era cresciuta fanciulla serbando la mente pura e l’animo semplice nella severa e sincera abitudine della devozione. Neppure le turbò il pensiero lo sviluppo dell’adolescenza: che se talvolta le espressioni dei concetti mistici e quei discorsi delle compagne intorno le nozze con Dio e la dilettazione dello sposo celeste le penetravano nell’imaginativa a suscitarle il sospetto e quasi la sensazione del significato proprio, súbito ritorceva lo spirito piú acceso dal segreto [p. 84 modifica] moto sensuale a vedere il Nazareno che accoglieva, irradiato della sua luce eterea e sublime, l’anima d’ogni vergine degna delle sue nozze: la Madonna benediceva sorridendo e sorridevano tutti intorno, tra i concenti di musiche arcane, i santi e i cherubini.

Dio la soccorreva anche nei sogni. E le visioni mirifiche, il giorno, ora l’esaltavano a strane gioie ed ora l’umiliavano con dolore acerbo. Nel gaudio era Dio che scendeva a lei? Ella ascendeva a Dio e sentiva l’anima sua dilatarsi, rifulgere, come dissolversi per la grazia del divino amore; e s’abbandonava, inebriata, al rapimento sovrumano.

Solo nel crepuscolo della sera, il Signore le pareva piú lungi, troppo lungi, da lei; e per fuggire alle tenebre imminenti l’anima sua provava il desiderio d’uscire dalla carcere corporea, di tornare là ond’era venuta al mondo e dove Dio l’attendeva, purificata da l’umano patire, con infinito bene. Oh perché non aveva penne da levarsi libera e lieta dalla terra? Non era ancora degna di morire: il suo sposo troppo piú di lei [p. 85 modifica] aveva sofferto; e prima di rivolgere al cielo gli occhi desiosi Egli aveva faticato sotto il peso della croce e sanguinato da orribili ferite e pianto; essa né sapeva piangere di quelle lagrime, né poteva bagnare l’anima nel sangue dell’agnello, né provare entro la carne gli spasimi del Crocefisso: mentre piangeva; essa scorgeva Cristo crocifisso nel sole che calava con un fulgore sanguigno all’orizzonte.

Ma un giorno di festa all’oratorio della chiesa cantarono alcuni valenti cantori. Dal luogo nel quale stava, non veduta, la vergine non vedeva persona, solo udiva; e negli intervalli udiva il bisbiglio vago, l’udibile silenzio della folla ristretta che prega e che ascolta; e salivano a lei ondate d’incenso, di caldo e quasi palpiti di vita. Ripreso, il canto si devolveva grande e solenne senz’avere in sé modo alcuno che non convenisse a glorificare Iddio; pure una voce tra le altre del coro piú alta e piú snella la distraeva suscitandole come la pena [p. 86 modifica] d’un’antica sciagura — e non sapeva quale — ridesta e confortata in una dolcezza di ricordo indefinito, o, piú tosto, il presentimento d’una pena prossima cui già tardasse una consolazione attesa — e non sapeva quale. Senza che pensasse: non madre, non parenti, nessuno, altro che Dio!, ella sentiva tutta la malinconia di questo pensiero nel suo cuore vuoto.

E un altro giorno dal basso, dal villaggio, tra il murmurc delle voci e delle opere, le giunse un canto d’uomo e credé riconoscere il cantore dell’oratorio. La voce dell’uomo non piú tenuta ai modi lenti e fermi della salmodia seguiva il vario ritmo della canzone, cosí dolce ad udire che la vergine l’ascoltò per afferrarne ogni parola: parole d’amore, soavi, fervide, mirabili vennero a lei, oltrepassarono e si dileguarono lontano nel rumore torbido, lasciandole ora un’impressione definita di meraviglia e di sbigottimento perché da esse aveva compreso espandersi al sole e all’aria libera tutta la felicità piena e baldanzosa della vita umana; perché aveva veduto il giovane che cosí cantava. Sbigottita, ella non si [p. 87 modifica] ritrasse quando a rivederlo nei dí seguenti fu veduta da lui; meravigliata, non si ritrasse quando s’accorse ch’egli lodava in lei la bellezza della donna amata e l’attendeva e la cercava e la sollecitava ad osservare in lei medesima la bellezza della donna amata. E finalmente una forza, una smania piú valida della sua volontà la spinse, avvolta di lusinghe e non piú inconscia della colpa, nell’inganno. Quando, finalmente, poté vederlo vicino, quell’uomo, udirlo vicino, essa soggiacque.


Co ’l disgusto dell’azione brutale ricevuta in sé le rimase uno stupore amaro: erano quelle le segrete voluttà dei sensi? quello l’irresistibile segreto dell’amore? Poi ebbe la vergogna della nudità che fu conosciuta e si conobbe; della carne che sentí la carne; della verginità svelata a forza e perduta volentieri, e piangendo ebbe il pensiero dell’ulteriore castigo che alla colpa sarebbe conseguito visibile nel suo corpo, del castigo ultimo [p. 88 modifica] che alla morte del corpo sarebbe conseguito all’anima sua.

Prese ad odiare sé stessa piú di chi l’aveva soggiogata. Ma non la paura della pena le era pena bastevole: non la vergogna, per cui avrebbe voluto nascondersi alle sue compagne e fuggire; non l’odio di sé, per cui avrebbe voluto distruggersi: non bastava. In ogni momento de’ suoi tristi giorni il pensiero del peccato commesso le cadeva su l’anima come la goccia su la pietra che incava; e il dolore, nel suo petto, diveniva come un peso che cresceva cresceva a soffocarla. Le sue labbra perdevano la voce e il cuore le veniva meno: immota, le mani bianche abbandonate sulle ginocchia, il viso squallido, gli occhi privi di lagrime e di luce, insensibile, l’ammiravano le compagne; n’ammiravano la perfezione dell’umiltà e della fede.

E non bastava. Ella doveva scorgere in sé tutto il male dell’anima sua, considerarlo senza piú rimedio e speranza alcuna di salute, senza tregua e senza pietà, in eterno: ella stessa doveva misurare, ella stessa, con sottile indagine, la propria [p. 89 modifica] colpa: — Peggio dell’adultera: l’adultera manca alla fede dello sposo terreno; essa allo sposo celeste. Peggio della meretrice: la meretrice avanti di darsi a tutti gli uomini non si diede vergine a Dio. Peggio del ladro: essa aveva rubato a Dio un’anima, la sua. Peggio dell’assassino: Dio aveva ferito, Dio!

E non bastava. Gridava perdono, e sentiva respingersi alla pena vigile e continua; si lasciava strozzare dal dolore, e non moriva. Il Dio che aveva segnato del suo sangue il cammino per andare a lui, che aveva quetato il dolore dell’adultera e perdonato al ladrone e perdonato alla Maddalena, diviso dal suo pensiero per sempre si celava dentro di lei vendicatore assiduo e perenne e la mordeva, la rodeva, la consumava, spietato, lentamente. La ragione le veniva meno. Presso lei, invisibile, chi rideva cosí? Chi parlava?

— Per serbare la verginità Agnese sostenne d’essere esposta alle sozzure del lupanare e non fu tócca, e le chiome diffuse ne celarono la nudità agli sguardi virili. Mille uomini non riuscirono a trascinare nel postribolo Lucia di Siracusa.

Un demone la derideva da presso, invisibile. [p. 90 modifica]

— Regina, per serbare la verginità, pati la stretta d’un cerchio di ferro e gli strappi di tanaglie infuocate. Orsola e le sue compagne furono trafitte dai ladroni nella selva, ma morirono vergini.

Il demone ghignazzava, allegro.

— A perdere la virginità Petronilla preferì morire d’inedia; Domitilla fu bruciata viva.

Ghignazzava il demone.

— Cunegonda la casta passava su vomeri roventi....

E il demone le fu sopra, l’avvinse, l’invase, si contorse entro di lei mugghiando per la sua bocca e stridendo attraverso i suoi denti stretti: ella agitava le membra, frenetica, e dalla bocca emetteva una schiuma bianca.

Intanto le compagne piangevano e dicevano: — O spirito malvagio, partiti da questa serva di Dio!

Ma essa nella convulsione urlò:

— Impura! io sono impura