Vae Victis/Parte terza/XXIII
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XXIII.
Il bambino aveva già tre settimane, ed ancora Chérie non aveva veduto nè amiche nè conoscenti; nessuno era venuto a trovarle ed ella non osava uscire. Di giorno si vergognava di farsi vedere per le vie, e dopo il tramonto i regolamenti dell’invasore vietavano agli abitanti di Bomal di uscire dalle loro case.
Chérie tremava al pensiero di doversi incontrare con qualcuno di conoscenza. Vero è che ben pochi ne rimanevano nel villaggio; chi aveva potuto partire, era partito. Gli uni si erano rifugiati all’estero, gli altri si erano radunati nelle grandi città, come Liegi o Bruxelles, sperando forse di trovarvi libertà maggiore e di sentirvi meno amaramente il loro stato di sottomissione e di schiavitù.
Venne un giorno un telegramma che richiamava Mary Elliot a Liegi. Era un soleggiato pomeriggio verso la fine di maggio, e l’infermiera, chiusa la sua valigia, ripiegato il suo mantello, si accinse alla partenza.
Chérie piangeva. «Restate ancora, Nurse Elliot, restate ancora con me!...»
«Impossibile, mia cara,» rispondeva Miss Elliot, che non voleva sembrare commossa. «Devo tornare al mio posto a Liegi. Del resto qui non avete più bisogno di me.»
«Oh! tanto bisogno abbiamo di voi!» pianse Chérie. «Io mi sentirò così sola, così abbandonata!»
«Abbandonata? Col vostro bambino? Con vostra cognata? Sciocchezze!» disse l’infermiera in tono energico, scoccando un bacio sulla guancia pallida di Chérie.
«Ma Luisa mi parla appena!» singhiozzò quella, desolata. «Sapete pure ch’essa odia il mio bambino e me!»
«Sciocchezze!» ripetè, Miss Elliot. Ma in cuor suo sentiva che Chérie diceva il vero.
Era infatti impossibile non accorgersi dell’avversione quasi morbosa che Luisa provava per il povero piccolo intruso. Luisa stessa, per quanto tentasse di vincere o di nascondere questo sentimento non ci riusciva. Ogni lineamento di quel minuscolo viso, ogni filo dei fini capelli d’oro chiaro, e la piccolissima bocca imbronciata, e gli strani occhi d’un grigio chiarissimo — tutto, tutto le era odioso, tutto le faceva orrore e ribrezzo e paura.
Quando vedeva Chérie sollevarlo e baciarlo, si sentiva impallidire; quando vedeva al petto di Chérie quella piccola testa impaziente, e le manine cercanti e tastanti sul giovane seno materno, era presa da un senso di nausea e di esecrazione. Per quanto ella dicesse a sè stessa che questo era irragionevole e crudele, pure non riusciva a vincere un sentimento che aveva le sue radici nella più profonda essenza della sua anima belga. Il suo odio era un istinto primitivo, ingenito, come ingenito ed istintivo era l’amore di Chérie per la sua creatura.
«Oh, sì, sì, Mary! Luisa ci odia, ci odia entrambi,» ripetè Chérie stringendosi con gesto disperato le mani sul cuore. «Se mai per un istante mi accade di scordare le nostre tristezze, se gioco col piccino e gli sorrido, subito sento gli occhi di Luisa fissi su di noi, ostili, implacabili. Luisa ci odia. E tutti, tutti ci odieranno così. Sì! Sì! Tutti ci guarderanno con quegli occhi d’ira e di disprezzo. Ahimè! Dove, dove andremo a nasconderci, io e quel povero piccolo essere sfortunato?»
E volse uno sguardo lacrimoso alla porta della camera che celava la culla.
Mary Elliot sospirò; poi si legò la cuffia sotto al mento e si mise i guanti. Era pronta alla partenza.
«Mia piccola amica,» disse gravemente ponendo le due mani sulle esili spalle di Chérie, «il fato, qualunque esso sia, lo dovrete affrontare. E lo affronterete con coraggio.» La baciò affettuosamente sulle due guancie. «Ed ora se mi volete un po’ di bene, se in questi tristi giorni ho potuto confortarvi un poco — ecco venuto il momento di compensarmene!»
«Ah, come — come potrò mai compensarvi?» singhiozzò Chérie.
«Mettendovi il cappello, prendendo il vostro bambino tra le braccia, ed accompagnandomi alla stazione.»
«Alla stazione! Io!... col bambino! — oh, no! Non me lo chiedete!» Una vampata di rossore le era salita al viso.
In quel punto entrò Luisa pronta ad uscire.
«Sì,» ripetè l’infermiera fissando in volto a Chérie i suoi occhi risoluti. «Mi accompagnerete alla stazione — voi, vostra cognata ed il bambino. Verrete tutti e tre a dirmi addio e ad augurarmi buona fortuna.»
«Ve ne supplico, non mi chiedete questo,» mormorò Chérie.
«Lo chiedo,» disse Mary gravemente; «e voi non me lo potete rifiutare. Non vi ho forse dato molti giorni e molte notti di veglia e di cura? E molto affetto e molta tenerezza? Ebbene, questo è l’unico compenso che io vi chiederò.» Si avvicinò ancor più a Chérie e la circondò col braccio. «Ma non capite, cara, che prima o poi, oggi o domani, dovrete pur decidervi a questo passo che tanto vi spaventa? Non vorrete già chiudervi per sempre fra queste quattro mura, voi e il vostro bambino! Su dunque, prendete il vostro coraggio a due mani e venite fuori ad affrontare il mondo! Oggi — immediatamente — mentre ancora io sono con voi.»
Chérie esitava, pallida e titubante. D’un tratto si volse a Luisa:
«Tu — tu usciresti con me?»
Vi era tanta umiltà, tanta angoscia in quella domanda che Luisa ne fu tocca.
«Ma certo, cara,» rispose. «Corri, corri a vestirti.»
A quella risposta il cuore di Chérie ebbe un palpito di gioia. Afferrò la mano di Luisa e la baciò; poi corse rapida nella sua camera.
Indossò il modesto vestito nero che aveva portato nel viaggio dall’Inghilterra; ma il bambino lo vestì con tutto ciò che aveva di più bello. Gli mise il mantello bianco ricamato da lei, e la cuffietta di merletti adorna di nastri celesti, e le più eleganti scarpette a maglia di seta azzurra. Poi lo prese in braccio e andò a mettersi con lui davanti allo specchio.
Insomma, dopo tutto, era un gran bel bambino, non è vero? Non si poteva dire che non fosse bello come un cherubino. La gente avrebbe forse potuto odiarlo non conoscendolo.... ma appena l’avessero visto!...
Tremante, arrossente, sorridente, ella apparve al cancello del cortile dove già Mary Elliot e Luisa l’aspettavano. In mezzo a loro due uscì nella via e s’avviò tremante. Assai giovane, assai commovente ell’era, colle guancie vermiglie per l’emozione, volgendo in giro gli occhi lucenti e timorosi.
Chissà se incontrerebbero qualcuno? Qualcuno di loro conoscenza?....
Sì. Incontrarono Mademoiselle Veraender, la maestra di scuola. Questa le guardò, trasalì, poi facendosi di fuoco in viso, passò dall’altra parte della strada. Poi incontrarono Madame Linkaerst con sua figlia Clairette, compagna di scuola di Chérie. La ragazza diede un’esclamazione di gioia nel riconoscerle, ma la madre la prese bruscamente pel braccio e svoltò con lei in una via laterale. Incontrarono quattro soldati tedeschi che fumavano e parlavano ad alta voce tra di loro; questi si fermarono a guardare con curiosità l’infermiera della Croce Rossa americana; poi guardarono Luisa; poi Chérie, col suo bambino in braccio.
Uno di loro fece un’osservazione e gli altri dettero in una grande risata. Si fermarono tutt’e quattro in mezzo alla strada a guardare le tre donne, e quello che pel primo aveva parlato, fece con la mano un gesto di saluto a Chérie.
«Was haben wir da? Ein Vaterlandskindlein, gewiss!»
E gettò un bacio al piccino.
Tre o quattro monelli che correvano dietro ai soldati beffeggiandoli e imitando la loro andatura arrogante, videro quel gesto e l’interpretarono colla malizia che caratterizza il monello d’ogni paese. Anch’essi si misero ironicamente a gettare baci a Chérie e al bambino, gridando: «Petit boche, quoi?... Fi donc le petit Prussien!»
Chérie tremava come una foglia.
Un uomo che passava, zoppo e non più giovane, comprese la situazione e rincorse i ragazzi col suo bastone. Allora altra gente si fermò. Qualcuno tra essi riconobbe Luisa e Chérie; ma nessuno le salutò; nessuno sorrise al bambino nella sua cuffietta coi nastri ceruli e il suo mantello ricamato... Tre o quattro oziosi seguirono le donne fino alla stazione, ridacchiando e lanciando frizzi grossolani ed insultanti.
Mary Elliot partì. Fu una triste separazione.
Allora Luisa e Chérie tornarono a casa silenziose, facendo un gran giro per evitare le strade più frequentate. Mentre risalivano il viottolo ombroso dietro la casa, Luisa volse uno sguardo alla cognata e si sentì stringere il cuore. Povera piccola Chérie! Quanto era bambina ancora, nonostante i suoi diciannove anni! E come triste, spaurita e vergognosa! Come aiutarla? Quale conforto porgerle? Quale speranza?
Nessuna! Nessuna! A meno che il bambino morisse.
Ma perchè avrebbe dovuto morire quella nefasta creatura? Non era esso forse frutto della giovinezza potente e della brutale vitalità? Non traeva il suo sostentamento dalle più pure sorgenti della vita? Perchè avrebbe dovuto morire? No, il bambino vivrebbe — vivrebbe per essere fonte di danni e di dolori, per portare vergogna e tristezza a tutti. Vivrebbe a ricordo eterno dell’oltraggio nemico, vivrebbe per tenere accesa eternamente la fiamma dell’odio nei loro cuori.
Chérie sentendo su di sè lo sguardo di Luisa si volse a lei con un rapido palpito di speranza.
All’anima sua sensibilissima non era sfuggito quel primo soffio passeggero di compassione e di tenerezza. Che Luisa volesse rivolgerle una parola di conforto e di pietà?... Che la vista del povero piccolo innocente le avesse finalmente toccato il cuore?
Ah, no! no! Ecco ancora negli occhi di lei quel lampo di risentimento, quel fiammeggiare terribile d’ira e di vergogna.
Abbassando ancor più il capo sul suo bambino, Chérie affrettò il passo e rientrò in casa.