Uomini e paraventi/Capitolo I
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Capitolo I.
Appartenente alla famiglia del Niudô1 Hamana vicerè del Cuantô,2 viveva nei tempi antichi un nobil uomo per nome Abosci Tamontarô Caziosci. Signore di mezza la provincia di Cádsusa, amico delle lettere, valente in armi, circondato da familiari numerosi e di buon nome; per autorità e potenza era appena da meno del vicerè.
In vicinanza di Cobúcuro-Saca, paesello del territorio di Camacúra nella provincia di Sagami,3 s’era egli fatto mettere in tutto punto un bellissimo castello: e possedendo anche luoghi di delizie in quei dintorni, come a dire in Oíso, a Canazava, ed altri altrove non pochi, menava vita da ricco splendida e lieta.
S’era là sulla fine d’autunno, quando, con l’intenzione di godersi la vista degli alberi ormai tutti rivestiti di frondi rosse, e con animo anche di saettare alla caccia i fagiani, Tamontarô si recò al suo villino d’Oíso, che di recente avea fatto rimettere a nuovo: e quivi dopo tutto un giorno passato a diporto, di primissima sera giunse a un padule che aveva nome Scighi-tazzu-sava.4 Era un luogo quanto mai solitario e lontano dalle abitazioni degli uomini, senz’altro edifizio che un vecchio tabernacolo là da una parte, dove a ragione erano stati scolpiti i pochi versi che ispirò questo deserto al poeta Saighiô:
«La tristezza che a mio mal grado mi assale, so ben io d’onde viene. In questa solitudine di Scighi-tazzu-sava mi coglie in autunno il cader della sera.»
Proprio in quel momento, di rimpetto ai nuovi venuti, ma in distanza, uno scighi, ossia beccaccino,5 si mise a razzolare.
«Oh oh!» prese a dire un samurai6 del séguito, «degnatevi guardare, mio buon signore. Questo padule di Scighi-tazzu-sava è già rinomato, ma ora che gli scighi vi sono davvero, sorgerà in fama sempre maggiore. Da pochi minuti soltanto vi è piaciuto sedere presso questo tabernacolo, ed ecco subito si veggono scighi levarvisi a volo. Se poi si considera che la stagione è l’autunno, e l’ora il tramonto, è chiaro che non manca un ette al caso che descrive il poeta Saighiô ne’ suoi versi.»
A queste parole Tamontarô diede in uno scoppio di risa:
«Quando si legge scighi-tazzu-sava, l’idea del levarsi a volo non v’entra per ombra. È semplice caso che queste parole suonino come se si parlasse del sorger da terra di un uccello.7 Nel delineare i caratteri cinesi di quella poesia, se vi si avesse a mettere il simbolo del volo, si cadrebbe di errore in errore.8 Vedete dunque che qui non si tratta nè di razzolare nè di volare; ma deve leggersi Scichi-tazzu-sava, intendendo queste parole nell’unico senso che si conviene alla solitudine di questo luogo.»
Nonostante tale spiegazione, il samurai, digiuno com’era d’arte poetica, sia che non intendesse bene il discorso, o che sbadatamente lo avesse udito, con eguale spensieratezza soggiunse: «Di qui al luogo dove sta quell’uccello, saranno trenta canne a un bel circa.»
Sentendo queste parole, e non approvandole, un altro samurai del séguito replicò: «Che mai! Quello che chiamano scighi è un animaletto del genere delle quaglie, e per poterlo vedere a questa luce che fa ora, non dovrebbe stare a più d’una ventina di canne.»
Il primo samurai scosse il capo e riprese: «Lo starsene là fermissimo, senza lasciarsi spaventare dalla voce alta di tanta gente, vi sia prova che è lontano da noi d’una buona distanza.»
«Niente affatto! Per quanto io mi provi di guardare a traverso il pugno chiuso, studiandomi di prender di mira un piccolo punto, a cotesta distanza che voi dite non mi riesce di scorger nulla.»
In tali discorsi i due samurai s’andavano accalorando, nè v’era indizio che la contesa dovesse aver termine. Ma ecco quel che avvenne.
Il figlio di Mizuma Ughenda, samurai al servizio di Tamontarô, che aveva nome Dômio Scimanosche, garzoncello d’appena quattordici anni, come peggio di quelli che mai non si discostano dal fianco del loro signore, anche quel giorno formava parte della nobile comitiva. Questo giovinetto dunque si fece innanzi ai due contendenti, e disse:
«Or vi piaccia una volta di cessare da simil disputa. Basta la mia sottil freccia per farvi conoscere la misura di questa distanza.»
Sollevato in così dire il fianco dei larghi calzoni, e rincalzatolo nella cintura, incoccò d’un sol colpo, e teso l’arco di tutta forza, lasciò partire la freccia; che sibilando sfiorò il dosso dell’animale, e rimase fra i giunchi. Il beccaccino volò via spaventato.
Tamontarô andò sulle furie.
«Un ragazzo tuo pari piantar là in questo modo un vecchio guerriero! Bella cosa in verità cotesto tuo volerti impacciare in quel che nessun ti domanda! E di più, non ti vergogni d’aver anche fallito il colpo?»
A questi ed altri più cocenti rimproveri Scimanosche, lasciando anch’egli trasparire dal viso il proprio risentimento, con impeto gettò l’arco da una parte, e disse ad un servo: «Riportami qui la mia freccia.»
Il servo, senza intendere il perchè di quest’ordine, scese fin dentro il padule, e ritrovata a stento la freccia, venne a porgerla al giovinetto. Scimanosche la prese in mano, e niente timido nel portamento, si fece innanzi al padrone:
«Siccome non aveva mai fine la disputa di quei due, sostenendo l’uno che il punto dove stava quell’uccello era vicino, e l’altro che era lontano, mi è venuto in pensiero, che, misurando quello spazio, io poteva decidere la questione. Ho dichiarato fin da principio che volevo misurar la distanza, e non ho mai parlato di voler colpire di pieno l’uccello. Degnatevi di guardar qui, mio signore: per la ragione che ho detto, io non mi son servito di una freccia appuntata, ma d’una freccia a capocchia di legno in forma di rócca:9 e poichè dentro a questa specie di rócca è rimasta una piuma di beccaccino, non vi può esser dubbio che la freccia non l’abbia toccato. Benchè di cose poetiche io m’intenda quanto il più rozzo dei barbari dell’Oriente, un’idea dello spazio e del tempo l’ho anch’io. Comunque, certo è che l’intenzione di fermar l’uccello con un colpo di freccia, io non l’ho avuta. Eppure, questo ragazzo inesperto, questo che tutti voi chiamate col soprannome di Braccetto, la sua mira non l’ha fallita: e la penna che è rimasta nella capocchia della mia freccia, sia prova che il punto dove stava l’uccello è vicino.»
Questo discorso fu pronunziato dal giovinetto con una scioltezza di lingua a tutt’altro buona che a calmare le furie di Tamontarô.
«Chiámati anche dalla parte della ragione. Non sai dunque far altro che stare a tu per tu con chi ha il diritto di comandarti? Gettar via l’arco in quel modo che hai fatto or ora, è lo stesso che averlo gettato addosso a me. Se io lasciassi impuniti simili atti, darei motivo a far dire di me, che per eccesso di benevolenza dimentico i princípi di una severa disciplina e tengo a’ miei ordini persone indegne. Così tu, con disonore della famiglia, sei già tal furfantello da meritare che io ti condannassi a squarciarti le viscere: ma, poichè porti ancora il ciuffo dinanzi come un fanciullo, da fanciullo io ti voglio trattare. Fin da questo giorno tu sei bandito dalla mia casa. Toglimiti dinanzi!»
Ai lineamenti del suo signore stravolti dall’ira, al sentirsi fulminato da quegli sguardi, Scimanosche, senza più proferir parola, deposte sciabola e daga, con gli occhi a terra, senza neppure un saluto, lasciò quei luoghi.
Quel giorno Ughenda, il padre di Scimanosche, non era della brigata: e non essendo il giovinetto, forse per vergogna, tornato a casa neppur di nascosto per avere un colloquio col padre, non si potè sapere nè qual direzione nè quale stanza avesse presa lontano da’ suoi.
Note
- ↑ Niudô è un antico titolo di nobiltà.
- ↑ Vasta regione intorno a Jedo, divisa in otto provincie.
- ↑ Nome di una delle otto provincie del Cuantô, detta alla cinese anche Sesciu. Cádsusa, nominata poco sopra, è al S-E, e Sagami al S-O di Jedo.
- ↑ È nel distretto Tò-ki della provincia Sagami.
- ↑ Si osservi che la parola scighi forma parte del nome proprio Scighi-tazzu-sava, il quale, scritto in caratteri cinesi e interpretato secondo il valore di questi, può significare: Padule (sava), da cui sorgono (tazzu) beccaccini (scighi).
- ↑ I samurai sono familiari, servi o ministri, paragonabili ai nostri bravi del medio evo.
- ↑ Abbiam detto che interpretando alla lettera i caratteri cinesi, con cui è scritto il nome Scighi-tazzu-sava, si può intendere: «Padule da cui sorgono gli scighi o beccaccini.» Ma un dizionario sinico-giapponese ci fa sapere che nel campo di cui si parla, v’era in antico un sepolcreto. Sebbene dunque sia stato scritto scighi col carattere cinese che significa «Beccaccino,» si è voluto alludere a tutt’altro: cioè si è messo quel solo carattere in luogo di due altri che pur si leggono sci-ghi o sci-chi, ma che invece valgono «Tavolette mortuarie» o «Lapidi mortuarie.» Quel nome dunque significa: «Padule o campo su cui sorgono lapidi mortuarie.» Le parole che aggiunge Tamontarô sembrano far credere che il simbolo cinese dello scighi o beccaccino sia stato messo per errore o per abuso.
- ↑ Da un’incisione del testo, non meno che da queste parole, si rileva che il vocabolo tazzu «Sorgere, Elevarsi» era scritto sulla pietra del tabernacolo nei caratteri sillabici del Giappone, e non rappresentato per mezzo di un simbolo cinese.
- ↑ Di tali frecce si servono i Giapponesi in certe cerimonie di scongiuri, ed anche, secondo altri, per mandar lettere nel campo nemico.