Una delle ultime sere di Carnovale/Nota storica

Nota storica

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Atto III
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NOTA STORICA.

Nel numero 97, che uscì ai 6 febbraio 1762, la Gazzetta Veneta redatta dall’abate Pietro Chiari annunciava: «Nel Teatro a S. Luca si promette altresì una Commedia col titolo: Un giorno di Carnovale»; e quindi aggiungeva: «nel che si osservi come due fantasie Poetiche incontrate si sono nella somiglianza de loro Comici pensieri, senza che l’una sapesse dell’altra, perchè anche nel Teatro a S. Gio. Crisostomo, dopo la Commedia delle Bronze coverte, se il tempo lo permetterà, se ne rappresenterà un’altra intitolata: El Zioba grasso, di carattere corrispondente al suo titolo».

Del Zioba grasso, commedia scritta dal Chiari e recitata dal Medebach, null’altro possiamo dire, perchè non fu mai stampata. Quella del Goldoni ebbe un ottimo successo, come racconta l’autore nelle Memorie; e la sera del martedì grasso (23 febbraio) l’ultima recita si chiuse fra le grida del pubblico veneziano che augurava buon viaggio e felice ritorno a chi da quattordici anni con fatica costante aveva arricchito di tanti capolavori il teatro, e si allontanava dalle lagune, ov’era nato, verso l’ignoto destino. Buon viaggio, Tornate presto. Il Goldoni confessa che da questa affettuosa manifestazione fu commosso alle lacrime; e ricordò forse quella sera ormai lontana in cui il pubblico del S. Angelo, dopo la recita dei Pettegolezzi delle donne, ultima delle sedici commedie dell’anno 1750-51, festeggiò il figlio diletto di Venezia. Buon viaggio, Tornate presto. Il Goldoni partiva col cuor strazzà, ma la partenza fu senza ritorno.

Il pregio massimo di questa commedia consiste appunto nella tenerezza che pervade qua e là i personaggi, e nel ricordo storico che le è per sempre associato. Nessun artista comunicò mai così familiarmente e così profondamente col pubblico, come il Goldoni. Il Goldoni fa salire il pubblico stesso sul palcoscenico e scende egli stesso fra i suoi uditori. Mai l’arte fu più popolare. In questa commedia vi è quasi una conversazione larvata fra il pubblico e l’autore. Con modestia il Goldoni, per bocca di Anzoletto, ricorda l’opera sua passata e accenna alla futura; fa le sue confidenze sul viaggio pagatogli; mescola le lodi della sua patria: Venezia no xe scarsa de bei talenti ecc.; si lagna con dolcezza delle satire; di questo solamente si vanta: mi no gh’ho altro de bon a sto mondo che la schiettezza de cuor; lascia che altri si meravigli della sua partenza (a. II, sc. 7); e finalmente, vinto dagli affetti, prorompe in quelle parole dell’ultima scena, piene di pianto represso, che commuovono ancora, dopo un secolo e mezzo, ogni Veneziano, come l’ultima sera [p. 222 modifica] del carnevale 1762 nel teatro di S. Luca: Mi scordarme de sto paese? ecc. (G. Ortolani, Della vita e dell’arte di C. G., Venezia, 1907, p. 120). Il Goldoni non poteva lasciare il suo teatro, la sua patria, come uno qualunque. Egli doveva salutare i suoi amici, le persone care, e queste comprendevano l’intera città; perchè in un simile momento, per chi si chiama Carlo Goldoni, non ci sono più rivali, avversari, nemici; a chiunque parla el lenguazo veneziano Carlo Goldoni getta le braccia al collo, con le lacrime agli occhi. Tutto ciò che egli sente nel cuore, lo dice a tutto il pubblico; e riesce a trasfondere nella commedia la propria commozione. Chi ascolta, chi legge, sente e pensa una sola cosa, dalle prime scene alle ultime: Goldoni parte, va via.

Se noi giudichiamo la commedia con criteri puramente estetici, ne scorgiamo facilmente i difetti, che ci impediscono di riporla fra i capolavori goldoniani, benchè si regga ancora sul palcoscenico italiano, contro la speranza stessa dell’autore. «La Commedia» dice nella prefazione scritta molti anni dopo in Francia, «non potea passare che in quella tale occasione, e credo, dopo quel tempo, non sia più stata rappresentata». Ma egli stesso vi trovava delle cose che «anche senza l’allegoria possono recare qualche diletto»; e i caratteri gli parevano «veri, semplici, e piacevoli, indipendentemente dal fondo della Commedia». Ci sembra questo, dopo tanto tempo, un giudizio del tutto equo. Solo manca ai personaggi il rilievo necessario a farne delle figure propriamente originali e vive: il loro volto appare e scompare. Qualche volta si scivola nella caricatura; qualche volta nella prolissità, che nuoce. Spesso il Goldoni introduce nell’azione un pranzo o un giuoco, ma qui la partita alla meneghella, per quanta sia l’arte, si trascina di soverchio. L’azione si dimostra insufficiente a riempire tre lunghi ati. L’amore di Domenica e Anzoletto non è gran cosa; il matrimonio del prudente Zamaria con madama Gatteau non si giustifica. La stessa novità vien meno, per chi conosca il teatro goldoniano, tolta la commovente partenza di Anzoletto, per la quale fu scritta tutta la commedia. Ma resta la nuova e squisita pittura della vita borghese veneziana; resta e ride e splende il dialogo veneziano, di cui maestro eccellente è il Goldoni: onde in ogni scena dobbiamo ammirare certi spunti degni dei più bei capolavori goldoniani e del grande teatro comico.

Vero è che più indulgenti dell’autore stesso si mostrarono i posteri. Una d. ult. sere di carnovale tornò ancora sulle scene nel secolo 19 e si rivede con piacere anche ai nostri giorni (spesso sotto il titolo improprio di Chiasseti e spasseti del carneval de Ven. che appartiene piuttosto alla comm. Chi la fa l’aspetta) per merito dei due valentissimi interpreti del teatro veneziano, Em. Zago e Ferr. Benini: come vedremo più avanti. Fra le vecchie recite ricorderemo quelle che diede nel 1820 e nel 1822 la comp. Morelli, nel t. di S. Benedetto a Venezia (v. Gazz. privilegiata), e quelle della comp. Moro-Lin a Venezia, a Trieste e altrove nel 1875 e nel 1876 (v. Attilio Gentille, Indipendente di Trieste, 30 dic. 1899). Famosa, anzi «unica» interprete Marianna Moro-Lin moglie del capocomico Angelo (v. Rasi, Comici italiani II, 162); famosa nella parte di sior’Alba Enrichetta Foscari (Rivista teatr. ital. VIII, 1910, f. I, p. 62). La recita del 31 gennaio 1876 nel teatro Comunale di Trieste, a pro del monumento di Goldoni a Venezia, fu preceduta da un prologo di Franc. Cameroni (Messaggio di Venezia a Trieste: v. Alb. Boccardi, Teatro e vita, [p. 223 modifica] Trieste 1905, pp. 233-5) e quella del 25 febbraio 1907 nel teatro Fossati di Milano (comp. Zago), per il centenario goldoniano, da un prologo di G. Adami (La parola a Goldoni). Anche la sera del 26 febbraio 1875, inaugurandosi a Venezia «col nome dell’immortale Carlo Goldoni» il vecchio Teatro Apollo, detto già di S. Luca, dopo l’incoronazione del busto del grande commediografo, la compagnia Moro-Lin, che assumeva il titolo di Goldoniana, rappresentò con applauso I chiasseti e spasseti del carneval de Venezia (v. descrizione nella Gazz. di Ven., 27 febbr.).

Sullo stesso Teatro Goldoni, a S. Luca, per commemorare il primo centenario della morte del commediografo veneziano, la Compagnia Gallina, che pure intitolavasi Goldoniana, recitò la sera del 6 febbraio 1893 l’Epilogo composto a quei giorni da Giacinto, con «la scena dei Chiassetti. In fondo il busto di C. G. sopra di un piedistallo... Scena unica. Momolo e Lucieta, indi, a tempo, gli altri personaggi: Sior Lunardo, Cecilia Calandrini, Lugrezia, Marcolina, Nicoleto, Filipo, Checchina, Chiozzotto, Zaneta, Pantalon, Alberto Casaboni». L’Epilogo fu stampato più tardi nella Rivista Teatrale Italiana (a. I, f. 1, 1 genn. 1901, pp. 5-16) da Attilio Gentile, il quale ebbe a notare: «I personaggi goldoniani che il Gallina ha con tanta fedeltà e vivezza rimessi in scena, appartengono alle commedie più note del G.... A festaiolo non poteva venir scelta persona migliore di Momolo (F. Benini) manganaro, il caro e simpatico cortesan di Una delle ultime sere ecc.». La scena risente senza dubbio la fretta della improvvisazione, ma non vi mancano spunti felici di dialogo. Momolo mette pace fra i personaggi goldoniani: «A monte! a monte! Almanco per un momento scordeve el temperamento e i difeti ch’el v’ha dà lu metendove al mondo, e lassè che vegna a gala soltanto quela bontà che el v’ha infuso a tuti e che xe el secreto dela vostra eterna zoventù. Rusteghi, brontoloni, superbi, avari, spendacioni, puntigliosi, fastosi... in fondo in fondo semo tuti boni... Vedelo, sior Lunardo, che semo proprio in famegia?» Inneggia poi all’arte e alla bontà di Carlo Goldoni: «Sì, viva Goldoni! disemo anca nu altri e no solo al creator del teatro italian, ma a l’omo che ga elevà la bontà a l’altezza del genio... Tipo vero schieto del cortesan venezian, el se vanta de no esser sta mai cortigiano in corte... e in mezo a tute le traversie dela so vita, sia bonassa o sia tempesta, no ’l perde mai quel soriso che xe la so forza, che xe el secreto per cui el n’ha messo al mondo». Ricorda Nicoletta, la moglie del commediografo; celebra anche Paolo Ferrari «che ga fato riviver el nostro Goldoni»; e facendosi interprete dell’entusiasmo «de luto un nobile popolo che sente la gratitudine per una dele so glorie più pure e più feconde», termina gridando: «Gloria a Goldoni!».

Lasciamo ora la parola ai biografi e ai critici. Quasi un secolo fa esclamava Domenico Gavi: «Quanto è bella anche questa commedia! che caratteri! che verità! che tocchi di maestro pennello! E tutta schietta, pura, dilicata, nuova, piena d’estro e di varietà, e feconda per invenzione. La scena, sebben così lunga, del giuoco, e l’altra, non meno lunga, della cena, sono tirate con un artifizio che nè comprendere nè ammirare si può abbastanza. Sono almeno undici attori, e tutti in movimento e discorso, ai quali per tener dietro onde intrecciarli e nel dialogo e nell’azione richiedesi una tal forza di fantasia, che se non è straordinaria, è nulla. Anche leggendola posatamente, il pensiero [p. 224 modifica] stenta a tenerle dietro, massime non vi avendo altro segno che i nomi alla margine: rappresentandosi poi dee acquistare un non so che di anima e vita, che la renda del tutto cara e piacevole; ma grand’arte e abilità aver deono i comici a ridurre i gesti, la voce, gli accenti, tutto se, a quella semplicità e natura come si ha veramente a un giuoco di società, a una tavola di amici. Il carattere poi della Francese, introdotta in questa commedia con tanta sagacità, e la scena di lei con Momolo, ove sfido chi valesse a non ridere, è cosa pur bella assai, e inimitabile: in somma si vede sempre il pittor del vero» (Della vita di C. G. e delle sue commedie, Milano, 1826, pp. 161-2). Nel 1860 Ignazio Ciampi osservava: «Non è in questa commedia lungo lamento che ricordi le querele dei moderni poeti. Egli è un semplice e commovente commiato dai cari veneziani». E riferiva, rifatto in lingua italiana, «l’ultimo discorso d’Anzoletto, che mostra l’anima del poeta, e ch’io traduco a malincuore dal dialetto veneziano, donde traspare limpida l’interna commozione» (Vita artistica di G., Roma, 1860, pp. 134-5). Non c’è in fatti recente biografo che si dimentichi di citare quell’appassionato saluto. Scorge il Masi una «grande effusione» nella presente commedia (Lettere di C. G., Bologna, 1880, p. 56). Al Malamani tutta l’opera sembra un «miracolo di dialogo, che le Compagnie Veneziane riproducono, ma ridotta, mostrificata» (Nuovi appunti e curiosità gold., Venezia, 1887, p. 59). Vernon Lee dice: «Era uno di quei quadri semplici e graziosi della vita del mercante di Venezia, ch’erano i capolavori di Goldoni» (Il settecento in Italia, ed. ital., Milano, 1882, II, p. 285). Tutto Concari la chiama «uno dei soliti profili veneziani pieno di vivacità e di movimento, nella melodia carezzevole del nativo dialetto» (Il Settecento, Milano, 1900, p. 122). E, di recente. G. B. Pellizzaro: «Nella blanda dolcezza del dialetto è un quadro colorito e animato» (La vita e le opere di C. G., Livorno, 1914, p. 54). Piacque al Landau (Geschichte der ital. Litt. im XVIII Jahrhudert, Berlin, 1899, p. 416; v. inoltre Allgemeine Zeitung, Monaco, 1896, n. 52-53); il Sauer, parlando del Goldoni, la proclamò «il suo capolavoro» (Geschichte der ital. Litteratur, Lipsia, p. 440). Gonfiò pure la lode Arturo Graf: «Leggete Una delle ult. sere di carn. La favola non è nulla; ma io non so se si possano vedere sulla scena creature più vive di quelle; e il dialogo è cosa che sa di miracolo» (numero unico Teatro Manzoni 1907, p. 35).

Domenico Oliva la pose accanto ai Rusteghi, alle Baruffe, al Campiello, alle Donne gelose, fra i capolavori goldoniani che superano non tanto il tempo in cui furono scritti, «quanto il nostro» (C. G., in Giorn. d’Italia 24 febbr. 1907). «La commedia» scriveva nel 1907, dopo una recita del Benini nel teatro Quirino di Roma, «oltre alla sua rilevanza storica e biografica, per la quale è carissima a tutti gli studiosi..., è fra le più ardite, fra le più moderne: anzi pare alle volte sia troppo avanzata e accenna a un teatro ch’è ancora oggi, 1 gennaio 1907, il teatro dell’avvenire. Ma il pubblico iersera ne intese tutta la bellezza e intellettualmente si divertì e rise e sorrise e applaudì sempre. E gli applausi furono più vivaci e calorosi quando alla fine cadde la tela, e mentre gli attori danzavano il minuetto accompagnati dalla divina melodia del Boccherini». E lodava la interpretazione del Benini «mirabile come sempre», e tutti gli altri attori, fra cui la Benini Sambo «inarrivabile nella parte deliziosamente comica [p. 225 modifica] di Madama Gatteau» (Giorn. It., 1 genn. 1907). - E nel 1910, dopo una recita dello Zago nello stesso teatro: «Il pubblico applaudì tutto, tutti, tutte. Innanzi a ogni cosa il capolavoro: lo conosceva: ma lo si conosce mai abbastanza? Ogni volta che si rappresenta o si legge non vi si scoprono nuove bellezze, nuove perfezioni? Noi sappiamo che questa commedia è una pagina eloquente e commovente di storia letteraria, [ «una pagina autobiografica del G.» disse anche Maria Ortis, G. e la comm. dell’arte, in Cultura, 1 nov. 1912] che nel personaggio di Anzoleto il Goldoni s’è ritratto quando stava per abbandonare la sua Venezia.... Ma a parte questi ricordi che non ci permettono d’ascoltare senza emozione le parole di tenerezza filiale che Anzoleto rivolge alla patria adorata... a parte queste memorie che concedono alla piacevolissima commedia borghese alcun che di lirico e di passionale. Una delle ult. sere ha un valore artistico senza pari, insegnandoci quello che dev’essere il nostro teatro e non è ancora: un teatro puro, semplice riproduzione della vita, senz’artifizi, senza meccanismi, senza intrecci arbitrari». Lodò pure gli attori, sopra tutti Emilio Zago che «iersera figurava il Momolo manganer, quel Momolo allegro, spensierato, buon diavolo, cortesan amabile, che sa prendere la vita dal suo lato migliore, un tipo che il Goldoni usava accarezzare, perchè rappresentava, almeno in parte, quello ch’egli era stato nella sua giovinezza avventurosa e gioconda». «La scena del giuoco della Meneghella e quella divina che la segue fra Domenica e Madama Gateau, e che chiude il secondo atto, parvero quasi risuscitare gli entusiasmi della storica rappresentazione: Domenica era la Marussig, briosa, graziosa, ardita, pungente, e Madama Gateau la Borisi, comicissima col suo linguaggio mezzo francese e mezzo italiano» (Giorn. II., 28 marzo 1910). Anche nel discorso che tenne nel teatro Goldoni a Venezia la sera solenne del 25 febbraio 1907, l’Oliva rievocò l’addio di Anzoleto «alla città natale, semplice, senza frasi, eppure tanto eloquente e vibrante» e l’addio dei Veneziani al Goldoni. Renato Simoni per mostrare tutta l’arte del dialogo goldoniano, citò nel Marzocco le prime parole di Zamaria nella prima scena della commedia e così commentava: «Si può trovar più fresca e più deliziosa pittura d’ambiente? Quei tre tronchi che finiscono il periodo come lo scaldano di un piccolo fervore gioioso, così stretti, così incalzanti, mi sembrano saltellanti, ebbri di grazia e di felicità. Aprono la commedia con una musichetta conviviale nella quale tutti i personaggi si muoveranno con una gentilezza incantevole. E tutta la commedia, iniziata così, è armonica al principio. La scelta delle parole, degli aggettivi è cauta diligente raffinatissima. La gioia placida è espressa con certi diminutivi che paiono restringere la scena, gli avvenimenti, le passioni, a un cerchio discreto ben protetto dalle passioni della vita» (G. e il dialetto, in Marz. 25 febbr. 1907). Altre opportune citazioni con altri sagaci commenti fece dalla scena XI dell’atto 1° e dalla V dell’atto 2°. - Ma tale ammirazione non condivide Attilio Momigliano, il quale osservò, studiando acutamente il Mondo poetico del Goldoni: «Quante volte la sua commedia si regge sulla chiacchiera! Si pensi al principio di Una delle ult. sere» (L’Italia Moderna, V, fasc. 5, 15 marzo 1907). Tullo Massarani si accontentò di notare in questa commedia la «nota melanconica che si tramesce alla solita facile allegria» (Storia e fisiologia dell’arte di ridere. III, Firenze, 1911. p. 150). Anche il più [p. 226 modifica] recente biografo, H. C. Chatfield-Taylor, trova che «questa semplice pittura della vita veneziana» è pervasa da un alito di tristezza, piuttosto che dalla gioia del carnovale (Goldoni. - A biography, New- York, 1913, p. 424). A questa commedia «tutta veneziana» il cui titolo «pare una profezia» (C. G., Milano, 1907, p. 175) dedicò Giulio Caprin un lungo articolo che porta la data del 1907, ma fu stampato soltanto nel 1914 (Rivista Teatrale Ital. XIII, fasc. 3 e 4, 31 luglio e 5 ott.), dove si svolgono con diligenza e con acutezza le vane questioni congiunte all’argomento. «Tutta la commedia» ben dice il Caprin «pare scritta col cuore, e aleggia su tutto un tenue soffio di melanconia. Appena tra i personaggi si è sparsa la notizia che sior Anzoletto parte, la gioia della piccola festa borghese si vela... Via via che l’azione procede, pare che la commozione della partenza pieghi tutti gli animi... Perchè Anzoletto, che ha promesso di tornare, ha il presentimento che forse per lui non riderà la dolce ora del ritorno; e questo presentimento glielo ha istillato in cuore il suo poeta». - E più avanti giudica «delle più semplici» la presente commedia, «anche in confronto con le sole commedie dialettali», ma pur tuttavia «ricca opera d’arte» in cui «si palesa il carattere essenziale della comicità goldoniana... La comicità qui è interamente connessa ai caratteri; e i caratteri non hanno bisogno di essere esagerati di una linea per riuscire piacevolmente comici; lo stesso dialetto, così vivace, così colorito e pittoresco, mette una nota delicata di comicità anche nelle parti serie. Perciò in queste commedie di ambiente umile c’è forse maggior finezza che in quelle in cui agiscono le classi sociali più elevate». Onde oggi, «a un secolo e mezzo di distanza, la semplice allegoria passa in seconda linea e ci accorgiamo, che non è nemmeno indispensabile rievocarla per gustare la commedia. La quale vive a sè, per quel gran soffio di vita che C. Goldoni ha infuso sempre alle sue creature». [Forse il C. si contraddice alquanto dove afferma che nel Raggiratore, nell’Avventuriere onorato, nell’Avvocato veneziano «il lettore non ha bisogno per gustare la commedia di ricercare sotto la figura» del protagonista «la fisonomia arguta e bonaria di C. Goldoni, in Una delle ult. sere di carn. è invece necessario tener presente che Anzoletto è il Goldoni, e che le contingenze sceniche del disegnatore di drappi sono un’allegoria di quelle reali del commediografo del S. Luca». - Scusa poi il C. il giuoco della meneghella, «lunghissima partita per essere giocata sul teatro, ma così bravamente variata che nessuno la sente lunga»].

Scendendo poscia all’esame dei vari personaggi, osserva anche il Caprin che «il tipo più simpatico rimane quel mattacchione di Momolo. Vecchia conoscenza per gli amici del Goldoni, che lo hanno già conosciuto nell’Uomo di mondo, nei Morbinosi ed anche nel Vecchio bizzarro. È il vero cortesan, L’ideale dello scapolo borghese» che qui finalmente «ha fatto giudizio» e sposa «la buona Polonia». Tra i «caratteri» della commedia «ci sono di quelli ridicoli per qualche mania o per qualche singolarità; ma in tutti manca completamente il vizio: e i loro difetti sono quasi l’esagerazione della virtù. Si osservi la interessante coppietta di Augustin e di Elenetta, sposini giovinetti, timidi e sospettosi, gelosi della loro felicità, pronti a criar per troppo amore: la loro venialissima colpa è la selvatichezza di chi è troppo felice nel suo piccolo mondo d’amore per badare anche al grande mondo che è al di là della [p. 227 modifica] persona amata: esclusivismo forse più da innamorati che da sposi; ma Augustin ed Elenetta sono così ragazzi! [A Riccardo Schmidbauer questa coppia parve soltanto «una imitazione di quella delli Innamorati» con «più deboli colori»: Das Komische bei G., Monaco, 1906, p. 161]. «E anche in Sior Lazzaro il carattere non è dato dalla esagerazione di una virtù? Anch’egli vuol troppo bene a sua moglie... In fondo è commovente questo buon uomo... La meno meritevole di scuse sarebbe Madame Gatteau, con le sue pretese di giovinetta.. Ma non esageriamo; essa non è che una vittima dello stato vedovile, e non deve essere poi vecchia quanto Domenica in un momento di gelosia vuol farci credere. Mettiamo che sia la donna di quarant’anni. E poi ha un’attenuante: è francese; e per il Goldoni, specialmente prima che conoscere Parigi, il francese era sempre un tipo venerello e caricato». Gli altri personaggi non hanno nessuna tara: tutta brava gente, con la testa al posto, e con tanto di cuore»; ma non presentano «nessuna nota comica speciale». - Il Caprin si domanda inoltre se nei personaggi della commedia si adombrino membri determinati della famiglia teatrale del S. Luca, ma il riconoscimento individuale non è possibile». Forse in Sior Zamaria «ritroviamo il nobiluomo Vendramin», ma solo «quale padrone della fabbrica di drappi»; e la recamadora francese «si potrebbe supporre simboleggiasse la preparazione che il Goldoni andava facendo sulla lingua e sui costumi di Francia».

Il Caprin prende pure occasione dalla commedia per ricercare quali fossero le ragioni che spingevano il creatore dei Rusteghi lontano da Venezia; e racconta un’altra volta l’origine del viaggio in Francia. Riassumo qui brevemente. «Una delle ragioni» per cui il commediografo «non più giovane si decideva a lasciar la patria, era proprio una ragione finanziaria» cioè la speranza del guadagno. Si aggiungeva «un ragionevole desiderio di gloria, un lodevole bisogno di rinnovamento artistico» ( «No solamente i danari, ma anca un pochetto de onor» dice Anzoletto, II, 3) e «c’è del vero anche nel capriccio», nell’antico «spirito di onesto e curioso avventuriere». L’«aspra e testarda» guerra dei Granelleschi e di Carlo Gozzi gli aveva pur lasciato «qualche cicatrice dolorosa «(Anzoletto vi allude appena nella scena penultima: «Se le xe critiche, sior sì; se le xe satire, sior no»). Infine «una scontentezza imprecisa ma molesta, il ricordo di una infinità di altre piccole noie», come gli «attriti quotidiani con i comici del San Luca» e la durezza di S. E. Vendramin. Ma sulla scena «questo non si poteva dire». - Così egregiamente il Caprin.

Di partire, di cercare miglior fortuna oltre l’Alpi, come lo Zeno, come il Metastasio, come l’Algarotti, come cento e cento altri, pittori, maestri di musica, attori, cantanti, poeti e letterati, era anche abitudine e moda nel Settecento. Da Venezia nel giugno del 1760, ricorda il Gradenigo nei suoi Notatorj, era «sul punto di trasportarsi a Peterburgo» Andrea Urbani, «pittore da ornati, et inventioni», quasi quasi come il finto Anzoletto; e nell’agosto G. B. Fontebasso, più famoso «pittore di Storie» (ivi). E sui 20 di marzo del ’62, qualche settimana prima di Goldoni, stava per partire per la Spagna «col signor Giovanni Domenico suo Figlio» G. B. Tiepolo (Nuovo Gazz. Ven., n. 3). Si compiva l’eterno esodo dell’arte italiana (v. G. Ortolani, Divagazioni goldoniane, in Adriatico 21 ott. 1907). Più ancora che gli applausi [p. 228 modifica]del pubblico parigino a un suo vecchio scenario dovettero parere di ottimo augurio al Goldoni le lodi recenti del Voltaire. Quale più prezioso biglietto di presentazione per uno straniero dei notissimi versi?

Il trionfo sul teatro di S. Samuele del Corvo di Carlo Gozzi (24 ott. ’61) dovette, sempre più confortare l’autore delle Baruffe chiozzotte nella decisione presa. È impossibile leggere la prima scena dell’atto V di quella fiaba senza pensare alla prossima partenza del dottor Goldoni. Ricordate? Truffaldino e Brighella si avanzano «con un fardello sotto al braccio de’ loro mobili. Avranno risolto di abbandonar quella Corte, resa troppo infelice.... Brighella è avaro. Trova troncate le vie di utilizzare per la mestizia introdotta; dunque l’uomo d’abilità deve abbandonarla. Truffaldino è un parasito. Trova la cucina inoperosa, tronche le vie de’ stravizzi; dunque l’uomo di abilità deve abbandonarla... Brighella: che ivi stanno come fioretti in mare, pesci in prato ecc.. Truffaldino anzi come Comici in un teatro poco frequentato. Dopo un dialogo, che satiricamente dimostri due servi cattivi, che non sentono gratitudine de’ benefizi ricevuti, ma abbandonano i loro padroni caduti in miseria, giudicando che così deva fare l’uomo di spirito, per cercar miglior fortuna altrove, entrano».

Non sembra un’anticipata e crudele parodia del saluto d’Anzoletto? Anche l’abate Chiari, l’antico rivale placato e riconciliato, lasciava per sempre il teatro di S. Gio. Crisostomo e partiva per Brescia. A Venezia restava padrone incontrastato delle scene l’autore delle Fiabe, e la commedia a braccia pareva riprender vigore. A menare la frusta contro il glorioso riformatore e creatore della commedia italiana, lontano ormai da Venezia domile mia, giungeva sulle lagune Giuseppe Baretti. Anzoletto non tornò più. Goldoni visse ancora più di trent’anni, in Francia, scrisse ancora qualche opera durevole in italiano e in francese, ma «il grande scrittore comico veneziano» come dice Vernon Lee «cessò di esistere quando calò il sipario del teatro di S. Angelo dopo l’Ultima sera di carnovale» (l. c, 287). Anche Mantovani malinconicamente soggiunge: «...Egli poteva dirsi spento col calar della tela su l’ultima scena dell’ultima sua commedia dialettale:» (C. G. e il teatro di S. Luca a Ven., Milano, 1885. p. 61).

G. O.


Una delle ultime sere di carnovale uscì a stampa la prima volta a Venezia nel t. XVI (1778?) dell'ed. Pasquali, e fu ristampata a Lucca (Bonsignori XVIII, i89), a Bologna (S. Tomaso d’Aquino, 1790), ancora a Venezia (Zatta, cl. 2, t. XII, '92), a Livorno (Masi XXIX, '93) e forse altrove nel Settecento. La presente edizione seguì i testi più curati del Pasquali e dello Zatta. Valgono per la grafia del dialetto veneziano le avvenenze tante volte ripetute.