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NOTA STORICA.

Nel numero 97, che uscì ai 6 febbraio 1762, la Gazzetta Veneta redatta dall’abate Pietro Chiari annunciava: «Nel Teatro a S. Luca si promette altresì una Commedia col titolo: Un giorno di Carnovale»; e quindi aggiungeva: «nel che si osservi come due fantasie Poetiche incontrate si sono nella somiglianza de loro Comici pensieri, senza che l’una sapesse dell’altra, perchè anche nel Teatro a S. Gio. Crisostomo, dopo la Commedia delle Bronze coverte, se il tempo lo permetterà, se ne rappresenterà un’altra intitolata: El Zioba grasso, di carattere corrispondente al suo titolo».

Del Zioba grasso, commedia scritta dal Chiari e recitata dal Medebach, null’altro possiamo dire, perchè non fu mai stampata. Quella del Goldoni ebbe un ottimo successo, come racconta l’autore nelle Memorie; e la sera del martedì grasso (23 febbraio) l’ultima recita si chiuse fra le grida del pubblico veneziano che augurava buon viaggio e felice ritorno a chi da quattordici anni con fatica costante aveva arricchito di tanti capolavori il teatro, e si allontanava dalle lagune, ov’era nato, verso l’ignoto destino. Buon viaggio, Tornate presto. Il Goldoni confessa che da questa affettuosa manifestazione fu commosso alle lacrime; e ricordò forse quella sera ormai lontana in cui il pubblico del S. Angelo, dopo la recita dei Pettegolezzi delle donne, ultima delle sedici commedie dell’anno 1750-51, festeggiò il figlio diletto di Venezia. Buon viaggio, Tornate presto. Il Goldoni partiva col cuor strazzà, ma la partenza fu senza ritorno.

Il pregio massimo di questa commedia consiste appunto nella tenerezza che pervade qua e là i personaggi, e nel ricordo storico che le è per sempre associato. Nessun artista comunicò mai così familiarmente e così profondamente col pubblico, come il Goldoni. Il Goldoni fa salire il pubblico stesso sul palcoscenico e scende egli stesso fra i suoi uditori. Mai l’arte fu più popolare. In questa commedia vi è quasi una conversazione larvata fra il pubblico e l’autore. Con modestia il Goldoni, per bocca di Anzoletto, ricorda l’opera sua passata e accenna alla futura; fa le sue confidenze sul viaggio pagatogli; mescola le lodi della sua patria: Venezia no xe scarsa de bei talenti ecc.; si lagna con dolcezza delle satire; di questo solamente si vanta: mi no gh’ho altro de bon a sto mondo che la schiettezza de cuor; lascia che altri si meravigli della sua partenza (a. II, sc. 7); e finalmente, vinto dagli affetti, prorompe in quelle parole dell’ultima scena, piene di pianto represso, che commuovono ancora, dopo un secolo e mezzo, ogni Veneziano, come l’ultima sera