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Trieste 1905, pp. 233-5) e quella del 25 febbraio 1907 nel teatro Fossati di Milano (comp. Zago), per il centenario goldoniano, da un prologo di G. Adami (La parola a Goldoni). Anche la sera del 26 febbraio 1875, inaugurandosi a Venezia «col nome dell’immortale Carlo Goldoni» il vecchio Teatro Apollo, detto già di S. Luca, dopo l’incoronazione del busto del grande commediografo, la compagnia Moro-Lin, che assumeva il titolo di Goldoniana, rappresentò con applauso I chiasseti e spasseti del carneval de Venezia (v. descrizione nella Gazz. di Ven., 27 febbr.).
Sullo stesso Teatro Goldoni, a S. Luca, per commemorare il primo centenario della morte del commediografo veneziano, la Compagnia Gallina, che pure intitolavasi Goldoniana, recitò la sera del 6 febbraio 1893 l’Epilogo composto a quei giorni da Giacinto, con «la scena dei Chiassetti. In fondo il busto di C. G. sopra di un piedistallo... Scena unica. Momolo e Lucieta, indi, a tempo, gli altri personaggi: Sior Lunardo, Cecilia Calandrini, Lugrezia, Marcolina, Nicoleto, Filipo, Checchina, Chiozzotto, Zaneta, Pantalon, Alberto Casaboni». L’Epilogo fu stampato più tardi nella Rivista Teatrale Italiana (a. I, f. 1, 1 genn. 1901, pp. 5-16) da Attilio Gentile, il quale ebbe a notare: «I personaggi goldoniani che il Gallina ha con tanta fedeltà e vivezza rimessi in scena, appartengono alle commedie più note del G.... A festaiolo non poteva venir scelta persona migliore di Momolo (F. Benini) manganaro, il caro e simpatico cortesan di Una delle ultime sere ecc.». La scena risente senza dubbio la fretta della improvvisazione, ma non vi mancano spunti felici di dialogo. Momolo mette pace fra i personaggi goldoniani: «A monte! a monte! Almanco per un momento scordeve el temperamento e i difeti ch’el v’ha dà lu metendove al mondo, e lassè che vegna a gala soltanto quela bontà che el v’ha infuso a tuti e che xe el secreto dela vostra eterna zoventù. Rusteghi, brontoloni, superbi, avari, spendacioni, puntigliosi, fastosi... in fondo in fondo semo tuti boni... Vedelo, sior Lunardo, che semo proprio in famegia?» Inneggia poi all’arte e alla bontà di Carlo Goldoni: «Sì, viva Goldoni! disemo anca nu altri e no solo al creator del teatro italian, ma a l’omo che ga elevà la bontà a l’altezza del genio... Tipo vero schieto del cortesan venezian, el se vanta de no esser sta mai cortigiano in corte... e in mezo a tute le traversie dela so vita, sia bonassa o sia tempesta, no ’l perde mai quel soriso che xe la so forza, che xe el secreto per cui el n’ha messo al mondo». Ricorda Nicoletta, la moglie del commediografo; celebra anche Paolo Ferrari «che ga fato riviver el nostro Goldoni»; e facendosi interprete dell’entusiasmo «de luto un nobile popolo che sente la gratitudine per una dele so glorie più pure e più feconde», termina gridando: «Gloria a Goldoni!».
Lasciamo ora la parola ai biografi e ai critici. Quasi un secolo fa esclamava Domenico Gavi: «Quanto è bella anche questa commedia! che caratteri! che verità! che tocchi di maestro pennello! E tutta schietta, pura, dilicata, nuova, piena d’estro e di varietà, e feconda per invenzione. La scena, sebben così lunga, del giuoco, e l’altra, non meno lunga, della cena, sono tirate con un artifizio che nè comprendere nè ammirare si può abbastanza. Sono almeno undici attori, e tutti in movimento e discorso, ai quali per tener dietro onde intrecciarli e nel dialogo e nell’azione richiedesi una tal forza di fantasia, che se non è straordinaria, è nulla. Anche leggendola posatamente, il pensiero