Un romanzo/XXI
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XXI.
Il pensiero più naturale che possa avere una donna quando ha un amante pittore, è quello di farsi fare il ritratto.
Réa ebbe tale pensiero e l’innamorato la accolse con entusiasmo. In dodici ore trasformò il suo studio — tappeti per terra, cortine alle finestre, candelabri, ninnoli eleganti, fiori dappertutto, ed una sultane di velluto cremisi, che Roberto guardava spesso, e che gli dava le vertigini.
Roberto non era un vanerello di quelli che si pavoneggiano perchè una donna d’alto bordo si occupa di loro. Se egli fosse stato un re ed ella una contadina non l’avrebbe amata con minor trasporto nè con minor venerazione. Nessuna idea di interesse, di calcolo, nè tampoco d’amor proprio, offuscava lo splendore del suo affetto. Egli si abbandonava alla passione franco e sereno, lasciava che il suo cuore parlasse e ne sgorgavano torrenti di tenerezza.
Cieco, perchè senza cecità non vi è assoluto amore, Roberto entrava, senza accorgersi, in un gineprajo che non aveva uscita.
Già colmo di debiti intascò, senza guardarla, la polizza del tappezziere — ottocento lire — e vendette per cinquanta lire il suo ultimo quadro onde poter completare quelle mille superfluità che sono un bisogno delle donne eleganti.
Si faceva ima festa pensando alla soddisfazione della contessa e fu un po’ mortificato quando ella, sedendo sulla sultane, e socchiudendo le palpebre indagatrici si lasciò sfuggire queste parole:
— Velluto rosso.... cattivo genere! — somiglia troppo all’interno d’un omnibus o al salotto di una modista.
Il giorno dopo la sultane fu rimandata al tappezziere e venne in sua vece un vis-à-vis di broccato verde-mare a fiorami di un verde più cupo — magnifico! — ma la noterella crebbe di cento lire.
Roberto non se ne dava pensiero. Immerso nell’estasi dell’amore di null’altro si curava fuorchè del suo idolo — ed era una idolatria da selvaggio — fanatica e superstiziosa.
Ella prendeva gusto alla commedia — dell’attore si occupava come di uno strumento — era del resto un bel giovane e tanto valeva lui quanto un altro.
Non era cattiva la contessa. Materialmente non aveva mai fatto male ad alcuno; gentile con tutti; tollerante e buona colla servitù; caritatevole., secondo Fuso, ed inscritta fra le patronesse nelle fiere di beneficenza — dopo tutto senza cuore — oh! ma al punto che una macchina da orologio ne ha più di lei.
Forse per questo si conservava meravigliosamente bella.
Roberto non accontentandosi di vederla, alla mattina, posare sorridente davanti al suo cavalletto mentre colla mano tremante ne copiava le linee divine, la seguiva al Corso, assisteva immancabilmente al suo circolo del giovedì, e alla sera la ritrovava in teatro.
Come è facile immaginare, un tal genere di vita è dispendioso, e — circostanza grave — Roberto non lavorava più; gli mancava il tempo e la voglia; gli mancavano eziandio le commissioni.
Qualche volta il povero giovane si spaventava pensando all’avvenire; ma vi pensava il meno che poteva e un bacio di Réa lo consolava d’ogni afflizione.
Una sera, alla Scala, tutti gli occhi erano rivolti su un palchetto di seconda fila. La contessa vi sfoggiava una nudità così ardita e così splendida che abbagliava. Le spalle lottavano vittoriose con un vestito di raso bianco del quale, in platea, non si scorgeva nemmeno un filo; la sua testa di creola si innalzava superba dal candido busto, cinta appena da una treccia nera, che dopo aver girato intorno alla nuca andava a perdersi nelle nevi del seno — e chi non vi sarebbe perduto insieme ad essa?
Il palco era riboccante di adoratori. Roberto, appoggiato a uno scanno d’orchestra, aspettava impaziente che la folla si fosse diradata intorno al suo idolo ed intanto implorava uno sguardo attraverso il cannocchiale di tartaruga che la contessa avvicinava tratto tratto alle pupille.
Quel cannocchiale diretto da una mano volubile si appuntava in tutti gli angoli del teatro, arrestandosi in nessun luogo, finchè rimase immobile dritto verso un palchetto di proscenio.
Un uomo solo lo occupava sdrajato in una posa piena di noncuranza. — Olimpio.
Il pittore appena lo ebbe riconosciuto, volò a lui e senza nemmeno salutarlo lo assalì di domande:
— Conosci quella signora? Le hai mai parlato? Ed alla ti conosce?
Olimpio accomodò nel taschino, sopra il cuore, relegante fazzoletto di battista che minacciava di uscire e rispose tranquillamente:
— No.
Roberto sentì il bisogno di dirgli che lui la conosceva — e dal modo che lo disse Olimpio capì subito che era l’incognita del coupé.
Le volse allora uno sguardo — un unico sguardo intenso — in quel momento la contessa aveva deposto il cannocchiale e leggermente inclinata sul parapetto, coll’occhio luminoso, la bocca sorridente, le sue belle spalle nude senza un velo e senza una gemma appariva così divina, che per trovare in tutto il teatro una beltà simile alla sua conveniva appagarla con Olimpio.
Splendidi entrambi di fascino, di seduzioni, di audacia superba, di sicurezza sfrontata.
Dopo quello sguardo ricambiato — poichè ella lo ricambiò — e i raggi delle loro pupille si urtarono facendo scaturire scintille di fuoco — Olimpio si alzò con grazia per cedere il suo posto all’amico.
— Come è bella! mormorò Roberto.
— Sei sempre innamorato? chiese Olimpio lasciando cadere senza eco l’esclamazione ammirativa.
— Lo sarò finch’io vivo, dovessi chiedere il pane dell’elemosina o trascinare la catena del galeotto! Ma nessuno lo sa; tu, amico mio, sei il confidente di una passione che io circondo di mistero, come si circondano di veli le cose sante. Nella, moltitudine che l’adora io mi nascondo fra gli umili, rubo alla folla la mia felicità per goderla io solo; sacrifico la parte di amante fortunato perchè ho il mio angolo di cielo dove non viviamo che io e lei.
Roberto continuò un pezzo su questo tenore ed Olimpio lo ascoltò religiosamente, non voltando mai il capo dalla parte della contessa — attenzione delicata che l’amante apprezzò moltissimo — fino alla metà del secondo atto, momento in cui Roberto prese commiato per andare a mettersi in coda.
— Addio, disse Olimpio; io vado a casa.
— Come! digià?
— Sono annojato.
Roberto fu persuaso facilmente che si potesse annojare senza amore e strinse la mano dell’amico compiangendolo in segreto.
I vagheggini si succedevano e si rinnovavano nel palco della contessa come le onde del mare sulla spiaggia; ella sorrideva a tutti invariabilmente e ognuno si appropriava la dedica del sorriso. Il pittore rimase fino all’ultimo disputando con due o tre il dolce incarico di presentarle la pelliccia d’ermellino e di offrirle il braccio per salire in carrozza.
Chiuso appena lo sportello del coupé, invece di gettarsi nel fondo ella si affacciò allo sportello opposto, e Roberto che, da perfetto geloso, stava sempre all’erta, vide disegnarsi sul muro il profilo di un giovane biondo.... Pareva tutto Olimpio. Ma Olimpio era già partito da due ore e la supposizione usciva dal probabile.
Il profilo guizzò via, il coupé prese la corsa, e Roberto non sentì nulla, proprio nulla in fondo al cuore — nemmeno l’ombra d’un sospetto.
Dal giorno che il nostro scapestrato eroe s’era messo in camere d’affitto i due amici avevano cessato di fare vita insieme e quasi di vedersi. Le poche volte che si erano incontrati Roberto non aveva potuto a meno di osservare l’eleganza sfoggiata dal suo amico, i suoi abiti sempre nuovi e tagliati sull’ultimo modello, le sue cravatte che portavano il marchio della distinzione e di quindici lire di costo. La vita campagnuola non aveva annerite le sue mani elastiche e bianche sulle quali brillava tuttora il magico solitaire; i suoi capelli erano sempre biondi, i suoi baffi sempre morbidi e sottili; sempre irresistibile il suo sorriso ed i suoi occhi sempre azzurri. Un’eterna giovinezza raggiava sulle linee corrette di quel volto, strana fusione d’angelo e di demonio, accoppiamento fatale della bellezza esterna con un’anima indegna. Pesavagli addosso la minaccia di sequestro e la non lontana prospettiva di prigione per debiti, ma queste inezie non gli impedivano di godere gli ultimi giorni di carnevale e di approfittare della simpatia che tutte le donne avevano per lui.
Cambiava spesso e nelle ultime ventiquattro ore lo si era visto passeggiare con una signora dai capelli tinti in giallo.
Giulia sapeva tutte queste cose. Amici zelanti le raccontavano in confidenza alla signora Chiara, e l’ottima creatura non avrebbe taciuto se le avessero mozzata la lingua. Ella pensava che era meglio aprire gli occhi a quella povera ragazza — ma la povera ragazza li aveva aperti pur troppo e non v’era pericolo che tornasse a chiuderli.
Olimpio, veramente, aveva fatto qualche tentativo per sorprendere la buona fede di sua moglie. Fra gli altri le aveva scritto una lettera disperata confessandole che si trovava in una miseria estrema, che lo zio Prospero tornato da Nizza adiratissimo non aveva voluto riceverlo: tutti i suoi sforzi per farsi dare una somma che lo mettesse in posizione di accomodare le sue faccende e partire per Testerò erano andati falliti. Due o tre frasi esaltate palesavano l’eccitazione di un uomo che si vede abbandonato da tutti e che è pronto alle più pazze risoluzioni. Terminava con un caldo appello al loro amore d’una volta, a sentimenti, se non d’affetto, di compassione e d’umanità scongiurandola a recarsi dallo zio Prospero e tentare di commuoverlo in suo favore.
Giulia non amava più suo marito — ma era buona, sensibile e sparse qualche lagrima su quella finta desolazione.
Senza porre indugio si vestì e incontrando la signora Chiara sulle scale non le nascose che andava dallo zio Prospero. La vedova crollò il capo mormorando:
— Faccia lei... ma io non vorrei più immischiarmi; ha chiesto un parere a Pompeo?
Giulia disse che non l’aveva chiesto, ma che il cuore le suggeriva di non rifiutare il suo appoggio ad un’opera di pentimento e di redenzione.
Seconda crollatina della signora Chiara, accompagnata questa volta da una stretta di mano e da un bacio su ambe le guancie:
— Basta, ci rivedremo!
La signora Chiara salì, Giulia discese. Strada facendo vide Olimpio per l’appunto, in piedi sulla soglia di un caffè alla moda che ciarlava scherzando con una fioraja — scelse delle gaggie nel panierino e se le appuntò all’occhiello; tornò a scegliere e preso un garofano vermiglio lo infilò nelle treccie della ragazza che si schermì ridendo, ma poi accettò, oltre il garofano una guanciatina amichevole.
Giulia sentì una stretta al cuore, i ginocchi le si piegarono e per un istante un fitto velo le coperse gli occhi — si rifrancò quasi subito però e il dispetto subentrando al dolore le fece accelerare il passo.
Sì pensava — anderò dal signor Prospero e se posso ottenergli la somma che desidera non lo vedrò almeno più. Terre e mari ci divideranno e l’oblio cancellerà tutti gli affronti.